sabato 30 settembre 2017

La falena


Dopo giorni spazzati da un vento quasi autunnale e bagnati da una pioggia monotona e grigia, giorni inusuali per il mese di giugno, è finalmente scoppiata l’estate e subito il caldo, umido e appiccicaticcio, ha preso possesso delle nostre stanze come un ospite che giunga ad un hotel. Non si respira. Apro la finestra per vedere se qualche refolo di vento possa alleviare l’afa.

Toc. Dal bordo superiore dell’anta è caduto qualcosa con un tonfo sordo: è una falena. L’ho riconosciuta per quei suoi colori anonimi, adatti per la notte, quando, in assenza di luce, non servirebbero le vesti sgargianti di altre farfalle, come la Rhodocera Rhamni o la Zygaena Carnidica, l’una gialla, l’altra rossa e verde, o il famoso Papilio tanto caro a Gozzano, arabescato di nero e giallo con due vezzosi occhi rossi sul bordo inferiore delle ali.

Dovrei raccoglierla quella falena, metterla in un luogo buio e fresco. Ci vorrebbe una cartolina… Nel portacarte sulla scrivania ce ne sono diverse. Una cartolina di Gubbio, chi l’avrà scritta? L’inchiostro è sbiadito, a tratti svanisce, parte dell’indirizzo già non è più visibile, si può ricostruire seguendo il tratto di pressione della penna a sfera. Oh, l’ha scritta lei!

Raccolgo la falena rimuginando sulla cartolina, l’emozione del ricordo quasi mi travolge, come se un colpo violento mi fosse stato sferrato in viso, barcollo un istante solo. Colloco la falena tra le ortensie, in un angolo fresco e buio del giardino.

Torno ad osservare la cartolina: “Qui è bellissimo!” dice la scrittura inclinata sulla sinistra, “Bacioni” e segue quel nome che fu un universo nei giorni di anni che allora definivo “d’oro”, forse presagendo un rimpianto quasi oraziano.

E come sbiadisce e svanisce la scrittura di lei, così sbiadisce e svanisce in me il suo ricordo: lasciato al sole di troppe estati, lentamente mi si cancella dall’anima.


1994


Farfalla

sabato 23 settembre 2017

Un reduce


Da una risma di carta, tra fogli bianchi e altri, scritti per metà con vecchi pensieri e antichi endecasillabi, è spuntata per quell'incanto di cui è capace solo il tempo una tua vecchia fotografia. È un campo lungo della spiaggia: tu, in primo piano, seduta su una sdraio coperta da un asciugamano rosso in una fila di ombrelloni. Dietro si scorge il bagnino con la sua maglia a righe, più oltre, dopo altri bagnanti, il mare di un azzurro quasi grigio sotto il cielo sereno. Hai i capelli stranamente liberi sulle spalle - di solito invece li raccoglievi con un elastico - e sembri una vestale o una qualche divinità del mondo classico. Indossi un bikini chiaro, bianco, con dei piccoli disegni, e con il piede destro giochi a scavare onde nella sabbia, che poi ricomporrai. Io naturalmente sono il fotografo, come sempre: il mio occhio è dietro l'obiettivo per tentare di fermare il tempo, di strappargli a morsi infinitesimi brandelli da sottrarre all'oblio. Ci sono riuscito, se adesso resto basito a guardare questo rettangolino di carta lucida che mi dice di te più di quanto possa fare l'ultima diavoleria tecnologica.

Dopo trent'anni mi sorprende quella somiglianza con tuo padre che allora non notai: la bocca, gli zigomi sono l'eredità paterna, da tua madre hai preso il carattere e quella facilità nel comunicare con il mondo che a me risulta invece così difficile. Avrai avuto sedici anni allora, diciassette forse. Io, di un anno più anziano, badavo alla tua esuberanza, al tuo corpo che cresceva e che sentivo vivo pulsare e respirare accanto a me nei lunghi pomeriggi, nelle serate di musica e di bar, nelle notti di lune e di stelle.

