sabato 14 dicembre 2013

Il pontile

 

C’è un pontile di assi che poggia su alti piloni: è una lingua posticcia di terraferma che si inoltra nel mare, che si avventura fin dove possibile come una sfida alla natura. So che qualche volta ha vinto la natura, che con delle forti mareggiate ha piegato o distrutto quell’avamposto. Ma ogni volta con caparbietà qualcuno l’ha ripristinato e lo ha reso ancora più bello. L’ultima volta che l’ho visto ho faticato a riconoscerlo: c’era molto più legno che cemento e bandiere svettavano sul chiosco esagonale posto dove il pontile finisce con uno slargo a capofitto sull’acqua.

Allora, ai tempi di questa storia, c’erano assi consunte e piloni di calcestruzzo. Il temporale era finito da poco, nuvoloni scuri aleggiavano lontano, sulla costa. Ragazzi pescavano i granchi con mollette da bucato dove il fondale risultava più basso e li mettevano nei secchielli pieni d’acqua. Con me c’era lei, l’amore della mia adolescenza. Un ragazzo magro con un sorriso timido, una maglietta a righe e un paio di blue-jeans e una ragazza bionda con un vestito a fiori – simile a una dea vi direbbe il ragazzo, ma lui non fa testo: questa è la fotografia di quel momento, dunque. Il vento appiccica il vestito sul corpo della ragazza, esile e svelto, le disegna le due colline dei seni puntuti e la V dell'inguine. Gioca a sfiorare il viso del ragazzo con i capelli di lei, che è solita portarli legati ma che quel giorno, come per un capriccio del destino, ha deciso di lasciarli sciolti sulle spalle. La ragazza sta parlando di qualcosa, non ha importanza l’argomento: lui penderebbe comunque dalle sue labbra anche se parlasse di fisica quantistica o di filosofia del diritto. Le parole di lei gli bruciano sulla pelle, quasi come la carezza di quei capelli, gli occhi chiari gli penetrano l’anima. In effetti, lei gli sta parlando del loro rapporto, sta parlando d’amore. Adesso sono appoggiati alla ringhiera del pontile e guardano sotto di loro il mare, come una tentazione, mare ribollente di schiume, mosso e furioso. È in quel momento che il ragazzo pensa: l’amo talmente che se lei mi dicesse «Buttiamoci di sotto» tenendole la mano lo farei. Dovrebbe dirglielo. Dovrebbe. Ma il ragazzo è giovane e sciocco, e non glielo dice. Rimpiangerà per anni quel silenzio.

 

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FOTOGRAFIA © MAYDA MASON

sabato 23 novembre 2013

Come Pessoa

 

“Dorme nel sogno di esistere e nell’illusione di amare”: Fernando Pessoa pensava a me quando scrisse questi versi. In realtà pensava a un tipo d’uomo che si immedesima in un sogno, e indomabile lo persegue. Pensava a se stesso, Pessoa, che nel “Libro dell’inquietudine” scrisse ancora: “Nessuno si stanca di sognare perché sognare è dimenticare e dimenticare non pesa ed è un sonno senza sogni in cui siamo svegli. Nei sogni ho ottenuto tutto”.

Ecco: nei sogni io ho ottenuto tutto. Nei sogni io ho vissuto: dormendo esistevo, vivevo un’altra vita, come la volevo, come la desideravo, come la sognavo. Nei sogni ero il signore del mio regno, il despota assoluto che piegava al suo volere il destino. Nel sogno io ho amato lei, l’avevo tra le mie braccia. Nel giorno, nei territori concreti del reale invece possedevo soltanto l’amaro lavacro della mia nostalgia: e lei era un altro simbolo di malinconia. Infine, se proprio devo dirla tutta, lei, la donna reale, non era altro che un’immagine funzionale, che facesse al caso mio, una figura cui dare da recitare quella parte, una Beatrice da Commedia, un vaso che contenesse il mio sogno – quel mare infinito d’amore che da me sarebbe altrimenti traboccato invano. Ed è per questo che l’ho amata: incarnava in ogni gesto il mio sogno e soltanto grazie a lei aveva vita: era vero e involuto, un arzigogolo compiuto, una trama intricata di connessioni. Ma lei era solo un’illusione. Amavo il suo simulacro. E, come Pessoa, allora davvero posso dire: “Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso voler d’essere niente. A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo”.

 

Pessoa

sabato 16 novembre 2013

LP

 

Ho trovato il vecchio giradischi in una scatola conservata in soffitta. Accanto c’erano anche i 33 giri, sigillati in un cartone con stampigliato il marchio della Vecchia Romagna. L’ho tolto dalla busta di cellofan, l’ho portato in salotto, ho collegato i cavi, ho infilato il jack di uscita nello stereo e ho messo un LP.

And the big wheel keep on turning neon burning up above and I'm just high on this world
Come on and take a low ride with me girl on the tunnel of love, yeah love love”.
Suonano i miei ricordi e mi sorprende il fruscio del vinile: quell'imperfezione mi apre gli occhi, mi dice quanto tempo sia passato. E la stessa sensazione ho provato nell’estrarre il disco dalla busta e porlo sul giradischi, nel posarvi attento la puntina tra un microsolco e l'atro; erano impacciati i miei gesti, desueti, da fruitore di nuove tecnologie. Neanche più l'asettica custodia dei CD, ormai la velocissima e ampissima scelta dell’iPod, di Spotify, della nuvola.

“Juliet the dice were loaded from the start and I bet and you exploded in my heart ”. Anche i miei ricordi sembrano diversi adesso, lontani, come vissuti da un altro: paiono rivestire addirittura un'importanza diversa, mi sembra che ora sia insignificante ciò cui davo valore e viceversa che sia molto più importante ciò che ignoravo perché lo ritenevo quasi irrilevante. Riecco le mie scelte sbagliate – a posteriori è facile giudicare, dire: avrei dovuto comportarmi così, avrei dovuto dire oppure tacere. Riecco i miei amori perduti, frantumatisi come un calice di cristallo caduto sul pavimento – non sono stati inutili, l’esperienza si costruisce così, frammento di vetro dopo frammento di vetro impari, o almeno ti accorgi che c’è una colla che può saldare quelle schegge.

“I wanna live on solid rock, I'm gonna live on solid rock , I wanna give I don't wanna be blocked , I'm gonna live on solid rock”. Alzo la puntina con un gesto che ormai non mi è più abituale, tolgo il vinile e lo ripongo nella sua custodia rossa e turchese riponendovi insieme anche i miei antichi ricordi.

 

Giradischi

sabato 9 novembre 2013

Il cuore e la ragione

 

Era una sera di luglio, afosa e pesante dopo una giornata in cui il sole aveva picchiato come un fabbro sulle spiagge, sulla tela degli ombrelloni, sui corpi arrossati di villeggianti del nord Europa. Ora che era sceso il buio, svolazzavano falene intorno ai lampioni e l’odore della pineta si spandeva nell’aria calda come la scia di profumo lasciata da una bella donna.

