sabato 27 febbraio 2016

Punto, punto e virgola, due punti

 

A me piace scrivere usando tutti i segni di punteggiatura, perché, se ci sono, vanno usati. Oggi però la fretta, che sembra essere l’unico scopo delle nostre vite, sorvola su queste minuzie, il linguaggio stesso assume nuove forme come quella degli SMS o dei social network e diventa sempre meno accurato, sempre più selvaggio.

Eppure i segni della punteggiatura hanno un valore notevole, possono dare un’intonazione diversa a una frase. Celebre è il responso che la Sibilla Cumana offriva ai soldati che ne richiedevano l’oracolo: “Ibis redibis non in bello peribis”; a seconda di dove pone la virgola, muta notevolmente il significato – “sibillino” deriva proprio da questa interpretazione variabile: infatti se la virgola è prima del “non” si avrà “Andrai, tornerai, non morirai in guerra”, se posta prima si otterrà “Andrai, non tornerai, morirai in guerra”.

C’è un solo libro che non sono riuscito a finire: è l’Ulisse di James Joyce. L’ultimo capitolo, dopo già tante traversie linguistiche per oltre 700 pagine, non ha punteggiatura e non si riesce a raccapezzarsi. Un piccolo esempio: “frsiiiiiiifronnnnnng treno che fischia da qualche parte che forza han dentro quelle macchine come grossi giganti e l’acqua che bolle dappertutto e esce da tutte le parti come la fine d’Amore la dolce vecchia canzonnnnnnnn quei poveracci che devono star fuori tutta notte lontani dalle mogli e dalle famiglie ad arrostire su quelle macchine si soffocava oggi contenta d’aver bruciato la metà di quei vecchi Freeman e Photo Bits lasciarmi tutta quella roba in giro sta diventando trascuratissimo e il resto l’ho messo nel WC me li farò tagliare domani invece di serbarli fino all’anno prossimo…”

E allora ecco il punto, ora di moda, perché efficace, perché permette frasi brevi, utili in questi tempi veloci dove si deve passare subito ad altro, perfetto per gli slogan pubblicitari. Di moda sono anche i due punti: servono a chiarire, enumerare, incolonnare, introdurre un concetto, un discorso. E i puntini di sospensione – vanno sempre in tre, mai di più - spesso abusati, ma comodi per esprimere un attimo di tregua, per dare all’interlocutore tempo di pensare e di replicare. Poi, naturalmente, la virgola, che è il sale del discorso, è il direttore d’orchestra che mette a spartito le parole, il maestro di cerimonia che assegna i posti. Il punto e virgola è un vecchio signore elegante e un po’ blasé che si vede sempre meno di frequente alle feste. Le virgolette servono sempre, per introdurre i discorsi, per segnalare una parola fuori dal suo contesto (mi raccomando, non fatele all’americana con le dita quando parlate, altrimenti sembrate dei coniglietti – tanto si capisce lo stesso da come le dite). Il trattino da molti non è considerato neanche un segno di interpunzione, ma a me piace la sua modernità e lo uso spesso. Le parentesi mi fanno pensare a un prendere da parte il lettore per fargli una confidenza, se posso preferisco sostituirle appunto con il trattino. E infine i fratelli punto esclamativo e punto di domanda, che danno intonazione: il primo è mal sopportato, soprattutto quando se ne abusa, ma talvolta è indispensabile per esprimere compiutamente uno stato d’animo.

Per concludere, ricorderei una statistica significativa, redatta dagli antropologi: nel mondo la scrittura senza segni di punteggiatura prevale dove più alto è il tasso di analfabetismo.

 

2011

 

Punteggiatura

sabato 20 febbraio 2016

Lettera non spedita (XI)

 

La sera brucia con le sue nuvole dipinte ad acquarello: il cielo e il lago hanno lo stesso colore. Come quella volta - un’altra sera - quando eravamo appoggiati alla ringhiera e guardavamo i riflessi iridare l’acqua dalle parti dell’imbarcadero: i battelli che partivano e arrivavano mescolavano i loro bianchi e i loro rossi a quei bagliori di fiamma.  Mi volto per antica abitudine, per dirti: «Guarda quanto è viva anche nel lago la gibigianna del sole sulla finestra di una casa in collina» ma non ci sei. Hai portato lontano i tuoi dubbi e le tue ansie, hai preso con te le domande a cui non volevi dare risposta, i vestiti, la grande valigia color fucsia, il cappello di paglia con il grande nastro. E mi sento mancare il respiro.

