sabato 26 maggio 2018

Hautes-Alpes


    Di buon mattino passammo con l'auto la dogana del Monginevro dopo aver cambiato in franchi i nostri pochi spiccioli e maledetto il traffico che intasava la statale nella valle della Dora Riparia. La strada subito cambiò d'aspetto: sembrava più linda e ordinata a noi che eravamo abituati allo sbando e alla rovina che caratterizzano le strade italiane; quelle righe gialle dipinte di fresco ci facevano meraviglia. Ben presto dei segnali stradali arrugginiti crivellati di proiettili ed enormi buche nell'asfalto ristabilirono la giustizia e il nostro giudizio divenne più ragionato e meno autolesionista.

    Lunghi tornanti scendevano tra i boschi di larici verso la valle della Durance; traversata Briançon, ci trovammo in una strada che costeggiava il fiume, argenteo e irrequieto, e la ferrovia. Mi prese una gran voglia di viaggi in treno attraverso campagne sconosciute, il sogno di lasciare i frutteti del Veneto, le montagne che cullano l'Adige nel loro grembo, gli sterminati campi di mele del Sudtirolo, e salire verso il Mare del Nord, traghettare in Svezia, abbandonarmi a osservare i ghiacci dove nessun treno più va oltre. Oppure scendere nell'Est europeo sulle piste dell'Orient Express, in una magia che porta a Sofia e a Istanbul...

    Le canoe zigzagavano tra i massi, oltre il fiume muovevano le loro chiome al vento campi di grano e di lavanda. Attraverso una stretta gola che ricorda la Val d'Ega tra Bolzano e Nova Levante, salimmo seguendo un camion di sabbia che sbuffava e procedeva lento come un elefante di Annibale. Nostro compagno era sempre il fiume che rumoreggiava sulla destra, rilucendo.

    Ci fermammo a pranzare in un villaggio che si animava del mercato con i paesani che acquistavano formaggi, salami e miele. Qui il fiume incanalato intersecava due viuzze formando due ponti: lì tra una charcuterie e una boulangerie l'insegna "Restaurant".

    Dopo pranzo, nel deserto del villaggio ancora a tavola, ci attirò l'idea di oziare ai tavolini all'aperto di un café. Conoscemmo così Nathalie, la cameriera che ci portò i cognac e che ci disse che studiava italiano. Si sedette con noi e cominciò a raccontare un po' nella nostra lingua un po' nella sua: ci disse che abitava sola, ora che il marito era fuggito in Alsazia con un'altra, una ballerina da quadro di Degas, ma che in fondo si trovava meglio così, senza dover sempre rendere conto a qualcuno. "Sì, sono libera, comment on-dit? ... emancipata, j'amerai venire a lavorare in Italia, a Firenze o a Roma, ma il mio sogno c'est Venise... Qui di turismo ce n'è poco e poi è tutta gente di montagna".

    Prima di lasciarci andare Nathalie volle regalarci due bottiglie di vino di quelle parti, un vino color dell'ambra. In una cartoleria dove eravamo in cerca di souvenirs - un domino di legno, corni intarsiati, coltellini Opinel - il proprietario ci mise in guardia sull'aroma di quel vino: "Ce n'est pas champagne ni Chianti! Le vin d'ici c'est mauvais". L'uomo parlava solo francese e molto velocemente, ci costava fatica seguire le sue parole. Filosofò un po' sulle donne e sul tempo, che da anni non portava neve se non a stagione finita. A una nostra richiesta ci spiegò la strada migliore per tornare in Italia.

    Tra curve e controcurve la statale si inerpicava verso il Colle dell'Agnello, nel Parco del Queyras, dove le mucche pascolavano beate. Un vento gelido ci accolse alla frontiera: nessuna dogana, nessun controllo. Solo più in basso un finanziere seduto fuori da un capanno di lamiera con il tricolore italiano ci fece segno di passare senza nemmeno guardarci. Eravamo davvero tornati in Italia.

25 ottobre 1990


FOTOGRAFIA © MICHEL LALOS

sabato 19 maggio 2018

Il filo


La luce gialla di un lampione tinge il lungomare. Un vento caldo soffia da Levante e sembra condurre fino a qui quella mezza luna che galleggia nel cielo come un palloncino sgonfio. Sa di sale e sabbia quel vento, sa della notte che scende e che ci ritrova seduti al bordo della piazza, dove l’ultimo caffè fissa i suoi confini e ruba metri alla spiaggia. Non ombrelloni, ma un verde pergolato ci difende dal buio, o ci nega la vista delle stelle. Pendono come lanterne le lampadine, le candele alla citronella fumano tra i tavoli.

Chi ci vedesse da fuori, chi gettasse uno sguardo distratto oltre la siepe che ci separa dalla strada vedrebbe una coppia felice seduta davanti a due frappè: noterebbe di sfuggita il liquido chiaro nei bicchieri appannati, la cannuccia a righe, l’ombrellino di carta sapientemente appoggiato sul bordo. E invece siamo due anime in pena sorprese nel momento in cui cercano il filo che li lega, quel filo che si è smarrito tra presente e passato, che si è allentato o meglio ancora si è spezzato quando la lontananza l’ha teso un po’ di più.