La ragazza sedeva sul bordo della fontana, forse per sentire un po’ di fresco. Indossava pantaloni bianchi e una t-shirt chiara a righe. Aveva uno sguardo triste, l’allegria della sera in compagnia le era estranea. Raccolsi il mio coraggio – ero un ragazzo timido allora – e mi sedetti al suo fianco. Le chiesi che cosa avesse, se in qualche modo avessi potuto strapparle un sorriso. Essere timido aveva il suo vantaggio: suscitava nelle ragazze l’istinto materno, la curiosità di spaccare la scorza per vedere cosa c’era sotto. Lei mi parlò di un ragazzo che preferiva la pallacanestro a lei, che l’aveva lasciata lì da sola per andare ad assistere ad un incontro di basket in qualche palazzetto di provincia. «Che infamia» dissi per consolarla, «come si può preferire lo sport a una bella ragazza!». Sorrise, spalancò le labbra nel più meraviglioso sorriso che avessi mai visto. Mi innamorai. Mi innamorai di quel sorriso. Mi innamorai di lei.

*

    Passò fugace come una cometa nei miei giorni, nella mia estate: così riuscii a definire la sua presenza al mio fianco. La mia cometa. Anni dopo, quando la Hale Bopp rimase accesa per mesi nel cielo, pensai che mi ero ingannato. Il suo volo nella mia vita era più simile allo schianto di un meteorite: un lampo ed era passata. Pensavamo di avere tutto il tempo davanti a noi e invece il tempo ci mancava. Fu questo a perderci, eppure allora lo ignoravamo. Un lampo e l’amore si incenerì come la tundra di Tunguska. Lei divenne la stella caduta nei miei ieri: rimaneva soltanto come un lontano bagliore sempre più fievole il suo ricordo.

*

Si incontreranno mai le nostre strade? O – come è più probabile – le parole “mai più” sono stampate, anzi dolorosamente incise sulla nostra pelle con uno stilo arroventato? Solo nel sogno è possibile un altro percorso comune? Solo nell’utopia del desiderio, dei castelli costruiti in aria, ci sono tratti di vie che paralleli scorrono e poi miracolosamente si intersecano? La realtà, la ragione dicono invece che sarà per sempre l’oblio, che le memorie di quei giorni sbiadiranno come cartoline lasciate al sole nel vetro di una cristalliera. Ma la realtà, la ragione, in fondo, che ne sanno dell’amore?


 

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FOTOGRAFIA © HD WALL CLOUD

sabato 2 novembre 2013

Il colonnello

 

Il colonnello D. guidava un vecchio Volkswagen Maggiolino color scarabeo, aveva una barba sale e pepe e la fama di pazzo: i soldati lo temevano per le punizioni che spesso distribuiva a casaccio, senza senso. Al campo estivo di Ponte di Legno, per dire, diede sette giorni di CPS ad una sentinella che, fedele alla consegna ricevuta, rimase in silenzio quando lui, di ritorno dal paese a mezzanotte, lo interpellò: «Parla, rispondimi! Sono il tuo comandante!». All'adunata del mattino fu lui stesso a raccontare il fatto, rosso in viso, furibondo, e qualcuno di noi si immaginò la faccia che aveva la sera prima, quella di Michelangelo quando scagliò via il martello perché il suo Mosè non parlava. Quella volta tutti lasciammo con grande fretta lo spiazzo e ognuno quel giorno compì il suo dovere con grande diligenza e attenzione. Sempre in quel campo estivo il colonnello un giorno sorprese le guardie addormentate nella tenda che fungeva da corpo di guardia: stavano riposando, com’era giusto che fosse, mentre un altro soldato era alla sbarra. La punizione immeritata fu anche per loro sette giorni di CPS.

Ma il colonnello D. era burbero anche in caserma: punì un caporale per essersi attardato un po' di più alla pausa spaccio delle quattro: stava seguendo una tappa del giro d’Italia che attraversava il suo paese. Nessun lavoro sembrava ben fatto, c’erano sempre foglie da raccogliere, piatti e pavimenti da rilavare, magazzini da mettere in ordine. Quando il fischietto e il rombo del Maggiolino annunciavano che il colonnello aveva varcato il cancello ed era uscito, tutta la caserma, dai soldati ai sergenti, dai marescialli ai sottotenenti, persino i muri credo, si rilassava, paventando il momento in cui il fischietto avrebbe annunciato nuovi guai.

Rimasi solo un mese in quella caserma diretta dal colonnello D., poi venni trasferito. Ritornai solo all’atto del congedo, per soli tre giorni. Per oltre nove mesi però avevo udito parlare - mi trovavo in un’altra caserma della stessa città - di punizioni strane e immotivate, gli ex compagni nei bar mi raccontavano storie surreali ed episodi strambi in cui il protagonista era il colonnello. Così, tornando nella sua caserma, tolsi la spilletta metallica con il numero 5 dal fregio del cappello - mi avevano detto che faceva scattare la punizione -e nascondevo i capelli troppo lunghi da congedante, cercavo di girare al largo il più possibile. Però facevo male: il colonnello D. ci firmò libere uscite per quei tre pomeriggi e lo trovai affabile il mattino in cui mi consegnò il congedo: «Bravo, hai svolto un buon lavoro. grazie. E auguri per la vita da civile». Se si accorse che ero rimasto a bocca aperta non lo so... Poi mi ripresi e lo salutai, stringendogli la mano.

21 giugno 1999

 

Colonnello

sabato 19 ottobre 2013

Otto anni dopo


Il lago scivolava via d'un verde turchino dall'aspetto oleoso. I battelli della “Navigarda” attraccavano con puntualità e Giovanni li accompagnava con lo sguardo: da puntini in movimento si accrescevano fino ad essere riconoscibili e dopo l'attracco e la breve sosta in porto rimpicciolivano fino a scomparire all'orizzonte.

Tra la gente scesa dall'ultimo battello Giovanni riconobbe un volto noto ed ebbe un tuffo al cuore: “Anna!” gridò come mosso dall'istinto. Non riusciva a capacitarsi: perché mai aveva gridato a quel modo senza nemmeno pensarci? Anna si avvicinò: non era sola, infatti con lei un'altra ragazza si era staccata dal gruppo che guadagnava l'usci-ta del porto. “Ti avevo lasciata ragazzina e ora sei una giovane donna” disse Giovanni un po' imbarazzato come se il passare del tempo fosse qualche cosa di innaturale. Anna citò Virgilio: “Fugit irreparabile tempus” e dopo un sorriso presentò Valeria, la ragazza che era con lei.

“E ora che fai?” chiese Giovanni, che si sentiva sempre più impacciato, forse anche per la presenza di Valeria. “Lavoro all'albergo con i miei. E tu, cos'hai combinato in tutti questi anni?”. “Ho scritto: articoli, libri, poesie, di tutto“. Voleva aggiungere: “Sono ancora solo” ma la vista della snella Valeria lo inibì. Pensò che Valeria era molto simile all'Anna di quei tempi andati, l'Anna diciottenne che aveva baciato una sera lungo il mare e che la mattina dopo era partita. “Ho fatto anche il militare e sono sempre libero da vincoli” aggiunse senza riuscire a esprimere quel “solo” che gli ronzava nella mente. “Neppure io mi sono sposata” disse Anna guardandolo ancora più a fondo negli occhi.

