sabato 13 agosto 2022

Miles

Come promesso quando presentai “Vetro”, ormai diciotto mesi fa, ho raccolto i racconti che ricordano i miei 350 giorni di naja alpina. Se vi va, potete leggerlo su Kindle (gratis per chi ha Unlimited) o acquistarlo in edizione cartacea su Amazon. Cento pagine che si leggono velocemente, compreso un imperdibile e introvabile glossario del gergo di caserma di allora (Superpippo, senzalbe, tralicci, la Max eccetera). Location le caserme Rossi, Bosin e Battisti di Merano, la città, Ponte di Legno e il poligono di Salorno…

Questo il “lancio”:
Lo Stato ha richiesto per anni, fino al 2004, ai cittadini maschi abili e arruolabili di prestare un anno di servizio militare. Questi racconti sono i ricordi del mio anno di leva: incorporamento, servizi, libere uscite, personaggi conosciuti allora; alcuni addirittura furono come fratelli in quel breve lasso di tempo in cui condividemmo caserma, camerata, ufficio, treni, automobili che ci portarono in giro per l’Alto Adige, panchine, bar e ristoranti, e che scomparvero da un giorno all’altro con il congedo per non ritornare, alcuni mai più, altri casualmente ritrovati su Facebook. Chi ha "fatto la naja" avrà modo di rinverdire i propri ricordi e chi non l'ha fatta, per età, perché ritenuto non idoneo o per scelta, potrà farsi un'idea di quello che è stata, almeno nel corso degli anni di grazia 1988-1989 all'interno della Brigata Orobica di Merano.





sabato 7 dicembre 2019

Un pugno di sabbia

 
Nella luce color rame del tramonto solo il rumore del mare e le stridule grida dei gabbiani. Un'altra estate finisce nel ricordo dei giorni passati, di un amore perso e ritrovato in continuazione, di un'amica di un giorno solo che è appena ripartita, è tornata a Trieste e fra poco riprenderà il suo lavoro. Ha puntellato il vuoto lasciato da Paola, ha consentito alla mia anima ferita di non affondare, mi ha consolato.

Ogni addio lascia un sapore amaro. In un giorno diverso questo tramonto sarebbe stato dolce, infinitamente dolce, e io avrei bevuto gli occhi di Paola. Ma oggi vedo solo il grigio abbraccio della malinconia: è settembre ormai: non ci sono che pochi ombrelloni, i pattìni li hanno già portati via per il sonno dell'inverno. Non voglio che anche il mio cuore cada in letargo. Ormai non c'è più nessuno che si spalma di olio di cocco, nessuno che cerca conchiglie, nessuno più ascolta musica banale dalle radio private. Non ci sono più ragazze alte e magre vestite di Lastex scollato e sgambato, occhiali scuri e sexy-girl, turisti stranieri con cui parlare in inglese. Non ci sono più le pizze di mezzanotte dopo una passeggiata romantica in riva al mare. E non c’è più lei, andatasene senza neanche sbattere la porta. 

Una radiolina accesa sussurra i risultati della prima giornata di campionato: la mia squadra ha perso ma che importa se io ho perso Paola? Non riesco a decidermi e continuo a guardare il mare arrossato dal tramonto e i gabbiani che scendono sempre più bassi. Scende la sera piano piano e con lei era così dolce sentirla arrivare. Due pescatori raccolgono le canne e i cefali e si incamminano verso la strada. Li seguo e li sento parlare di donne. Raccolgo un pugno di sabbia: è tutto quel che resta del nostro amore: il ricordo.