Penso a Properzio, il poeta latino e a Cinzia, la sua amata: "Cinzia fu la prima, Cinzia sarà l'ultima...". Prendo il libro blu delle sue elegie nella mia biblioteca, cerco il passo che questa tua fotografia mi ha riportato alla mente: "Non sono più per lei quello che fui: un lungo viaggio muta le fanciulle, quanto amore in breve tempo si disperde!". Eccolo lì, è proprio vero: il viaggio in questo caso è il tempo, ma il risultato non cambia. Non sono più per te quello che fui. Trattenendo nelle mani questo simulacro, questo brevissimo istante scolpito nella mia memoria, mi sento come un reduce che torni da una lunga guerra, dopo migliaia di chilometri, con i vestiti laceri e le armi smarrite: trova il suo mondo cambiato e lo osserva sgomento.


2010


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KAZUYA AKIMOTO, “DONNA DISTESA SU UNA SPIAGGIA”

sabato 16 settembre 2017

Un silenzio


Un silenzio, breve, improvviso, forte come un urlo, quasi che il tempo si fosse fermato. Nessun motore rombante, nessun clacson, non fischietto di vigile o scrosciare di laterizi a frantumare l’aria, né un canto d’uccelli o un sibilo di sirena. Un istante non misurabile, non qualificabile: un miliardesimo di secondo, un decimo, un paio, tre o quattro.

Mi sono voltato e lei era lì pressante come un desiderio, immobile nella folla ora in movimento, impegnata a percorrere la via come un fiume di formiche. E hanno sporte da cui fuoriesce verdura o bastoni di pane, borse della spesa o da lavoro. La differenza è che le formiche possono portare anche il doppio o il triplo del loro peso.

Era lì, con il suo vestitino a fiori, lungo appena sopra il ginocchio, le maniche corte, la pelle non ancora abbronzata, una peluria dorata quasi invisibile, come quella sulla buccia delle pesche. E mi sorrideva. Da un lontano ricordo ancora mi sorrideva. Ed era quella di allora, intorno ai vent’anni. La memoria certo non sa se si è tagliata i capelli e quali rughe si disegnino sul suo bel viso. Non sa quello che le ha fatto il tempo.

L’altro giorno alla televisione ho visto quell’attrice che le somiglia, avrà qualche anno più di lei: l’ho riconosciuta subito ma ho stentato a credere che la ragazza che ricordavo in un film sull’America fosse la signora bionda seduta sul divano di un talk-show. La sua faccia era gonfia, come se usasse del cortisone, la rosa che ricordavo turgida ha preso ad avvizzire. Lei invece no, lei come nel ricordo improvviso mi si è parata in una strada cittadina gonfia di traffico e del viavai di un mercato rionale.

Lei no. Apparsa improvvisa alle mie spalle evocata da un silenzio, chiamandomi con un’assenza di suoni per poi sparire tra la gente quando il tempo - così mi è sembrato - ha ripreso a correre e ho proseguito la mia strada senza più cercarla.

2008


Brown

TOM BROWN, “THE HUM OF THE CITY”

sabato 9 settembre 2017

Lettera da Vega


Caro JKPH28-LK321,

i miei vicini astrali sono un vero tormento: fanno un rumore insopportabile tutto il giorno. Già al mattino, verso l'alba, nella pallida luce planetaria, il ragazzo esce per andare alla scuola siderale: accende la motoastronave e la lascia rombare per tre minuti stellari buoni prima di partire strombazzando con il clacson termomicrofonico. Per tutto il pomeriggio il nonno, un astrotrasportatore in pensione, rompe i timpani potando la vegetazione, i cristalli di rocca, la foresta di pietra con la motosega dai denti di diamante e tosando a giorni alterni il prato di bauxite con la levigatrice autotermodinamica.