Il sole tramontava nel lago, accerchiato da nubi che ne diminuivano la luminosità. “Avete fretta? Posso offrirvi qualcosa?” domandò Giovanni e, rassicurato dalle due donne, si diresse con loro al caffè di fronte al porto. Ordinarono tre coppe di gelato. Valeria interloquì: “Così, tu scrivi. Mi piacerebbe moltissimo. Io ogni tanto butto giù qualche poesia, ma trovo difficoltà nell'esprimermi in prosa“. Giovanni iniziò ad elencare le soddisfazioni e le difficoltà della sua professione e si interruppe per l'arrivo del cameriere con i gelati. Continuava a pensare che Valeria, più della stessa Anna, rassomigliava all'adolescente di quella sera in riva al mare.

Anna finì la sua coppa e ruppe gli indugi: “Giovanni, purtroppo ora dobbiamo proprio andare. Sei stato davvero gentile” e ciò detto si alzò per andarsene. Giovanni stentò a riconoscere l'Anna che aveva amato, così socievole, così attaccata ad ogni conoscenza. Come ridestandosi da un sogno, trovò la forza di chiedere: “Dove posso trovarti?”. Allontanandosi, Anna gli gridò il numero di telefono.

(14 maggio 1990)

 

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RICHARD BOYER, “CAFÉ IN ST. REMY”

sabato 12 ottobre 2013

Seguendo la voce di Venezia

 

Dopo molti anni sono tornato a Venezia. E l’ho fatto con lo spirito del viaggiatore e non del turista, come mi piace quando visito una città. Per questo ho seguito il consiglio di Tiziano Scarpa, scrittore veneziano: “Anche a Venezia, basta che alzi gli occhi e vedrai molti cartelli gialli, con le frecce che ti dicono: devi andare per di là, non confonderti, Alla ferrovia, Per san Marco, All'Accademia. Lasciali perdere, snobbali pure. Perché vuoi combattere contro il labirinto? Assecondalo, per una volta. Non preoccuparti, lascia che sia la strada a decidere da sola il tuo percorso, e non il percorso a farti scegliere le strade. Impara a vagare, a vagabondare. Disorientati. Bighellona”.

Così ho fatto: mi sono perso, mi sono lasciato condurre per le calli, per i ponti, per campi e campielli seguendo l’ispirazione del momento, una luce, uno slargo o al contrario una strada che si apriva tra i muri come una fessura. Ho lasciato che fosse Venezia a chiamarmi, a guidarmi, a suggerirmi il percorso. Una bifora, una bandiera, una teoria di panni stesi, un riflesso rovesciato nell’acqua lucida di un canale, un campanile apparso all’improvviso dopo una delle tante curve o emerso da un sotoportego, un palazzo fiorito scendendo da un ponte in qualche fondamenta.

Ed ho potuto sentire l’anima di Venezia, il suo canto sommesso e misterioso, la sua bellezza antica e piena di storia, le leggende dei dogi e dei nobili. Ho scorto qua e là il fantasma di una bautta, l’ombra di Casanova, lo spettro di Goldoni, lo spirito di Vivaldi. Ho colto quel suo fascino sottile che emana dai campielli deserti dove spicca una vera da pozzo, dai balconi fioriti, dalle facciate dei palazzi.

Certo, mi sono avventurato anch’io fino al Ponte di Rialto, fino al carnaio umano di Piazza San Marco. Ma mi sono allontanato subito, via da quella folla che prende la città per un enorme parco dei divertimenti, per una Disneyland sull’acqua. Io fotografavo Venezia, cercavo di immortalarne la grazia, di imprigionarne un pezzetto nel piccolo file digitale, i turisti erano invece impegnati a fotografare se stessi in posa davanti al campanile o alla basilica o sulle balaustre di Rialto.

Me ne sono andato verso l’Accademia, perdendomi ancora una volta da Campo San Moisè in là per Calle delle Ostreghe, per Calle dello Spezier, per Campo Santo Stefano, assaporando la lingua veneta sulla lingua come un dolce. Perché viaggiare non è vedere un posto, non è sedersi quasi annoiati su una panchina, non è ciondolare tra un monumento e l’altro come per un contratto: viaggiare è un atto di amore con una città.

5 ottobre 2013

 

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FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 5 ottobre 2013

Breve tramonto

 

Nella stanza già era buio: le ombre della sera sembravano già calate.

Ma fuori una larga lama di sole, dell’ultimo sole, accendeva di luce la campagna spazzata dal foehn, che ululava caldo e minaccioso.

Sotto un cielo cupo, pur essendo ancora nelle tonalità dell’azzurro, le colline luminose brillavano di riflessi rispecchiati dai vetri delle case disseminate qua e là come i granelli di zucchero sulle ciambelle. Le ombre dei rilievi e delle forre erano perfettamente visibili, simili ai crateri lunari nelle notti in cui l’astro è pieno.

Piccole vaporose nuvole bianche, inconsistenti come garza, come il tulle dei tutù delle ballerine, sovrastavano la sommità tondeggiante delle colline.

Più vicino, sulle case dipinte di bianco, la luce era proiettata come su uno schermo cinematografico, d’un giallo vivo. I tetti erano di un rosso altrettanto vivo, quasi sanguigno, e l’ordine delle tegole vi spiccava con evidenza.

Gli alti monti a nord vivevano di luce riflessa: il primo, di un verde azzurro, il colore che ha la spuma dei fiumi tumultuosi che si gettano nelle rapide; il secondo quasi violetto, simile ai riflessi di una brocca di vino rosso. Entrambi erano liberi dalla neve, pur essendo gennaio.

Lo spettacolo non durò che pochi minuti, forse dieci, forse quindici: questa era la cosa più straordinaria, questa era la sua importanza.

10 gennaio 1995

 

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PAM CARTER, “ROOM WITH A RUM VIEW”

sabato 28 settembre 2013

Una coppia

 

La fenditura delle labbra dipinte d’un rossetto color terra è la bocca di una grotta per ripararsi dalla pioggia, lui vi entra e la sente tutta sua, stringendola a sé diventa suo anche il seno, un imbarazzo morbido che permea la sua carne, che si fa la sua carne e uomo e donna adesso sono una creatura che non ha sesso e che li ha entrambi.

Nel portone buio filtra un raggio di lattea luce proveniente da un lampione, i fiati sono evidenti, promanano da corpi accaldati. Non piove più, sottobraccio lui la stringe ancora mentre vanno via e si appartengono.

Lei gli sta raccontando che vorrebbe tanto abitare in una casa tra i monti, quelle di legno con le finestre delle ante dipinte a strisce bianche e rosse, con i canali di rame e i fermaneve tra i coppi d’ardesia, con cascate di gerani ai davanzali, con un camino e, in giardino, una catasta di legna ed un pozzo, oppure una fontanella. Gli sta disegnando la vita che trascorrerebbero lì: avrebbero un gatto, forse un cane - un pastore tedesco o un dalmata, lui a spaccare la legna quando occorre, la staccionata potrebbe dipingerla lei, magari mentre lui d’estate, seduto in veranda, scrive il suo nuovo romanzo. E poi lei certamente si metterebbe a dipingere: i ghiacciai, le vette, coprirebbe le tele con il verde dei pini, con i rossi e i gialli dei tramonti. «Chiudi gli occhi» gli dice «prova a immaginare solo un istante».