1984

 
Simon
T.J. SIMON, “SPIAGGIA ASSOLATA A FÉCAMP”





sabato 2 novembre 2019

Una foglia


È il tramonto ormai. Siedo al belvedere del santuario, a questo tavolo di pietra inciso dalle piogge e guardo la strada scorrere laggiù, le automobili e i camion che si susseguono sulla fettuccia d’asfalto tra le case. Quello infatti pare essere da quassù. Più lontano si adagiano i monti, come grigi sauri preistorici che bruchino nel pianoro verde di colline: la Grigna innalza il suo dente aguzzo, il Resegone ha ancora un po’ di neve, Valcava è uno spelacchiato altipiano dove spiccano i ripetitori delle televisioni. Là, da qualche parte c’è il lago con le sue acque azzurre, qui serpeggia l’Adda, invisibile tra i boschi: se ne può intuire il corso dallo spazio vuoto tra le piante. La mia vista è sul nord-ovest: il sole sta scendendo dall’altro lato, oltre la collina, non lo posso vedere, ma ne scorgo i riflessi sulle creste del Resegone, sui vetri di qualche casa che fanno la gibigiana, sulle facciate giù nella vallata.

C’è pace e tranquillità, il tempo sembra immobile, e invece le campane lo scandiscono ogni quarto d’ora. Dai miei pensieri mi distoglie una foglia staccatasi dai rami ancora nudi del platano: è caduta planando sul tavolo di pietra con un rumore secco, di carta. L’azzurro della sera è sembrato dileguare in quel momento, ma forse non è che un altro minimo abbassarsi del sole al tramonto. È bastato per ritornare a pensare allo scorrere dei giorni: ho risentito la voce di Paola dire “Come il vento, scorre come il vento il tempo” mentre dal pugno lasciava scendere un filo di sabbia. Tanti anni fa. Una vita fa.

Una ragazza risale leggera la lunga scalinata che dalla strada porta al Santuario: ogni gradino un’Ave Maria. Chissà per che cosa prega, chissà quali tormenti avrà. I suoi passi cadenzano il mio cuore, salgo con lei rimanendo qui seduto. E invece vorrei volare libero, lassù, nel cielo dove i gabbiani risalgono con eleganza verso il lago dopo aver banchettato a qualche discarica. Si librano, si lasciano portare dalle correnti.

La ragazza ha concluso il suo percorso, ora probabilmente è nella cappella del miracolo, accenderà una candela. Un anziano prete esce dalla chiesa, si avvia verso le stanze dei religiosi. Non c’è che il silenzio: prende vita dal crepuscolo e disegna la tranquillità in questo mio eremo dove salgo ogni tanto per sentirmi in armonia. Mi alzo, prendo delicatamente la foglia dal tavolo e la abbandono al vento, che la porti a disciogliersi nel fiume.

2011

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FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 19 ottobre 2019

Donna in bottiglia


Chi l’avrebbe mai detto? Le certezze adesso mi fanno paura... Saperti diversa dall’immaginazione, dalla dolce illusione nella quale ho vissuto come in una bolla, nella quale mi sono crogiolato comodo come un gatto disteso al sole, saperti irrimediabilmente perduta potrebbe distruggere i miei fragili sogni: si spezzerebbero in mille schegge al pari di uno specchio e sarebbe impossibile riaggiustarli. E sono io, proprio io, che voglio evitare l’incontro, io che ti ho tanto cercata, che tante volte per la strada mi sono fermato a indagare se fosse per caso te quella ragazza che mi aveva colpito per l’andatura, per l’acconciatura, per un gesto tuo disegnato nell’ombra. Sono io, proprio io, che non voglio riallacciare rapporti per non pagare il prezzo del disinganno.

Così resti sospesa nel limbo dei miei pensieri, una donna in bottiglia sullo scaffale: quello che ho di te sono parole a mala pena percettibili, come la voce del mare udita nel dormiveglia o un suono esterno mascherato da sogno poco prima del risveglio. Ti perdo e ti ritrovo ad ogni istante e ti ricreo com’eri e come non sei, ti contamino con altre donne, con altre idee, ti mischio con i desideri dell’inconscio, con le sue proiezioni. E finisce che metti in mostra il lato di te che mi è rimasto dentro, quello della memoria, quello dell’intuito: appari con una verosimile figura che ti illustra ma che è sicuramente falsa, per quanto io mi convinca del contrario. E questa iperbole di te continua a elaborarsi, a modificarsi da sé, si eleva a potenza su una base veritiera ma senza più controllare l’esattezza dei calcoli, e ad ogni errore da te si allontana, come chi, intrapresa una strada piena di bivi, a una biforcazione scelga la via sbagliata e prosegua diritto, convinto di essere sul giusto percorso: chiaro che, dopo il primo errore, tutti i suoi dati risultano sballati e le scelte di conseguenza fallaci.

