sabato 23 ottobre 2010

Colpa della polpa


Ormai lo sapete tutti, la notizia è di pubblico dominio. Il polpo Paul, il mitico indovino divenuto celebre nel corso dei mondiali di calcio in Sudafrica per le sue azzeccatissime previsioni, è stato trovato morto nella sua preziosa vasca di cristallo. Il custode dell’acquario di Oberhausen lo ha rinvenuto riverso senza vita nell’acqua. Secondo le agenzie di stampa, il povero Paul è morto per cause naturali.

Ma il nostro inviato a Oberhausen, il pesce pagliaccio Nemo, ci può svelare tutti i retroscena. Subito i responsabili dell’acquario hanno sospettato che la morte dell’indovino non fosse poi così chiaramente naturale. Dopo animate consultazioni, passati in rassegna tutti i grandi detective, Annelore Locascio, un’impiegata di origini italiane ha suggerito di convocare il Commissario Montalbano. Questi, che era per una volta in vacanza a Boccadasse con la smorfiosa Livia, già non ne poteva più e ha colto al volo l’occasione di raggiungere Oberhausen – avrebbe investigato pure sulla tortura delle mosche pur di abbandonare l’opprimente e gelosissima fidanzata.

“Montalbano sono!”.
“Piacere, sono il direttore dell’acquario. Come le ho accennato per telefono, vorremmo indagare sulla morte di Paul”
“Paul... il purpo?”
“Sì, il povero Paul”.

Montalbano si cataminò, girò attorno alla teca in cui giaceva ancora il catafero del purpo, tuppiò sul vetro, come se sperasse che Paul si potesse arrisbigliari, poi principiò a spiare qualche dimanda:

“Olandesi in giro non se ne sono visti?”
“No, commissario. Avevamo pensato anche noi che si volessero vendicare per la previsione della finale”
“I tedeschi invece?”
“No, i tedeschi lo amavano, tutti. Dopo il 4-1 all’Inghilterra, poi... lo adoravano”
“Sicuro che non c‘è in giro qualche pezzo di cacio, sa, quello con la crosta rossa?”
“No, glielo assicuro”
“Eh, ma gli olandesi sono i principali indiziati... Comunque, patate? Pomidori? Piselli? Non avete trovato del sugo?”
“No, ma che dice?”
“Pensavo... No, sa, una bella saltata in tegame”
“Il polpo è lì”
“E Ahmadinejad?”
“Come Ahmadinejad?”
“No, siccome tempo addietro aviva sproloquiato sulla decadenza di noi occidentali, sulle nostre scaramanzie... Non avete trovato in giro un sicario iraniano? Qualichiduno con la varba longa e il fari sospetto?”

All’improvviso il ciriveddro di Montalbano si addrumò come una lampadina, il suo fiuto di segugio gli diciva che qualichicosa lì era fora posto. Notò una teca accanto a quella del purpo Paul, precisa intifica, ma vacante.

“E questa che cos’è? La secunda casa di Paul?”
“No, è un’altra vasca: fino a ieri c’era un esemplare femmina di Octopus Vulgaris”
“No, mi faccia capire pirchì, si spieghi meglio”
“C’era Mary, un polpo femmina. L’abbiamo trasferita all’acquario di Genova”
“Genova... Macari lei!”
“Come anche lei?”
“No, guardi, non si preoccupi. Stavo pensando alla mia fidanzata”.

Montalbano prese una seggia e si assittò davanti alla vasca. Taliò il purpo dentro gli occhi. Lo sguardo languido da cefalopode era ancora più triste, spento. “Epperforza, è morto” gli sussurrò nella testa la vocina di Montalbano Secondo. “Non adesso, sto indagando”. Taliò a longo il purpo e si fici persuaso.

“Il vostro purpo Paul si è ammazzato”
“Ma che dice?”
“Suicidio d’amuri fu”
“D’amore?”
“Paul e Mary erano come un’anima sola. Quando aieri avete trasferito Mary, a Paul non gli importava più di vivere. Accussì si è suicidato battendo il capo sullo spigolo della roccia. Non si nota perché le vucche, sì, i tentacoli sono tutti ‘nzemmula, ma l’ematoma esterno lo denota. L’ha fatto per la so’ zita. Mi spiegai? E adesso mi può indicare il miglior ristorante italiano nei dintorni?”
“C’è la Forchetta d’oro”
“Ha per caso il nummero di tilefono?”
“Sì, guardi, è scritto sul pieghevole: è convenzionato con l’acquario”
...
“Pronto, la Forchetta d’oro? Montalbano sono. Posso prenotari per pranzo tra una mezzorata? Va bene. Ce l’aviti il purpo in umido?”