Lui tace. Pensa che lei sia come il vento, che cambi l’umore come il tempo e le stagioni, che il suo amore sia come una foglia sul ramo e forse presto si staccherà, sicuramente si staccherà il giorno in cui lui finalmente non sarà più stregato dalla sua bellezza. Il suo cuore ha cadenze strane, fasi lunari, gli viene da pensare: chissà se sono così tutte le donne? Un giorno giura di amarlo alla follia, fa progetti di vita in posti lontani, lo copre di baci e di carezze, lo invita all’amore; un altro è fredda e distante come una stella, giunge quasi ad insultarlo; il giorno seguente è zucchero e miele, si emoziona per la luna o per un tramonto.

Crede di conoscerla ma in effetti - quasi rabbrividisce al pensiero - non conosce che il suo corpo, quel corpo che genera calore nel cappotto, che sente al suo fianco destro, avvinghiato come un animale marino allo scoglio o al pilone di un pontile. Conosce bene il suo copro: potrebbe farne una mappa dettagliata: le colline gemelle dei seni, l’avvallamento del grembo, il fiore esotico del sesso, le gambe da ballerina. Ma il resto, quanto al resto ci vorrebbero migliaia di geografi e anni di lavoro... come adesso che parla di una casa in montagna, un maso magari.

Ora lei sta sorridendo, lo guarda e sorride: sembra che tutta l’anima le sia sul volto, quasi potesse leggergli nei pensieri. Sorride e gli ruba un altro pezzo di cuore con la sua semplicità (o non è che sia invece una delle sue personalità?), sorride e lo strega con i suoi sguardi ingenui (o fintamente ingenui?) eppure così smaliziati. “Mi legge nel cuore” pensa “siamo così uniti eppure così lontani, così uguali e così diversi: sorride delle mie debolezze, delle mie ansie, delle mie malinconie. C’è un muro tra di noi, c’è sempre stato, anche quando i nostri corpi diventano una cosa sola. Non è ipocrisia come talora di e lei riempiendosi la bocca di una parola ad effetto. È che siamo due pianeti su orbite diverse, due navi che percorrono rotte verso porti assai distanti tra loro”.

«Sapessi...» dice lei come un vanto, come un mistero, come un misconosciuto segreto, interrompendo i suoi pensieri. «Sapessi...» ripete e non prosegue: lascia lì quei puntini di sospensione come una vestale il fuoco sacro, li calca fino a farli diventare l’intera frase, sono pause musicali che durano ormai d intere battute. Poi scoppia in un’argentina risata a rivelare il gioco: «Sapessi che voglia ho di avere un bambino! Ci pensavo prima mentre ti raccontavo della casa in montagna: un gatto, un cane e... perché non un bambino?»

Lui tace. La bacia. La saluta e la lascia davanti casa. Lei è entrata, si è spogliata e si guarda allo specchio: ritrovai suoi difetti noti solo a lei, alcuni addirittura solo alla sua immaginazione. Si protende,si sorride, guarda il seno che si gonfia e la curva del ventre. Lo accarezza e dice: «È già dentro quel bambino...»

2 febbraio 1998

 

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JACK VETTRIANO, “DRIFTERS”

sabato 21 settembre 2013

Due fotografie

 

La tua camera è una scenografia da film, da opera teatrale, con il grande letto d’ottone e il piumone a piccoli fiori chiari su uno sfondo pastello. È inverno adesso. D’estate il disegno della copertina non varia poi molto, forse un po’ più vivi i colori. È una camera formale, come formali sono rimasti i rapporti tra noi, divisi dopo i chiarimenti, ma con una sorta di diplomazia che, se ci ha tolto i tormenti, in compenso ci ha donato la serenità di chi dimentica. E formale sei anche tu, con i tuoi atteggiamenti posati, mai sopra le righe, mai sotto, con i tuoi riti e le tue piccole liturgie, con l’estroversa affabilità che così bene si compenetrava con la mia introversa scontrosità.

In una foto di tanto tempo fa noi ci baciamo sotto un acquazzone e, qualche ora dopo, la bufera scoppiò improvvisa come una congiura: ad essere assassinato fu il nostro amore, sopraffatto, ucciso, gettato giù da un ponte e poi dimenticato.

Ma noi siamo ancora qua che ci baciamo nel 15x10 di una stampa Kodak con i colori resi bianco e nero dalla pioggia che ci sorprese un pomeriggio e siamo gli attori di quella storia che si sviluppò più tardi.

Siamo un po’ stranieri adesso, senza la passione, con altre storie e altre persone alle spalle e a fianco, danziamo nei ricordi e beviamo coppe d’amaro veleno rivangando un giuramento che suona un po’ meschino visto che la promessa non si è mantenuta e qualcuno potrebbe anche esclamare “Io l’avevo detto!”. Ma no, noi non cerchiamo di addossare colpe, lasciamo che la verità scopra da sola il suo corpo sinuoso e se turberà qualcuno, pazienza. È troppo tardi adesso per pentirsi, certo che la maturità servirebbe in gioventù e invece è proprio allora che sbagliamo.

Non lo confesserai mai, ne sono certo, ma i tuoi lamenti non erano che una copertura della fragilità che inconsciamente forse porti dentro, la roccia ti è all’esterno e nessuno ti sospetta fragile dentro se non chi ha amato tanto quel tuo modo d’essere. Sì, certo ne vai fiera e chissà che altro ancora, vanità femminile... Io invece ho sempre l’aria di chi resta senza benzina, in piedi accanto a un’auto inservibile.

Ma tu dimmi perché ci sono ancora io in quella cornice tra le tue creme e le tue matite, tra i rossetti e le boccette di profumo. Sono lì che suono il pianoforte aggrappato ai tasti, bianco e nero anch’io come l’avorio e l’ebano e tutti i giorni tu ascolti quella melodia che suona lontana e ti dice che era troppo bello tutto e poi ci fu l’addio. Allora è proprio vero che l’amore è un mistero e che non ne conosciamo proprio nulla: “L’amore è tutto e tutto ciò che noi sappiamo dell’amore”.

30 novembre 1995

 

Petite Pianiste, robe bleue

HENRI MATISSE, “PETITE PIANISTE, ROBE BLEUE”

sabato 14 settembre 2013

Un incontro alla stazione

 

Paola si materializzò nella stazione semideserta delle quattro del pomeriggio; nell’afa di quel caldo giorno d’estate sembrava proprio un miraggio.

«Dopo tanto tempo...» Era ancora la stessa, forse il corpo addirittura un po’ più affusolato nonostante i dieci anni trascorsi. Indossava un abitino color verde mela, dello stesso stile e della stessa eleganza che ricordava, come del resto anche in quell’ultima scena che per tanti anni si era portato appresso: quello spolverino bianco che sventolava nella brezza settembrina.

«E così ora che cosa fai? Ti occupi ancora dell’azienda di famiglia?» Anche le parole, i gesti, erano gli stessi di allora, quelli della ragazza adolescente che provava i primi rossori, che pensava a divertirsi e ogni sera inventava qualche cosa di nuovo, qualche posto insolito dove andare. Gli stessi gesti, le stesse parole di quel settembre avanzato in cui per l’ultima volta furono insieme, mentre il cielo già sporco di smog s’incupiva per l’avvicinarsi di un temporale.