Eppure credevo di agire con la ragione e non con il cuore. Pensavo di essere in grado razionalmente di venire a capo di tutto e non era che una narcisistica contemplazione della dea. Volerti ridurre a pura formula matematica mi sembrava un’ottima intuizione e non era che un’indecorosa viltà, dirò di più: un’anima di vile metallo rivestita di una menzognera doratura. Il mio cercare non era che ipocrisia. Insomma, il sogno che si è andato intarsiando con la realtà si è ridotto a pura farneticazione, è divenuto una tentacolare piovra che divora i rari sprazzi di lucidità e presenta come inossidabili convinzioni le illusioni meno sensate, fa credere vere le immagini sfuocate impedendo al contempo il contatto con la realtà. Giocoforza ci si ritrova a commentare un accaduto che non è mai accaduto, senza riconoscere l’indubitabile cesura tra la realtà e il sogno.

Per questo motivo, ora che si prospetta un punto fermo, una boa attorno alla quale girare, io lascio da parte le utopie perché la mia illusione non cada come cristallo, perché il mio amore non vada in mille pezzi impossibili da incollare. Tiro sulla testa il lenzuolo liso e sbiadito del ricordo e mi rintano perché la memoria, si sa, ha grandi spazi vuoti dove talora irrompe all’improvviso il sogno a galoppare senza briglie.

2011


DISEGNO DI DINO BUZZATI

sabato 28 settembre 2019

Una donna sola


Davanti alla sua casa vigila un pino atlantico come una sentinella nella sua uniforme grigio-azzurra. Un'acacia dal muro di cinta allunga la sua chioma come una giraffa che tenda il collo per brucare teneri germogli. Bassi cespugli tozzi e corpulenti fanno corona al vialetto di cotto. La sua casa è bassa, si estende su un solo piano nell'erba ben rasata. Il camino sovrasta le tegole come uno spillo puntato su una bacheca di sughero e le imposte di legno laccato sono chiuse per la maggior parte del giorno: sembrano occhi, La porta è alla loro sinistra: se fosse in mezzo alle due finestre potrebbe essere il naso; così invece dà l'impressione di un dipinto di Picasso. Dietro la casa c'è solo il cielo: ogni sera vi si inscena lo spettacolo del tramonto.

Lei è una donna giovane e volitiva, ama vestire con abiti attillati che mettono in mostra le forme curate del suo corpo. Raccoglie sempre i capelli ramati sulla nuca fermandoli con uno spillone di cuoio. Quando la sera li scioglie davanti allo specchio, guardandoli scivolare sulle spalle nude ama paragonarli a onde. Si compiace del fatto che solo a se stessa consente di vedersi con i capelli sciolti, come un piccolo segreto. Preparandosi per la notte, guarda fuori: le luci del vialetto di accesso, che lascia accese fino all'alba, le danno sicurezza. Sta lì con la maglietta e i calzoncini e rimira i globi luminosi e i loro aloni. D'estate vi sfarfallano insetti e falene, d'inverno talvolta roteano i fiocchi di neve.

È rimasta sola, tradita da un amore sbagliato che aveva ritenuto quello giusto, quello per l'eternità. Si ingannava. La solitudine è il pegno che paga a quel suo giovanile errore. Con il passare del tempo si è abituata a quella solitudine, non lo avrebbe mai ritenuto possibile. Ne aveva orrore! La rifuggiva con numerose amicizie - troppe, si dice adesso, e troppo occasionali. Eccola lì sola, che guarda dalla finestra aperta il giardino illuminato nella calda notte estiva, i capelli sciolti sulle spalle e la maglietta degli U2. Alla tenue luce dei globi legge prima di andare a dormire. Legge i tormenti di un'altra donna, le sue inquietudini. Legge il Diario di Katherine Mansfield e confronta la sua vita con quella della scrittrice neozelandese. La comprende, la disapprova, si immedesima, partecipa.