Mi specchio nel lago tinto d’arancione e se rimpiango qualcosa è solo di non essere riuscito a capirti, di non avere saputo sopperire a quella tua fragilità, alle insicurezze che manifestavi sotto traccia. Non ne ho avuto il tempo, non me ne hai dato il tempo. Come quando passavi ore a guardare la pioggia cadere e ti immalinconivi, l’autunno soprattutto. Prendevi la tazza di tè che ti porgevo e ti stringevi ancora di più nel maglione di lana, ti rannicchiavi lasciando fuori solo le tue calze rigate. Ma non ti aprivi, non ti abbandonavi, neppure quando eri stretta nel nido del mio abbraccio, neppure qua do facevamo l’amore: continuavi a perlustrare quelle tue paludi, alla ricerca di qualcosa che sfuggiva alle mie acque limpide. E questo mi faceva stare male, mi fa stare male anche adesso che ti penso lontana e sola. Eri come quei soldati che si nascondono nelle acque limacciose e respirano attraverso una canna di bambù. Quanto potevi resistere? Quanto potrai resistere? Riuscirai mai a riemergere, a recuperare il tesoro perduto che giace sul fondo di alghe e fango, tu angelo caduto?

Sai che ti aspetto. Sai che rispetto il tuo silenzio. Sai che per questo ti ho lasciata andare come si lascia andare l’ultimo brandello di sogno per svegliarsi. Ma hai lasciato la tua impronta sul cuore come sulle dita rimane la polvere di farfalle catturate per un istante.

 

A

FOTOGRAFIA © PINTEREST

sabato 13 febbraio 2016

Della nostalgia

 

“Sino a quel momento, il tempo ha avuto per lei le sembianze del presente che avanza e inghiotte il futuro; ne temeva la velocità (se c’era in vista qualcosa di spiacevole) oppure si ribellava di fronte alla sua lentezza (se c’era in vista qualcosa di bello). Adesso il tempo le appare in maniera del tutto diversa; non è più il presente vittorioso che s’impossessa del futuro; è il presente vinto, prigioniero, travolto dal passato. Vede un giovane che si stacca dalla sua vita e se ne va, per sempre inaccessibile. Ipnotizzata, non può che contemplare questo brandello della sua vita che si allontana, non può che contemplarlo e soffrire. Prova una sensazione del tutto nuova che si chiama nostalgia”. Il romanzo da cui è tratto questo stralcio è L’ignoranza di Milan Kundera: il protagonista Josef, esule in Danimarca dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, caduto finalmente il regime comunista, è tornato in patria e sta leggendo dopo molti anni il diario che teneva al liceo. All’improvviso emerge il ritratto di una ragazza appena lasciata dal fidanzato: nella vita di lei entra prepotente per la prima volta la nostalgia.

Nostalgia, letteralmente dal greco “dolore per il ritorno”. Ma più che il ritorno in un luogo – e allora è la patria perduta, è l’Itaca agognata da Odisseo – è il ritorno in un tempo passato, impossibile e dunque proprio per questo doloroso. È il rimpianto che si fonde con il desiderio, la malinconia con la dolcezza. Ancora le parole di Kundera, nello stesso romanzo, possono spiegarne il motivo: “Perché la nostalgia non intensifica l’attività della memoria, non risveglia ricordi, basta a se stessa, alla propria esistenza, assorbita com’è dalla sofferenza”. La nostalgia è dunque un piacere masochistico, come si può leggere in questo paragrafo da Seni di Ramón Gomez de la Serna: “I seni della vedova divennero più splendidi che mai, perché dimentichi del desiderio nel tempo in cui erano in uso, ora ch’erano in disuso, conoscevano quel che di più intenso c’è nel piacere: la nostalgia”.