«Il tuo treno parte subito o hai tempo?» per lei avrebbe preso anche l’ultimo treno, vi avrebbe pure rinunciato, avrebbe dormito in stazione pur di restare con lei un minuto di più. E invece lei diceva «Mezz’ora» e lui già guardava l’orologio, il grande orologio dai numeri gialli che scattavano impietosi. «E quanto tempo passerà prima che tu torni?» Gli sembrava di aver già detto quelle parole, forse in un altro contesto, forse con un accento più accorato, come se provenissero da un’altra vita: era stato quell’ultimo giorno, nel salotto di lei, arredato come una stanza dell’Ottocento.

Il sole arroventava le pensiline, ne cadeva sotto forma di luce colando come i famosi orologi di Dalí. Due ragazzi abbracciati passarono sbaciucchiandosi, gli ricordarono Paola e lui di quindici anni prima, i due che adesso come estranei si stavano scambiando banalità, imbarazzati quasi di quel loro passato che era sembrato essere l’universo intero. Come attori che recitassero un copione stavano lì a parlare del tempo e del lavoro, a indignarsi per la situazione politica, quasi solo per il fatto di essersi incontrati dopo tanti anni in una stazione - per puro caso - un pomeriggio d’estate davanti al chiosco delle bibite, e due che si incontrano per caso in una stazione devono parlare del tempo, del lavoro e di politica, non certo dei loro amori. Magari, a incontrarsi in spiaggia o in un ristorante è ancora possibile, ma in una stazione! E l’orologio scattò ancora una volta.

«Ora bisogna proprio che vada» disse Paola e lo baciò sulle guance, lo stesso modo affettuoso di salutare che aveva anche allora. «Telefonami, se ti fa piacere». Rimase lì a guardarla, mentre si avvicinava al treno; i tacchi risuonavano forte sull’ammattonato. La vide salire e voltarsi ancora una volta, salutare con la mano. Rispose al saluto e non la vide più. Aspettò che il treno partisse, lo guardò andare via, finché non divenne un puntino sull’orizzonte, poi se ne andò portando nella memoria e nel cuore un’altra scena di addio.

3 maggio 1995

 

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JACK VETTRIANO, “THE RAILWAY STATION”

sabato 7 settembre 2013

Leggendo Pessoa

 

Leggo Pessoa, “Il libro dell’inquietudine”. Una pagina al giorno, senza esagerare, qualche volta anche solo uno dei capitoletti che compongono l'opera. Lo centellino, come una bottiglia di porto posata su un tavolino di quei bar all’aperto che il poeta portoghese frequentava a Lisbona. Come una Bibbia da consultare soltanto per un versetto, come una filosofia portatile, un testo da cui trarre una divinazione.

Così oggi mi capita di soffermarmi su questa affermazione: “Un amore è un istinto sessuale, però non amiamo con l'istinto sessuale, ma con la presupposizione di un altro sentimento. E questa presupposizione è, di fatto, un altro sentimento”. E di conseguenza resto a riflettere sulla mia situazione contingente, sul momento che sto vivendo, sui rapporti che intercorrono tra me e P.

Analizzo questo sentimento che provo. Non ha la stigma dell'amore, o almeno non ancora. È un territorio inesplorato dove picchiare paletti, dove ipotizzare costruzioni: come quelle aree fabbricabili piene di sterpi e di erbe secche che si muovono al vento - l'architetto vi sogna già palazzi, strade, alberi, vede già persone che vivono in quelle case, in quei giardini che esistono solo nella sua mente, nella sua fantasia. Ecco, così è questo sentimento: vive del fascino del possibile, come in un sogno.

E intanto sono, così, semplicemente, languidamente. Lascio scorrere la vita come un fiume placido, in questa tranquilla domenica di fine estate, senza preoccupazioni, senza patemi. Mi lascio anche andare ad una fantasia amorosa, ma come un brivido di febbre che invada il corpo. E penso a lungo a qualche posto dove sarebbe bello andare per una passeggiata pomeridiana sapendo che poi non andrò da nessuna parte.

 

Almada_Negreiros,_Retrato_de_Fernando_Pessoa,_1964

ALMADA NEGREIROS, “RITRATTO DI FERNANDO PESSOA”

sabato 31 agosto 2013

Un appuntamento

 

«Dunque me ne stavo lì con le mani in mano in quel salone tutto illuminato, con la musica e i ballerini che mi vorticavano intorno. Ascoltavo il fruscio delle gonne nel valzer e il colpo secco dei tacchi e meditavo di andare a farmi un goccetto al bar, quando d'improvviso, come sbucata dal nulla, una ragazza mi invitò a ballare.

Era una bionda minuta, con i lunghi capelli sule spalle e un filo di trucco a correggere forse qualche leggera imperfezione dei tratti, sapete come fanno le donne, no? Il suo corpo era splendido, ben fatto, nella normalità... voglio dire: non aveva seni enormi o fianchi esagerati, o inesistenti che sembrasse un uomo. Una bella ragazza, insomma, e mi chiede di ballare. Io ero lì che mi annoiavo e, invece di dirle che non so proprio ballare, accettai. Forse neppure lei era tanto capace, così sorvolò sui miei difetti e danzammo tutta la sera.

Non ci crederete, quando andò via mi fissò un appuntamento, sì: fu proprio lei a fissarlo, “Vediamoci sul lungofiume domani sera, vuoi? Ti va bene per le nove?"»

Alle otto e tre quarti, finito di cenare in un ristorante sotto i portici, era tornato a casa che era quasi buio, aveva preso una birra dal frigorifero e si era disteso vestito sulle coperte a guardare la televisione. Dopo un po' la spense. Forse provava davvero rimorso per aver abbandonato quella ragazza, sentiva un po' di compassione per quella creatura docile e indifesa, permeata di dolcezza, forse anche di ingenuità, che aspettava invano appoggiata al parapetto, magari le veniva anche la tentazione di buttarsi giù. Pensò anche di scendere a vedere se fosse là, invece si alzò a prendere un'altra birra e tornò a sdraiarsi.

Se la immaginava parlare con un’amica, dirle “Gli uomini sono tutti dei mascalzoni” e giù a raccontarle la storia di quel damerino impomatato che in quel salone sembrava far tappezzeria ma che forse stava là perché on sapeva ballare troppo bene e che proprio per quello le aveva fatto tenerezza...

«Le donne!» disse «E magari mi aspettava là sulla panchina con l’idea di andare in qualche posto, in qualche camera a fare l’amore... Sì, perché la bellezza fisica, vedete, passa velocemente, viene recisa come un fiore di papavero quando si fa la messe... Magari voleva fare qualcosa intanto che è giovane, godersela, spassarsela. Perché, credete a me, alle donne non resta altro da fare che sdraiarsi sulla schiena, credetemi».

Così almeno ci raccontò una sera al Café Liszt, seduto davanti a una mezza dozzina di bicchieri da vodka vuoti, a pochi metri da luogo in cui la ragazza gli aveva dato appuntamento, quasi trent’anni prima.