La sua casa è illuminata a festa. Sopra il tetto splende la luna.

1994


sabato 14 settembre 2019

La ragazza

Era da qualche giorno ormai che cercava di abbordare la ragazza. Aveva sedici anni, uno in meno di lui, ed era la figlia maggiore dei proprietari dell’hotel in cui soggiornava. Si chiamava Anna ed era bellissima: lo ammaliava particolarmente quel largo sorriso che le illuminava il viso quando parlava con i clienti, quando s’ingarbugliava in un colloquio in tedesco.
Era il terzo giorno da quando era arrivato e si disse: “Giovanni, ora o mai più”. La stava osservando dal balcone al terzo piano: lei era seduta sul dondolo nella veranda riservata ai clienti e stava risolvendo un cruciverba. Sentì che quella volta si doveva proprio decidere: non voleva convivere con il rimpianto di non avere agito, di avere rinunciato per timidezza.

Come morso da una tarantola, rientrò nella stanza e ne uscì dalla porta - fermo, convinto, come forse mai ancora gli era capitato nella vita - si precipitò per le scale ignorando l’ascensore e in un volo percorse le tre rampe. Non si era preparato neanche una frase da dire per rompere il ghiaccio: si accorse solo al pianterreno di avere ancora in mano il libro che stava leggendo prima di vedere comparire Anna sulla veranda. Nella hall rallentò, si ricompose - a quell’età non si ha il fiatone neppure dopo essersi scapicollati per tre piani - e infine uscì tra i tavolini. Indicò il posto libero sul dondolo e disse “Posso sedermi?”. Non aveva pensato nemmeno un secondo che ai tavolini bianchi non c’era nessuno e avrebbe potuto sedersi ovunque volesse, ma non lì… Anna rispose “Ma certo” con la bella voce e Giovanni si sedette con il suo libro tra le mani e l’orgoglio di avere finalmente aperto una breccia.

In effetti fu lei a prendere l’iniziativa: “Come avrai sentito, mi chiamo Anna” disse, riferendosi al fatto che il suo nome veniva gridato e invocato spesso tra i tavoli della sala da pranzo, dove portava bottiglie di vino o di acqua minerale, o tappi di plastica, posate e tovaglioli. Gli porse la mano, lui la strinse, sorrise e riuscì infine a pronunciare “Io sono Giovanni”.

Erano le due e mezzo del 25 giugno 1982, un pomeriggio afoso con il cielo grigio, perlaceo, coperto e pesante. Ma lui si sentiva leggero, solare, udiva trombe dentro che intonavano l’”Exsultate”.  Si era prefisso uno scopo e l’aveva ottenuto, era riuscito a vincersi, a dominarsi, e ora stava parlando con lei. Erano banali scambi di notizie anagrafiche: dove abitava, la scuola, le idee. Sapere che entrambi frequentassero il liceo classico fu il punto comune che li legò ancora di più.

Anna ora gli parlava del libro che lui aveva appoggiato sul cuscino a righe del dondolo: l’aveva anche lei e lo stava leggendo proprio in quei giorni, ma era alcuni capitoli più indietro. Il pomeriggio passò veloce mentre si raccontavano, mentre si aprivano alle loro affinità che potevano preludere all’amicizia o anche all’amore. Giovanni era già innamorato, lo era segretamente da quando l’aveva vista la prima volta.

Erano quasi le cinque. Anna Abbandonò la “Settimana Enigmistica” dove, conversando, avevano risolto insieme qualche gioco - lui le aveva insegnato gli anagrammi, i cambi di consonante, i lucchetti, le zeppe; lei era più portata per i giochi logici. “Devo andare a comprare un paio di scarpe” gli disse alzandosi, “ci vediamo stasera”. Aggiunse “Esci con noi?”, riferendosi al gruppetto che componeva con il fratello e un’amica che era ospite sua, forse una compagna di classe. Giovanni disse subito di sì, non aspettava altro. “Allora ciao, ci troviamo qui fuori dopo cena”.