“La nostalgia è una seducente bugiarda” disse in un’intervista a Newsweek nel 1971 il diplomatico americano George Wildman Ball. Ci dà quello che chiediamo, ci nasconde dettagli e ne ingigantisce altri. Perché “La nostalgia già non è quello che era” come nota il romanziere statunitense Peter De Vries: come certi regimi riscrive il passato, sfuocando qua e là, ritoccando i colori dove necessario, costruendo una storia alternativa e “ufficiale” a quella reale.

Insomma, alla fine la nostalgia è come un farmaco: in piccole dosi può essere un curativo alle ansie e alle angosce dei nostri giorni, una gustosa pasticca dolceamara che ci fa riprovare le emozioni di un tempo e ci intenerisce il cuore – quando portavo le espadrillas, quando la sera andavamo in pineta, quando ballavamo ascoltando alla radio gli Spandau Ballet – ma in dosi massicce diventa un veleno.

2011

 

nostalgia-mirjana-gotovac

MIRIANA GOTOVAC, “NOSTALGIA”

sabato 6 febbraio 2016

Camminando

 

Credo di avere in me il DNA del camminatore. Qualcosa di atavico, dai tempi in cui per spostarsi occorreva percorrere decine di chilometri, e che è disceso lungo i rami fino ai miei nonni, che mi raccontavano di quel loro lungo peregrinare semplicemente per recarsi al lavoro o al mercato, ricordandomi che possedere una bicicletta in quei primi decenni del secolo scorso era un lusso.

Prendiamo il ramo paterno: il nonno ogni giorno andava a lavorare alla centrale idroelettrica distante sei-sette chilometri; scendeva al fiume e, risalendo, la sera faceva una sosta all’osteria a mezza strada per rifocillarsi con un bicchiere di quello buono. La nonna raggiungeva il mercato, che si svolgeva nel grosso centro più vicino, distante comunque almeno cinque chilometri: tornava carica di borse, con il passo lento e sicuro delle donne di campagna. Addirittura, ancora negli Anni ’70, quando c’era un comodo autobus, continuava ad andare al mercato a piedi.

E perché tacere del ramo materno? La nonna lavorava in una filanda già da ragazza e si sorbiva quotidianamente tra nebbie e gelo o sotto il sole cocente o i temporali d’estate una dozzina di chilometri buoni d’andata e altrettanti di ritorno. Il nonno era più fortunato, era falegname e lavorava nella sua bottega. Ma fu su quella strada che mia nonna percorreva ogni giorno che la incontrò e poi la corteggiò.

Ecco: mi sono chiesto perché amo così tanto camminare – camminare, si badi bene, non correre: c’è la stessa differenza che passa tra chi se ne va semplicemente in bicicletta e chi corre vestito come se fosse al Giro d’Italia o al Tour de France. Cammino con il mio passo, gustandomi il percorso, fermandomi quando qualcosa attira la mia attenzione, quando la poesia mi chiama da uno scorcio o da un cortile o da una strada di città. Sì, perché anche in città, quando il tempo me lo permette – il tempo tiranno, non quello atmosferico – lascio perdere metropolitane e autobus, sebbene nutra un’uguale ammirazione per l’antico fascino del tram, e mi incammino sull’asfalto, sul pavé, sul lastricato, godendomi le voci, i suoni, i profumi, gli odori.

E quando il tempo – sempre il tiranno – allenta la sua presa, di domenica o d’estate, allora vado lungo il fiume a respirare l’aria ripulita, a farmi accarezzare dal vento come le canne palustri, o ancora in collina a perdermi tra i boschi, in quelle cattedrali di alberi che si elevano al cielo. Più raramente mi capita di camminare lungo il mare: quella, sulla sabbia umida della battigia mentre il libeccio soffia verso la costa e le onde vengono a lambire i miei piedi nudi, è certamente l’esperienza che prediligo, ex aequo con lo smarrirsi nel labirintico saliscendi tra i canali di Venezia.

Camminando, come l’aborigeno che mappa il suo territorio e lo canta, mi lascio inondare dalla luce del giorno o intridere dalla nebbia: il paesaggio allora non mi è più ignoto, ne faccio parte, per quanto lontano sia da casa.

 

walking feet blur