23 ottobre 1995

 

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CASSANDRA RONNING, “GREECE, MAN IN CAFÉ”

sabato 17 agosto 2013

Una stella cadente

 

Serata perfetta per osservare le stelle cadenti, per rimanere nell’ombra della veranda e guatarle come un avvoltoio: della luna c’è solo un’unghia e per di più bassa sull’orizzonte adesso, impigliata nei rami metallici di un’antenna televisiva; e poi questa è una zona dove basso è l’inquinamento luminoso, hanno addirittura spento le luci che illuminano il santuario, per l’occasione.

È una notte magica, come quella del solstizio d’estate o quella di Valpurga: ma qui non escono le streghe a celebrare il loro rito, né gli adoratori del sole. È una notte da romantici, da innamorati: e pensare che altro non è che la scia di una cometa ad intersecare la rotta terrestre: lo sciame consente di osservare centinaia di “stelle cadenti” ogni notte.

Eccomi lì con lo sguardo rivolto al cielo buio dove tremano tutte quelle capocchie di spillo: ecco l’Orsa Minore, il Cigno, la Volpetta, la Lira. E… una stella, una stella cadente! No, è un aereo, ora ne sento anche il rumore. Le lucine lampeggianti, si sposta lento da occidente a oriente, probabilmente tra pochi minuti atterrerà a Orio al Serio.

Un tempo – quando ero bambino – credevo che le stelle cadenti fossero piccoli cuori di luce palpitanti, con le loro belle cinque punte, e andavo a cercarle nel giardino buio, convinto di trovarvi stelle marine bianche e fosforescenti. Anche Linus, il protagonista dei Peanuts… Infatti c’è una bellissima striscia in cui chiede a Charlie Brown se, nel caso ne cadesse una, potrebbe metterla nel suo secchiello e portarla a casa.

Un tempo, quando ero ragazzo, un adolescente timido e introverso, al loro passaggio esprimevo un desiderio che sapevo già irrealizzabile, un’illusione pazzesca che non aveva nulla della speranza, ma solo i crismi dell’irrealizzabilità. E infatti nessuno di questi desideri ha potuto realizzarsi mai.

Si sa invece che questo tipo di desideri devono essere enormi, appassionati, non facili da essere appagati. E forse proprio in questo sta la loro eccezionalità. Non si chiede alle stelle cadenti quello che si potrebbe domandare a Babbo Natale o al Grande Cocomero di Linus. Si chiede qualcosa che va oltre, non un bene materiale, ma un bene spirituale, che attinge alla sfera affettiva.

Eccola! Eccola! Bellissima! Una stella cadente, un bolide bianco che ha graffiato il cielo per un secondo che è sembrato durare molto più a lungo, come il batticuore. Ed ho espresso il mio desiderio: stavolta so che potrebbe un giorno realizzarsi, so che è nel limite finito del possibile, stavolta ho chiesto un sogno…

 

IMMAGINE DAL WEB

sabato 3 agosto 2013

La ragazza bionda

 

“Such a lovely place, such a lovely place... such a lovely face plenty of room at the Hotel California any time of year... any time of year..."

Cantavano i ragazzi in riva al mare e il vento che soffiava da Levante portava fin lì qualche spruzzo e faceva volare come gonfaloni i capelli delle ragazze. Il tipo che suonava la chitarra, con una felpa Best Company sui calzoncini da bagno ci dava dentro con gli accordi, si atteggiava a virtuoso. Accanto a lui c'era un brufoloso con una maglietta californiana che batteva ritmicamente su un paio di bonghi. C'era una ragazza in pareo che teneva il tempo con le mani, ed era certamente legata a un altro ragazzo bruno con una polo rossa che di tanto in tanto le accarezzava i capelli o si allungava per scambiare un bacio con lei. Ma Giovanni, che sedeva sulla sbarra azzurra dove erano legati i pattini, intento a inseguire i suoi pensieri e il corso veloce delle nuvole, aveva occhi solo per un'altra ragazza del gruppo, una biondina con un maglioncino bianco sul bikini e una timidezza nei gesti che gli stringeva il cuore.

“Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi le tue calzette rosse, e l'innocenza sulle gote tue, due arance ancor più rosse"...

Cantalo l'amore, ragazza, cantalo... pensava Giovanni. Canta la nostalgia che provi dentro di te e quel batticuore che ti prende quando scende la sera e il cielo si tinge di fumo e di fuoco. Cantalo quell'amore che sogni, che ti brucia come un incendio, canta quello che non hai dato e quello che non hai avuto. Cantalo, ragazza bionda, cantalo anche per me... perché io ti somiglio.

"But you only want the ones you can't get.... Desperado oh you ain't gettin' no younger..."

I ragazzi si alzarono e si incamminarono lungo il mare. Probabilmente sarebbero usciti al varco del pontile per rientrare in città. Stavano parlando tra di loro, tranne la ragazza che Giovanni stava osservando da tempo. Così, gli passò davanti silenziosa, ma lo guardò negli occhi per qualche secondo - nel ricordo gli sarebbero sembrati poi minuti, secoli, un'eternità - e gli sorrise. Il dissimile che avverte un altro dissimile, si disse tornando a casa.

 

Spiaggia

FOTOGRAFIA © VISUALPHOTOS

sabato 27 luglio 2013

Nel tramonto

 

La luce del tramonto cola liquida, riversa i suoi colori sulla sera, ne fa acquerello. Ma adesso è tempo di separarci, è ora che tu mi lasci andare via senza aggiungere parole. Perché io non ti ferisca, perché tu non mi ferisca. Perché non ci tradisca la dolcezza di questo crepuscolo, perché non ci entri nel sangue accendendo nuovi sogni e nuovi desideri, attizzando l’antica fiamma ormai spenta.

Perché potrei anche umiliarmi e chiederti di perdonarmi, perché potrei fare la pazzia di svilirmi e restare qui tra le tue braccia, arrendermi a questo amore che non vuoi e non voglio. Per non cadere nel deliquio di questa atmosfera mi aggrappo alla realtà, osservo le trame delle nuvole, ce ne sono d’oro e di rame, altre sembrano piombo fuso, il vermiglio del sole che precipita le tinge sui bordi di una luce di fiamma. È una sera che stilla romanticismo ed è proprio quello di cui non abbiamo bisogno. Ci sarebbe servita una grigia giornata di pioggia, malinconica e triste per dirci addio, per rassegnarsi a queste strade che divergono – perché la ragione ci dice che devono divergere ma il cuore vorrebbe continuare il suo tragitto a dispetto delle paure.

Ti avvicini. Se adesso mi bacerai, so che non saprò resistere e non andrò più via. Con una mano mi sfiori la tempia. È un gesto d’addio oramai, lo so. Forse è proprio quello che mi serviva, che ci serviva, per prendere il largo e abbandonare questo porto. Accarezzo la mano che mi ha sfiorato la testa e mi volto per non guardare quegli occhi che brillano di pianto. Infilo la porta: un’altra vita comincia. In strada collane di lampioni, è già buio verso est. Dall’altra parte c’è solo una brace rossastra che arde sulla pianura.