Polpo Paul

sabato 16 ottobre 2010

Rimpatriata


Eccoci qui, attorno a un tavolo nel giardino di un ristorante chiuso per il turno settimanale, davanti le tazzine di caffè, le bustine di zucchero, le bottiglie di acqua minerale, i bicchieri con un dito di whisky, i posacenere che chi fuma ha riempito di mozziconi. Tanti anni dopo. Troppi anni dopo. Seduti a rivangare il passato, a ricostruire pezzi di vite e giorni e anni, a ricordare chi non è venuto a questa rimpatriata, a guardare quei volti così mutati dall’ultima volta che ci siamo visti, quei corpi ingrassati, quei capelli ingrigiti o diradati.

Gianni sta raccontando di quando è stato in Thailandia, ci sta illustrando le meraviglie di un night club di Pukhet. Lo ascoltiamo come lo ascoltavamo allora, quando in mensa parlavamo del mondo fuori, di ciò che non era il Collegio, la scuola.

Al Collegio siamo stati stamattina, abbiamo pranzato là in quel medesimo refettorio, così cambiato da allora: rimpicciolito, le pareti dipinte d’arancione, i tavoli moderni, le sedie di plastica colorata. A quei tempi c’erano sedie di legno e tavoli rivestiti di fòrmica, i muri erano chiari, di un tenue giallo. La ricordiamo bene quella tinta: quando ci punivano per qualche motivo, anche solo per aver rovesciato sulla tovaglia il bicchiere dell’acqua, restavamo là per lunghi minuti in piedi a rimirare il muro. “Roba da Telefono Azzurro” ha detto Gianluca, “adesso li denunceremmo tutti”. Gianluca, “Vampiro” per i suoi denti aguzzi, ora è rianimatore in ospedale e ha l’Africa nel cuore, i bambini che va a curare gratis due mesi all’anno in Burundi. Quando siamo stati al bar per un aperitivo, ci ha raccontato della miseria infinita che c’è laggiù, ci ha commosso quando ci ha parlato di un bambino bellissimo che non è riuscito a salvare perché è finita la bombola dell’ossigeno e l’ambulatorio locale non poteva permettersene altre. Adesso non c’è, Gianluca: è tornato a Milano, questa notte è di guardia. Ma c’era quando abbiamo ripercorso i corridoi del Collegio, soffermandoci a osservare nelle aule, a rimirare il mosaico che raffigura uno scolaro correre nell’arcobaleno. Che controsenso: correre nei corridoi era considerata una grande mancanza, così come gli schiamazzi. E invece un paio di ore fa ridevamo e correvamo, adulti in quei corridoi che un tempo ci erano sembrati così grandi, ci fermavamo a osservare le foto di classe, a riconoscerci in quei ragazzi così cambiati, a riconoscere quanti non sono qui oggi e a biasimare qualcuno che non si è neppure degnato di rispondere all’invito. È Patrizio, “Gatto”, soprattutto a essere contrariato: lui ha organizzato tutto quanto; lui è la memoria storica della nostra classe: a ogni volto di quelle fotografie sa dare un nome, sa dire dove abitava e raccontare qualche aneddoto dei tempi del Collegio. Quando mi ha chiamato per trovare i nuovi indirizzi, mi sono attivato subito per aiutarlo.

E ora siamo qui, al ristorante di Marco, che non ha potuto venire a pranzo perché a mezzogiorno doveva lavorare. Infatti gli ultimi clienti se ne stavano andando quando siamo arrivati noi. Stasera è chiuso e possiamo restare quanto vogliamo. Pierpaolo continua a guardare Marco: lo trova cambiato. Tutti ci troviamo cambiati, tranne i pochi che si sono frequentati saltuariamente in tutti questi anni. Paolo sembra più basso, Gianpietro invece è più alto di come ce lo ricordavamo, l’altro Gianpietro non è potuto venire – è a letto con l’influenza – ma ora è al telefono a dirci tutto il suo rammarico. Il cellulare di “Gatto” passa di mano in mano: saluta tutti, lo salutiamo tutti. Ci ritroveremo presto, gli promettiamo: Marco ci riserverà una sala. Una sera d’inverno ci ritroveremo ancora, tutti quanti, molti di più.

Sopra di noi passano bianche nuvole leggere nel cielo azzurro: anno dopo anno, penso. Pierpaolo forse intercetta il mio sguardo: “Certo che ne sono passati di anni, ragazzi. Pensate che domenica prossima parto per l’Egitto: sono sposato da vent’anni...”

È vero: tanto tempo è passato. Troppo. Lo leggiamo nelle rughe, negli occhiali, nelle stempiature, nelle calvizie. Ma siamo sempre noi, i ragazzi della sezione A, come se non avessimo questi trentadue anni di vita in più sulle spalle, come se invece dell’automobile nel parcheggio ci fosse ancora la bicicletta appoggiata al muro, come se a casa invece della moglie, della compagna, della fidanzata ci fosse la mamma ad aspettarci per la cena...


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