Così a noi che siamo dentro il bar, che sediamo a quel tavolino e siamo gli interpreti di questo film che è l’amore, che è la vita, alla fine ci manifestiamo come siamo davvero: due che si sono conosciuti, che si sono amati, che si sono allontanati e ora non sono che due estranei. Quel filo lo abbiamo ritrovato questa notte: i due capi erano ormai incompatibili, erano al pari di una spina e di una presa che non possono funzionare, e, come avvocati ad un processo, abbiamo preso atto.

Grandi cirri avanzano dal mare, oscurano la luna, e anche su di noi sembra calato il buio: restiamo muti, senza più dire una parola. I frappè sono finiti, il cameriere ha portato via i bicchieri, ho pagato il conto. Siamo perduti.

Il taxi che si accosta e poi ti porta via nella notte mi trova ormai quasi felice. Il mio saluto rimane nell’aria come un bianco fiore di magnolia. Abbasso la mano, la infilo in tasca e mi incammino nella direzione opposta. Il vento continua a soffiare forte sulle palme.


Caffè

ROBIN CHEERS, “SIDEWALK CAFÉ”


sabato 12 maggio 2018

Il fiume


Il fiume correva via tranquillo negli argini rinforzati dal cemento. Tra piccole chiazze d'olio dai colori iridescenti, ritta sulle zampe sottili galleggiava via veloce un'idra. Sembrava una miniatura di quelle immense gru per tagliare il marmo che punteggiavano le cave qua e là nel panorama.

Luca guardò Michela, seduta sul prato accanto a lui. Una ragazza esile e gentile, piccola nel golfino di lana azzurro che gareggiava con la tinta dei suoi occhi. Le teneva la mano quando riuscì finalmente a dire: "Me ne vado. Sono stanco di questo paese, sono stanco di non trovare opportunità. Dovunque, ma lontano da qui, ricomincerò". I gabbiani planavano lenti, il riflesso dei loro voli saettava nell'acqua, come volesse scomporre anche lo specchio dei pensieri. Luca sentì la mano di Michela irrigidirsi a quelle sue parole, vide il suo sguardo spegnersi e riempirsi di lacrime.

Quell'estate non trovò il coraggio di partire, forse non l'avrebbe trovato mai. Rimase al paese a lavorare saltuariamente nelle cave, a respirare polvere di marmo e amarezza. Continuava a uscire con Michela, ad amarla nei prati lungo il fiume. Facevano progetti: sposarsi un giorno di giugno con il canto dei grilli in una chiesa di campagna, il grano maturo nei campi, le rondini e i papaveri rossi mossi dal vento. Michela andò a comprare l'abito da sposa, bianco con tante rose ricamate.

A ottobre, in lacrime, la ragazza lo aspettava all'uscita della cava, tra i singhiozzi riuscì a dirgli "Sono incinta". Luca rimase tutta la notte a pensare al futuro, a pensare al suo futuro con Michela. Si spaventò e lo spavento gli diede il coraggio che in estate non aveva trovato. La mattina si fece liquidare e con la sua borsa di viltà scappò lontano, lasciò il paese che non gli piaceva, il lavoro che non apprezzava e la ragazza che credeva di amare.

Michela si trasferì con la madre in un paese un poco più lontano, sul lago: era triste e piangeva spesso, riteneva la sua esistenza un unico sbaglio mentre nel suo grembo fioriva una vita. Il bambino nacque a maggio e lei doveva impiegare tutto il suo tempo ad accudirlo. Le mancavano le feste, le nottate in discoteca, le mancavano i cinema, le domeniche lungo il fiume concluse con un gelato o una pizza. La giovinezza, con tutta la sua esuberanza, le era di peso.

Luca aveva trovato un lavoro che amava, lontano. Era un lavoro duro ma ne era appagato. Un giorno capitò un uomo che veniva dal paese: da lui seppe che Michela aveva avuto un figlio. Suo figlio. Il cielo sopra le ciminiere era grigio come metallo, sporco quanto il fumo che usciva dalla fabbrica. Il sole era una sfera rovente e lontana, una bianca particola. Luca lo guardò a lungo e giurò che non sarebbe tornato.

Un mattino di luglio Michela lesse sul giornale che una donna aveva immerso nel fiume il bambino che non desiderava, adagiato in una cesta di vimini, proprio come Mosè. Il piccolo era stato trovato da un pescatore e portato all'ospedale, dove le infermiere facevano a gara a coccolarlo. Quel giorno guardò suo figlio nella culla, rimase a lungo in ginocchio a osservarlo. Le ginocchia le facevano male sul duro pavimento, ma rimase lì a guardare il suo bambino e a pregare.

Finalmente lo prese in braccio e si incamminò con lui alla stazione, prese il treno e tornò al paese dove era cresciuta. Scese al fiume, proprio dove poco più di un anno prima Luca le aveva detto che sarebbe partito. Posò il bambino sulla sponda. La foschia penetrava nell'acqua, il sole dardeggiava...
Michela si sfilò dal dito l'anello di fidanzamento, tolse dal sacchetto di carta l'abito da sposa e li buttò nell'acqua verde. Guardò il fiume correre via, verso il mare. Prese il suo bambino e ritornò a casa, lo mise nella culla. La ragazza sorrideva, finalmente sorrideva.

NOTA: questo raccontino fa parte di una serie particolare: è in effetti la trasposizione del testo di una canzone. Gli appassionati di Bruce Springsteen avranno riconosciuto “Spare parts”, dall’album “Tunnel of love” del 1987.


Spratt

TINA SPRATT, “IL FIUME DEI SOGNI”