sabato 25 aprile 2015

L’appostamento

 

1.

“Che ore sono?”

“Manca un quarto a mezzanotte, Jack… non è che se me lo domandi ogni cinque minuti il turno finisce più in fretta. Lo so che vuoi tornare a casa dalla tua mogliettina…”

“Sei il solito insensibile, Vincent. No, è che gli appostamenti mi sfiancano e poi non succede nulla e Jimmy Tredita non si è fatto vedere neanche stasera.”

“Eh, Jackie, Jackie, si vede proprio che tu sei giovane e sei sposato. Se avessi qualche anno di più come me e il pelo sullo stomaco che mi hanno lasciato due matrimoni e tante nottate come questa a fumare e a lasciare gli occhi dentro un cannocchiale, non ti lamenteresti. Anzi, ringrazieresti tutti i santi – tu sei irlandese, vero? – ringrazieresti San Patrizio che ti permette di vedere quella carne fresca al di là della strada. Una ballerina, una ragazza di venticinque anni con addosso solo una sottoveste rosa che lascia le finestre aperte e le luci accese per farsi vedere da tutto il quartiere, e tu mi chiedi che ore sono!”

 

2.

Tutte le sere. Tutte le sere che verso mezzanotte spalanco le finestre e lascio entrare la brezza. Tutte le sere che mi metto qui in sottoveste a girare seminuda per casa, a sculettare e a dimenarmi, a inventare un mezzo passo di danza. Tutte le sere, da una settimana almeno, da quando ho scoperto che nel palazzo dall’altra parte della strada c’è un bel ragazzo che mi osserva con il cannocchiale. Un gran bel figo, non c’è che dire. Un biondino, chissà quanto sarà alto e chissà come bacia bene! Tutte le sere… e aspetto che finalmente si svegli e mi venga a trovare. Ma lui niente. Continua a restare là a guardarmi. Adesso però mi tolgo anche la sottoveste e vedrai se non scende, il biondino!

Dietro il cannocchiale il detective Jack O’Riordan spalanca gli occhi e dice “Vincent, non ci credo: la troietta si è spogliata completamente e fa cenni verso di noi… Sta lì nuda e continua a dire qualcosa. Leggi un po’ le labbra, tu che sei più esperto”

“Dunque, dice: «Vieni giù, bel biondino»… Ehi, Jack, hai mai pensato di farti un’amante?”

 

2013 – scritto appositamente per “Nom de plume”

 

EDWARD HOPPER, “NIGHT WINDOWS”

sabato 18 aprile 2015

Laozu a Porta Nuova

 

Dunque, io stavo lì che guardavo il cielo afoso di luglio dove nugoli di moscerini si inseguivano e frotte di zanzare-tigre stavano in agguato dietro le fronde in un minuscolo ristagno d’acqua – non l’ho detto, ma la scena si svolge a Milano, mica a Venezia che hanno tutti quei bei canali. Stavo lì in mezzo al traffico con il mio bel camion con rimorchio e intralciavo tutta la carreggiata proprio davanti alla stazione ferroviaria di Porta Garibaldi, dove stanno sorgendo gli enormi grattacieli del centro direzionale e la strada è un cantiere unico in vista della realizzazione della linea 5 della metropolitana. Stavo lì immobile da qualche minuto e la coda dietro di me cominciava a diventare rabbiosa: nessuno poteva imboccare il tunnel di Porta Nuova e correre alle sue faccende, tuffarsi nel suo mare di stress quotidiano. Qualche automobilista minaccioso si era anche affacciato sotto la portiera, ma troppo in alto e troppo irraggiungibile sono. Quando vennero due ghisa con una scala a parlamentare e mi chiesero perché non mi muovessi, risposi «Agisco senza agire, mi occupo di non faccende, assaporo l’insapore, ingrandisco il piccolo…» A questo punto uno dei due ghisa mi disse «Favorisca patente e libretto». Glieli diedi. Il ghisa li sbirciò e poi disse: «Signor Laozu, non le faccio la multa che meriterebbe perché qui intasa la strada, ma se ne vada un po’ velocemente».

Sorridendo, ingranai la prima e partii verso il tunnel. Due farfalle si inseguivano amorose nel cielo carico di smog.

 

2010

 

Porta Nuova

FOTOGRAFIA © PANORAMIO

sabato 11 aprile 2015

PAO

 

Nel luglio del 1988 ero ancora un “nipote”. Dopo il mese di CAR alla caserma Edolo, il mio trasferimento alla Leone Bosin e il campo estivo a Ponte di Legno, in attesa di una posizione ufficialmente certa in seno alle Forze Armate cui “prestavo” un anno della mia vita, appartenevo praticamente alla più bassa manovalanza. Era un po’ la situazione delle caste indiane: ero sul fondo, nella struttura piramidale dell’esercito di leva. Questo significa che venivo considerato disponibile per ogni turno di guardia, per le varie corvée della caserma - più volte avevo lavato piatti in cucina o ramazzato i viali della Bosin - o per qualsiasi ghiribizzo venisse in mente a un qualche ufficiale. Per dire, in quella prima settimana di luglio avevo montato di guardia, avevo servito di corvée cucina, ero stato incaricato della pulizia dei bagni della mia compagnia ed ero stato inviato come capomacchina sull’Alfa 33 blu del generale di brigata al Tonale, avevo dormito lassù ed ero tornato in mattinata.