Le comari si radunano almeno tre volte al giorno e ciarlano a lungo vociando e squillando attraverso l'altoparlante della tuta. Evidentemente il loro impianto microfonico è regolato su un livello di hertz molto alto, come quando parliamo con un sordo e dobbiamo aumentarne il volume.

Per non parlare poi dei tre cani elettronici che abbaiano in continuazione a tutto: un passante, un venditore spaziale porta a porta dell'enciclopedia plutoniana, uno stormire di fronde, un visitatore occasionale...

Il padre fortunatamente lavora su Altair, ma nei lunghi week-end contribuisce del suo fresando e alesando, saldando e tagliando, martellando e inchiodando: per hobby costruisce di tutto, dalle astronavi ai canestri autosospesi per giocare al basket antaresiano, e lo fa a lungo e con foga. Logicamente i figli, quello della motoastronave e l'altro, che la madre chiama in continuazione con l'altoparlante di Bell, giocano rumorosamente con il canestro antaresiano o si sfidano a chiassose partite di calcio uraniano o di baseball galattico, dove si deve colpire con la mazza di titanio una biglia d'acciaio venusiano.

Ma presto risolverò il mio problema... No, non ti allarmare, non ho deciso di sterminare l'intera famiglia con la bomba X o con del potente veleno per iguanodonti di Proxima Centauri: ho solamente prenotato un impianto di vetri antirumore, quelli lavorati con il bismuto, e prossimamente i tecnici verranno ad installarli.

Da Vega ti saluto con affetto

tuo affezionatissimo XCGH21-KL987

18 marzo 3031


Vega

IMMAGINE DA “SPACEFLIGHT NOW”



sabato 2 settembre 2017

I lettori di poesie

Per scrivere una lettera commerciale occorre essere chiari, lineari, esporre i fatti essenziali e in un linguaggio quanto più possibile scarno ma preciso. Inutile gonfiarla con ridondanti barocchismi, costruire arzigogoli di periodi che si incastrano e si ingarbugliano in se stessi, abbandonarsi a un’enfatica retorica fuori luogo.

Così è la poesia: deve soltanto indicare la strada al lettore, porgergli gli elementi essenziali alla sua comprensione, un po’ come certi problemi matematici che spetta all’allievo poi risolvere e dimostrare. Prendiamo “Mattina” di Giuseppe Ungaretti: “M’illumino / d’immenso”. Tocca a noi che la leggiamo ricostruire tutto quello che ruota attorno ai versi, la giornata di sole, il cielo che si allarga in un orizzonte infinito, la luce che colpisce il volto e via di seguito fino a scoprire la sensazione che ha originato quei sintetici versi.

O ancora come quei detersivi concentrati che si vendono adesso: la poesia è quel denso liquido blu nella bustina, l’acqua che si aggiunge nel recipiente per diluirlo è l’esperienza del lettore: sono i suoi giorni passati, le sue vicissitudini, lo stato d’animo del momento, i ricordi, il carattere. Cito spesso il Premio Nobel messicano Octavio Paz: “Ogni lettore è un altro poeta; ogni testo poetico un altro testo”. Leggendo una poesia, oltre a udirne il suono e a figurarci le immagini che essa presenta, eseguiamo un esercizio poetico: siamo noi stessi poeti, adeguando a quelle immagini le nostre immagini. Se si dice “mare” è magari quello della nostra ultima villeggiatura, se si dice “amore” è la nostra amata/il nostro amato a cui pensiamo. È ancora Octavio Paz a parlare: “Il testo poetico deve provocare il lettore: costringerlo a udire, a udirsi”. Così entriamo nella poesia, indagando nel nostro profondo, e la rivestiamo con le nostre emozioni. E probabilmente, più l’emozione si avvicina alla nostra, più giudichiamo bella la poesia…

2010


Deineka

ALEXANDER DEINEKA, “GIOVANE DONNA CHE LEGGE”