 

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DAVY BROWN, “SUNSET OVER ARRAN”

sabato 13 luglio 2013

La loquace

 

Parlava di quella sua voglia d’antico, seguendo forse con Gozzano il rimpianto e l’abbandono. Deprecava i mercatini con antichità troppo recenti, falsi compresi, e gli anacronismi di certe monete che del resto basta guardare solamente per capire: bordi lisci, lettere troppo precise, per non parlare del metallo. Gli antichi erano invece artigianali: usavano martelli e pinze e forza di braccia, oggi invece la quasi perfezione delle macchine crea la modernità.

Diceva con un po’ d’enfasi di un suo viaggio in Egitto, disturbata dai clic delle macchine fotografiche: avrebbe voluto vivere nel Settecento senza tanto progresso, in clima preindustriale, magari nella Francia dei lumi o nella Germania dei filosofi. In Italia... in Italia no. E invece ecco i computer e le fibre ottiche, i laser e gli elettrodomestici. Semplificano la vita complicandotela ancora di più. E noi stolti a crederci evoluti quando ne usciamo volgari e imbecilli, e cafoni irrispettosi senza più né morale né senso estetico o etico.

Sul divano di velluto allungò le gambe e appoggiò il tallone evidenziato dalla lunetta delle calze di nylon sul bracciolo. Chissà perché in quel lasso di tempo in cui ella tacque mi venne da pensare a un barbuto profeta che con la tunica vaghi per la città gridando “Egli è qui!” con il portamento di uno stilita.

Come supplicando un ascolto o perlomeno un dormiveglia quasi attento, riprese a parlare di qualcosa che c’entrava con Narciso: una formella o un dipinto, credo. E poi dell’idra. No, non del mostro di Lerna che Eracle combatté: l’idra, quell’insetto che galleggia sull’acqua, pare quasi un idrovolante.

«Piove!» esclamò improvvisa, poi un po’ più sommessa disse «Cade la pioggia» e io distratto solo allora capii e guardai fuori il cielo da chiaro fattosi scuro e sentii l’acqua scrosciare, e nel naso l’odore dell’umido che saliva dalla strada, come se insieme a me si fossero all’unisono ridestati i sensi, più vivi e più allenati.

Guardai che cosa facesse lei: distesa sul divano, taceva, Si era addormentata.

4 ottobre 1994

 

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JACK VETTRIANO, “ALONG CAME A SPIDER”

sabato 6 luglio 2013

Per un bacio

 

Un bacio sfuggì alle nostre bocche, amica mia, un poco rude e ansante ma fragoroso come un tuono, come un lampo di magnesio e chiamalo colpo di fulmine se ti aggrada. Ce ne rendemmo conto quando confusi parlammo di noi e con lo sguardo perso restammo immobili come due statue.

Ma tu pensa che balenio, che corda tesa all’arco di Cupido, che bufera di sentimenti schiumò il mare delle nostre anime per un bacio, per un bacio solo, contatto di due labbra, di due bocche, ché poi non divagammo. Non andammo – che so? – a porre io le mani a lisciare i tuoi capelli o a massaggiare il tuo bel piede nudo, a spingere tu la mia mano a carezzarti un seno per sentirne il calore.

Pensa che collisione, che affondamento di pensieri, quasi un Titanic, per un bacio, un misero isolato bacio.

 

7 ottobre 1994

 

Sealed with a Kiss

FLAMENCO DANCER, “SEALED WITH A KISS”

sabato 29 giugno 2013

Il poeta

 

Da una finestra a Ponente entra l’ultima luce del giorno, data quasi matematicamente dall’arancione che sbiadisce sopra i monti e dai primi lampioni per comodità accesi. Il cinereo pallore di quella luce rivela a occhi abituati e memori la parete con le stampe di dipinti ottocenteschi, una Classe di ballo di Degas, le Ninfee di Monet, il volto del Cristo in legno, cartoline dal mondo.

Sul letto una coperta a righe, tendine alle finestre, uno scrittoio e una libreria; un grande armadio completa la camera. L’uomo seduto al centro della stanza, un poeta, smette di contemplare il tramonto e accende la luce con uno scatto metallico che va a disturbare la musica ricca di suoni di sassofono che riempie la stanza come il caldo pulsare di un cuore.

Sullo scrittoio è posato un fascio di carte legate con un nastro di raso cremisi. Sembra abbandonato con noncuranza, deposto inavvertitamente tra un fermacarte opalescente di vetro di Murano che irradia riflessi luminosi e un portapenne americano di ceramica dal costo spropositato riempito di vecchie penne stilografiche. Invece, quei cartigli sono stati collocati con cura, anche se con mano un poco incerta, dal poeta, in un rituale quasi religioso: come se da quei fogli un aruspice avesse potuto trarre il futuro con gesti misurati, come si faceva con i visceri della vittima sacrificale.

Il poeta li ha soppesati nella mano, ha anche fatto due, tre volte il gesto di aprirli, di sciogliere il nodo e lasciarli spalancare con tutti i loro segreti sullo scrittoio al pari di un mazzo di fiori trattenuto dall’incarto. No, li ha semplicemente adagiati con delicatezza tra il fermacarte e il portapenne, apparentemente dimenticati sul piano di legno mentre il buio invadeva la stanza e il tramonto entrava prepotente a riportare ricordi quasi dimenticati.

Ore prima, stava riordinando il garage quando da una scatola di sigari posata sul culmine di uno scaffale polveroso era uscito quel fascio di carte. Seppe subito che cosa aveva rinvenuto: poesie di tanti anni prima, rimaste nell’oblio di quel nascondiglio, dimenticate a lungo, fino a che l’occhio non aveva scorto quel nastro cremisi. Aveva smesso di riordinare il garage, si era lavato le mani ed era rimasto ad osservare quel tesoro senza avere il coraggio di aprirlo. Ricordava...

 

Ma ora, ragionandovi, non riesce a spiegarsi quell’arcano timore che ha provato nel tenere le carte nel pugno Le prende senza più esitare, lascia cadere sullo scrittoio il nastro, che forma una macchia rossa sul ripiano e comincia a leggere il primo foglio:

NOTTE

Mi intromisi
nello scorrere del tempo.
Ti guardavo
- un tenero fiore di giada
ad ali chiuse.
Quando cantò un bacio,
mio amore,
la stella alle labbra
un altro tempo ci portò.

Il volto di una donna si impone violentemente alla memoria, vi si è insinuato già quando ha aperto la scatola di sigari. Il tenero fiore è lì, uscito dalla penombra della stanza, come proiettato sul muro, dove spicca tra le stampe la sua nudità. Il poeta ricorda quella notte: ebbro d’amore si era seduto a quello stesso scrittoio per vergare di getto quei pochi versi, gli era sembrato che il tempo fluisse nella penna, che fuggisse via tutto nelle parole ricordandogli che lei non era sua, che non lo sarebbe stata mai. E non lo fu.

Il sole si è inabissato nell’oceano dei monti, rimangono solo le strisce del suo passaggio come impronte di pneumatici su una strada sabbiosa, graffi lasciati nel cielo per non cadere giù. Il secondo foglio riporta un’altra poesia:

UN BACIO

Riprende stasera
la malinconia,
fatto oro il vetro.
Studiato con gentilezza
il mare,
solo un bacio rimane
come piccoli semi.
Incontrarla e fare a meno
delle labbra non potevo.
Mi ha premuto sul respiro
la sua improvvisa bocca socchiusa.
Non conoscerla non sapevo.
Non ha detto altro che
«Questa impossibilità d’amare»
e si è allontanata.