Quel tardo pomeriggio stavo facendomi la doccia per andare finalmente in libera uscita dopo giorni. Mi pregustavo già le luci di Merano, il ristorante sotto i portici, la gelateria sul lungopassirio. Invece, mentre ero lì tutto insaponato, mi chiamarono: «Ti vuole il sottotenente». Finii di lavarmi, mi avvolsi nell’accappatoio, andai in camerata a indossare di nuovo la mimetica, presagendo che qualche nuovo servizio mi sarebbe stato appioppato tra capo e collo, e andai nell’ufficio del sottotenente.

Non mi ero sbagliato. «Si è rotto l’allarme dell’armeria. Devo aggiungerti al PAO». Senza giri di parole, franco, sincero, corretto. Apprezzai. Del resto ammiravo molto quel sottotenente, figlio di un generale, che però non faceva pesare minimamente questa sua imponente parentela. Approfittai di quella sua sincerità per una rimostranza - sarebbe stata fuori luogo altrimenti, gli ordini non si discutono. «Posso parlare chiaro?» gli chiesi. «Certo». «Guardi, io non ho problemi, ma mi piacerebbe sapere perché proprio io, tra i tanti soldati di questa caserma. Ieri al Tonale, prima di servizio ai bagni, prima in cucina, prima ancora di guardia, adesso di PAO». Il sottotenente non si scompose, fece soltanto una smorfia che significava “Mi dispiace”. Alzai le mani, quasi in segno di resa, tornai in camerata a prendere l’elmetto e mi recai all’armeria che dovevo difendere, dove mi misero in mano un vecchissimo fucile Garand che non sarebbe servito a niente in caso fosse successo davvero qualcosa.

Passai due ore seduto su una sedia davanti alla cancellata chiusa dell’armeria, con il fucile nella sinistra e pensieri che mi si accavallavano. Affrontavo un misto di rabbia e di impotenza, consideravo l’ineluttabilità di quella situazione, ero consapevole di rappresentare l’ultima ruota del carro, la parte più bassa della catena alimentare. Come Dio volle, finì. Venne il sottotenente a dirmi «Puoi andare» e mi allungò la mano perché la stringessi. Era il ringraziamento silenzioso di un uomo tutto d’un pezzo, e mi lusingò. Lo salutai e mi avviai all’uscita della palazzina delle Trasmissioni. Nel corridoio mi sentii chiamare. Era S., un varesino di lago con il quale avevo fatto il CAR. «Vieni, che beviamo del Bonarda. L’ho portato dalla licenza». Erano le dieci ormai, troppo tardi per uscire, troppo tardi per qualsiasi cosa. Entrai nella sua camerata, presi la tazza rossa smaltata che mi offriva e bevendo lentamente il vino rosso e vivace gli raccontai di quella sera, di quella settimana infernale. Parlando, come sentivo che il vino scioglieva i nodi dentro me, ugualmente capivo che andavo allentando la tensione, che lo sfogo cancellava la rabbia, che la compagnia degli amici è come una medicina salutare.

Il mattino dopo il sottotenente mi chiamò ancora. Nessun servizio, stavolta. Mi avevano trasferito alla Cesare Battisti per lavorare finalmente inquadrato in un ufficio, con una posizione ben definita. Stavolta mi strinse la mano per salutarmi e sulle sue labbra apparve anche l’ombra di un sorriso.

    PAO

sabato 4 aprile 2015

I parcheggi

 

Davanti a me alcuni scontrini di parcheggio. Erano nella vaschetta portaoggetti della mia auto e mi sono capitati tra le mani quando finalmente mi sono deciso a fare un po’ di pulizia.

Il parcheggio è il luogo fisico in cui la visita a una città comincia e finisce: racchiude in sé la speranza dell’attesa, le fantasie su ciò che si potrà osservare, sul bar dove si potrà sorbire un cappuccino o bere un calice di vino bianco accompagnato da gustosi stuzzichini, sul ristorante dove ci si fermerà a pranzare. È il luogo del desiderio, dunque. Ma è anche il punto dove la visita finisce: è già ricordo che si va costruendo; è rimpianto di ciò che non si è potuto vedere o fotografare, del souvenir non comprato, della cartolina non spedita. È anche il luogo dove la memoria ha inizio, allora.

Si arriva baldanzosi, con la macchina fotografica, con la borsa, con lo zainetto. Si prende il tagliando e si pagherà poi con comodo, quando si torna. Oppure si inseriscono subito le monete nella fessura e si stampa lo scontrino che ci darà un tempo limitato. Certo, il primo metodo di pagamento è il migliore. Poi si gira per la città, si fa quel che si deve fare, si vede quel c’è da vedere, si compra quel che c’è da comprare. E infine si torna, con passo più stanco. E stanco è anche il gesto di porre la borsa, lo zaino, la macchina fotografica sul sedile posteriore, di posare i pacchetti nel baule. Un bel respiro, un sospiro, un ultimo sguardo al luogo che abbandoniamo e si sale in auto: cintura di sicurezza, avviamento, marcia e si riparte…

 

ParkLU