La guardò allontanarsi per i portici, verso i negozi del centro. Rimase ad osservare il suo vestito azzurro a fiori finché non divenne un punto indefinito nell’ombra. Poi si alzò e andò nella saletta della televisione: stava per cominciare Austria-Germania Occidentale, partita dei Mondiali di Spagna.  Seduto in una poltrona scozzese, pensava ancora ad Anna. Era innamorato.

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DIPINTO DI LEONID AFREMOV

sabato 7 settembre 2019

Le grotte sono chiuse

 

Fuori il lago si versa azzurro come un mare di Sardegna nel catino limitato dalla penisola di Sirmione. Appena oltre le vecchie mura uomini e donne sdraiati sulla spiaggetta sassosa, alcuni sono nell’acqua chiara del lago, lasciano che le onde gli passino addosso. È domenica e barche e motoscafi bianchi galleggiano al largo, sullo sfondo la sponda veronese con Peschiera e Lazise. Le vie del centro invece pullulano di turisti tedeschi e olandesi, austriaci e francesi, spagnoli e inglesi; ci sono anche i nuovi ricchi russi. E poi i pensionati delle più svariate congregazioni: dopolavoro, cooperative, pro loco, sindacati: sono scesi dal battello e attendono tra gelaterie, bar e negozi di souvenir che venga l’ora di risalire sul traghetto per Desenzano, Salò, Bardolino o Riva. Li si riconosce dal cappellino.

Ne approfitto per rendere omaggio a uno dei miei maestri, Catullo. Quasi certamente le rovine sulla punta della penisola, in posizione davvero invidiabile, non sono la sua villa, se anche risalgono al periodo romano. Percorro tutta la cittadina, dal mio hotel presso il Castello Scaligero alle Terme e da lì sulla strada tra gli oliveti che sale appena affiancando una veduta mozzafiato del lago, sullo sfondo il Monte Baldo e una quinta di altre basse montagne. Ogni tanto passa il trenino elettrico su gomma che trasporta una dozzina di persone. Ma, ahimè, ho fatto i conti senza l’oste: le Grotte di Catullo sono inspiegabilmente chiuse, i cancelli impediscono il varco e i quattro euro per il biglietto restano in tasca. Con me qualche coppia di turisti stranieri, una professoressa di latino e greco napoletana, una agguerrita signora della provincia veronese che interpella la custode. “Oggi restiamo chiusi per disposizione ministeriale” chiosa lei, una donna bionda sui trentacinque anni ma non riesce a dare una spiegazione plausibile. Il cartello indica chiaramente che la domenica le Grotte sono aperte dalle 9.30 alle 18. Però si lamenta che deve comunque rimanere lì con due colleghi invece di andare a sguazzare nel Garda dove esce lo scarico solforoso delle terme. La professoressa si altera un po’, tira in ballo il ministro, la signora veronese le dice che non vale la pena. Ma mi fa male quando, deluso, vengo via e sento il commento dei tedeschi: “Italien...” Per fortuna dal piazzale si gode una vista meravigliosa sull’altra metà del Garda, decine di natanti galleggiano sotto il sole del pomeriggio. Lame di luce scintillano, si riverberano sugli oleandri.

Torno in città gustandomi la dolcezza del giorno di fine agosto, l’aria buona del lago che fa fiorire le buganvillee e i limoni, che accarezza con mano leggera. Dove partono i battelli della Navigarda c’è la statua di Catullo: dopo tanti anni il suo busto è diventato verde. Eccoci qui, Gaio Valerio: odio e amo anch’io, non Lesbia come te, non la mia ragazza che ha preferito stendersi al sole nella spiaggetta davanti all’hotel. Odio e amo questo splendido paese che si chiama Italia.


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FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA