sabato 31 agosto 2019

Nell’attraversare il ponte

Aspettavo la sera per passare il ponte, quando il fiume mulinava verde di giada e i sassi del greto erano indeterminate forme chiare. Nell'ultima luce la corona dei monti vicini appariva nera, le cime aguzze più lontane invece erano chiare, come se fossero coperte di neve. Si accendevano le stelle, il disco o la falce della luna.

Attraversavo il ponte più lontano, solitario, non il ponte grande che usavano tutti, pieno di traffico e di automobili tanto che c'era anche un semaforo a regolarne il transito. Quel ponte aveva un che di plebeo, di sciatto, con la ringhiera lavorata verde e gli ampi marciapiedi dove si poteva sostare e guardare l'acqua correre via tra le rocce. E poi c'erano troppe luci: i fanali, i fari delle auto, l'illuminato imbocco della Piazza del Teatro.

Non attraversavo neppure il ponte delle Poste, vicino all'antica chiesa di Santo Spirito, dove si aprivano la zona ricca, le colline, il Grand Hotel, con i bandieroni bianchi e rossi svolazzanti sui pennoni i giorni delle feste e lo stemma civico a mosaico sulla spalletta. Da lì la città appariva in tutto il suo barocco ridondare: le costruzioni in stile Liberty, le cupole tondeggianti, il Duomo con l'orologio, la Porta, il lusso della fontana e della Banca subito dopo il ponte.

No: amavo attraversare nel buio il ponte pedonale, largo due metri, illuminato da pochi lampioni dalla luce fioca. Lì lentamente finiva il viale alberato per far posto ai negozi dei turisti e una via altrettanto oscura riconduceva al centro della città sotto la chioma di immensi ippocastani.

Non so perché prediligessi quel ponte, al quale si arrivava con un cammino un poco tortuoso, deviando dalla strada principale e passando dietro i campi da tennis e il supermercato: passavo di lì perché nell’attraversare il ponte, guardando l'acqua, i monti e le stelle, provavo un'emozione.

1994

FOTOGRAFIA © TRIPADVISOR

sabato 24 agosto 2019

Una fotografia


“Noi siamo nati per un’altra gioia”
ANDRÉ GIDE, La porta stretta

Però com’eri bella tu. Soltanto adesso me ne accorgo, adesso che tanto tempo è passato e il calendario è un fiume in piena. Nel ricordo diventi ancora più bella e io ancora più stupido e impacciato. Non so se darmi dell’idiota o se incolpare gli eventi, addossare le colpe alla mano lunga del Fato, alle catene del caso, all’incidenza della probabilità. “La prima che hai detto” mi sembra di sentirtelo dire e poi ridere con quel modo che avevi di inclinare il capo all’indietro e di scuotere l’onda dei capelli. “La prima che hai detto”, ma sapessi come sono cambiato e che cosa ho passato...

Di quelle sere con te mi resta il ricordo dolce e amaro, sento in bocca il sapore di qualcosa che forse era soltanto la nostra incoscienza, l’acerbo frutto della giovinezza. Mi inebrio della dolcezza che mi dava stringerti a me, guardarti con aria sognante o solo stanca, abbandonata tra le mie braccia mentre cadeva la notte. Adesso è come una febbre pensarti: un bruciore che arde sulla pelle e scotta nella mente, il fuoco tenuto costantemente acceso dalle Vestali negli antichi templi latini, la fiamma perenne dedicata ai caduti per la Patria nel Mausoleo di Largo Gemelli.

Non è rimpianto, non è neppure nostalgia. È un sentimento che fatico ad analizzare: forse una rassegnata resa all’ineluttabilità degli eventi, un comprendere che le cose non potevano andare diversamente, che ciò che potremmo chiamare destino o contingenza non è stato altro che il naturale corso delle cose. Era un amore puro, nel quale credevamo, e si è consumato in se stesso, si è esaurito così, spontaneamente, come una candela posta sotto una campana di vetro. Non come una pianta che si inaridisce e secca, ma proprio come un fuoco che si spegne per mancanza di ossigeno.

Separammo le nostre strade, cambiai città, amici, prospettive. Le nostre relazioni si limitavano a cartoline, a qualche telefonata di cortesia, ad appuntamenti da programmare che sapevamo bene non avremmo messo mai in calendario. Il tempo cominciò a scorrere più veloce, i giorni, i mesi, gli anni si accumularono come pietre. Oggi, cercando una mia vecchia foto da bambino in cui sono vestito da astronauta per Carnevale, da un fascio di istantanee è uscita la tua immagine, i colori leggermente sbiaditi: indossi quell’abito chiaro che tanto mi piaceva, stretto in vita da una cintura di cuoio e nei tuoi occhi brilla la scintilla dell’amore. Come Juan Ramón Jiménez anch’io posso dire: “In seguito la primavera più non eri tu, più non eri tu!”. Però com’eri bella, e com’era bella la nostra gioventù...

Marzo 2011

FOTOGRAFIA © BRIAN C. CHILLEMI

sabato 10 agosto 2019

Il dottor Ross


Mi hanno detto che adesso hai un fidanzato. Notizia sparata lì come se neppure mi dovesse interessare, come se tu non fossi stata da sempre la mira segreta del mio amore. Del resto, per essere sensibili nei miei riguardi, avrebbero dovuto essere a conoscenza di questo mio recondito sentimento. Io, come il poeta Nicanor Parra, ho risposto che quella notizia non poteva affatto riguardarmi. Non fiorivano le mimose come in quella poesia, ma un grigio novembre si perdeva nelle sue malinconiche spire fatte di pioggia e di nebbia.

Mi hanno detto anche che ci vai a letto – quello in realtà lo sospettavo, anche senza che me lo dicessero, evidentemente – ma, in realtà questa notizia era funzionale a un’altra: tua madre ci è rimasta male quando vi ha trovati abbracciati e nudi nel suo letto. Io mi sono immaginato la scena: tu nuda, lui nudo – aveva la faccia da fesso del dottor Ross di “Medici in prima linea” e una mascella che avrei contribuito volentieri a slogare a forza di pugni. In questo modo tua madre è venuta a scoprire che lo nascondevi in soffitta perché lei non sospettasse niente. Adesso è ridotta uno straccio, continua a borbottare e rischia che le venga un colpo. È andata a sfogarsi da un’amica pettegola e così il telefono senza fili ha portato la notizia fino a me.

Io intanto continuavo a dissimulare, facevo l’indifferente, il finto tonto. Ma eravamo a tavola e il boccone mi era andato di traverso. Cercavo di non tossire e guardavo con avidità il bicchiere dove scintillava un Chianti che pensavo sarebbe stato più piacevole. E continuavano a parlarmi di quel tipo – il dottor Ross, o insomma quello che mi immaginavo con il suo volto: “Dovresti conoscerlo” mi stava dicendo Ermete, che poi era il padrone di casa e mi aveva invitato a cena. “Era animatore in un club della Riviera” aggiunse Ileana, sua moglie ed eccellente cuoca, nonostante il rospo che mi si era piazzato in gola. Ma io non lo conoscevo, io non mi ricordavo di averlo mai incontrato, di averci mai avuto a che fare, se non per interposta persona e quella persona, accidenti! eri tu nel tuo letto, nuda, avvinghiata a lui...

Il televisore era acceso, a volume bassissimo: all’improvviso in uno spot ti vidi fuggire, inseguita da tua madre. Il tuo ganzo con la faccia del dottor Ross stava salendo su una scala a pioli, tentavate di arrampicarvi su un gigantesco ulivo centenario. Come in “Amarcord” quando lo zio matto interpretato da Ciccio Ingrassia sale su un albero e grida “Voglio una donna!” E a quel punto finalmente capii che tutto quanto non era che un sogno, uno spaventoso incubo in cui tu mi tradivi con il dottor Ross, e che il mio amore rimaneva salvo, almeno per il momento. Ero finalmente sveglio, sveglio come mai ero stato nella mia vita e presi la decisione di abbandonare gli indugi e di dichiararti quanto prima tutto il mio amore.

1996



FOTOGRAFIA © NBC