Li sente quasi ora quei baci appassionati, sente il seno morbido di lei contro il petto quando gli si stringeva nella sera dorata. E prova ancora l’amarezza infinita che gli rimaneva in cuore quando lei se ne andava. Ed arrivava, come in quel momento, la malinconia. Un groppo in gola: ecco il timore che paventava inconsciamente. Quel groppo in gola di quando lei se ne andò per sempre dopo aver tenuto un lungo discorso sull’amore impossibile che non poteva e non voleva vivere. Il poeta, a quel punto, si era perso, aveva lasciato che le parole di lei fluissero come un rubinetto lasciato aperto: «Un amore impossibile» si ripeteva in silenzio, «come i numeri impossibili» e cercava di ricordare cosa fossero... «Sarà colpa mia o colpa tua, ma così non va» concluse lei «Non sento niente». E se n’era andata lasciando memorie di sé: una fotografia scattata in una località turistica, fiori che appassivano, una raffinata rivista di moda.

C’è un’ultima poesia:

TI PENSERÒ

Ti penserò poggiata,
le braccia sulle ginocchia
e fuori la foga dell’acqua,
vis-à-vis con il caminetto
fingerò d’ignorare
che tu sia di un altro,
che per ignoti meccanismi
una notte mi abbandonasti.

Una lacrima scende lungo la guancia del poeta: il ricordo ha ferito la sua anima più di una punta acuminata, di una lancia nel costato. Tanti anni non sono bastati a cancellare la donna: permane in lui come un umore nel sangue, un’essenza in profondità, indelebile, indistruttibile.

La notte sta calando, accendendo i piccoli spilli delle stelle, i monti sono diventati ombre scure; anche la musica si è fermata. Il poeta ripesca in un cassetto la fotografia che lei aveva lasciato con i fiori e la rivista la notte che se n’era andata. Le rose erano seccate e le aveva gettate nella spazzatura, la rivista di moda aveva acceso più volte il fuoco nel camino. La fotografia invece è lì, ora, nelle sue mani. Guarda un’ultima volta quel viso, la bocca sorridente, i capelli raccolti in una coda, lo sguardo troppo dolce e poi lacera la fotografia, la riduce in piccoli pezzetti. Gli sembra di aver lacerato il suo stesso cuore.

 

Ribbon

sabato 22 giugno 2013

Laura

 

L’amore è il mistero delle tue gambe tornite che fanno voltare gli uomini per la strada. Me ne sono accorto, sai, che, quando succede, prosegui impettita e ti si legge in viso l’intima soddisfazione che provi. Ed è forse questo il fine cui miri la mattina quando impieghi tanto a truccarti, fard, fondotinta, mascara, e a fa­sciarti nei collant neri e in abiti eleganti. Ecco: non ti ho mai vista in jeans e scarpe da tennis. Anzi, sì, in una fotografia, ma eri ancora una ragazzina e i pantaloni che erano di moda allora, quelli larghi in fondo e di una tela secca, mortificavano il tuo corpo appena adolescente.

Ricordi i primi tempi del nostro amore? Ti avevo vista una volta al torneo serale di calcio e subito mi avevi colpito, saranno stati i tuoi capelli lunghi pro­fumati di shampoo, sarà stato il tramonto che incendiava gli alberi ad Occidente, sarà stato il modo in cui mi abbordasti - Scusa, tu a chi tieni? Poi ci incontrammo per caso in un bar: io giocavo a biliardo con tre amici, tu lavoravi come cameriera per racimolare qualche soldo per le tue spese da studentessa. Rimasi tutta la sera a guardarti portare caffè, camomille, whisky e grappini tanto che spesso mi distraevo dal gioco e i miei amici capirono subito che mi ero innamorato.

I nostri incontri furono così più frequenti e meno casuali: ci scambiammo il numero di telefono, ci demmo il primo appuntamento, uscimmo la prima volta insieme. Andammo in un piano-bar del centro, un ambiente fumoso dalle luci soffuse, e lì tra un frullato alla banana e uno scotch ci scambiammo il primo bacio e la prima promessa. Avevi voluto assaggiare il mio whisky e forse un po’ ti aveva dato alla testa perché quando ti alzasti per chiedere al pianista di suonare qualcosa di Battisti mi cadesti in braccio ridendo e io baciandoti il collo ti aiutai a sollevarti. Ti vidi appoggiata al piano parlare con il pianista e quando tornasti quello cantava “Vento nel vento”...Io e te... io e te... perché io e te? Qualcuno ha scelto forse per noi? Mi son svegliato solo poi ho incontrato te, l’esistenza un volo diventò per me e la stagione nuova dietro il vetro che appannava fiorì, fra le tue braccia calde anche l’ultima paura morì. Io e te, vento nel vento. Io e te, nodo dell’anima, stesso desiderio di morire e poi rivivere io e te... E quella canzone che avevi scelto tu divenne la nostra canzone in quella sera d’estate che si stava lentamente tramutando in notte. La luna era un’unghia appesa alle stelle e io an­cora ti baciai.

L’amore è il mistero tra le tue gambe che tu mi svelasti una sera quando il temporale ci sorprese con le biciclette in campagna e trovammo rifugio in un cascinale deserto. C’era un po’ di paglia e accendemmo un fuoco per far asciugare i vestiti. Eri così tenera con i capelli bagnati, sembravi un pulcino, e l’amore venne naturale. L’arcobaleno ci trovò abbracciati con i capelli pieni di paglia e una speranza nuova per la nostra storia. Tornammo a casa nelle strade di cellofan liberi e felici come due gabbiani. L’estate svanì nelle piogge e l’autunno ci portò la nostalgia e rubò tempo al nostro amore perché le scuole ricominciarono e dovevi studiare per la maturità. Ci incontravamo all’alba sul treno che ci portava a Milano. Arrivati sul viale della stazione tutte le mattine mi dicevi quanto ti piace l’autunno con i suoi colori e camminare sul tappeto di foglie secche. Dietro i fine­strini nasceva il sole rosso come un tuorlo d’uovo oppure si diffondeva una fumosa coltre di nebbia e intanto tu mi parlavi di noi o dei tuoi problemi.

Una mattina non c’eri e rimasi solo a guardare i campi coperti di brina pensando a te e ai tuoi occhi grigi. Allora è vero che l’amore nasce dal dolore perché quella mattina ti amavo ancora di più di ogni altra mattina quando tu eri seduta di fronte a me. Alla stazione Centrale incontrai tua cugina e seppi che eri malata, il pomeriggio mi precipitai a casa tua e ti trovai a letto con uno sguardo pieno di febbre. Sembravi un gattino così spettinata e svogliata e l’amore che provai allora forse non l’ho più provato. Ma forse non era amore, era solo voglia di proteggerti, di guarirti. E non è forse amore volere il bene per chi si ama? Un giorno poi tornammo al santuario del nostro amore, quel cascinale sperso nella campagna. Nascondesti una lacrima fugace dentro il fazzoletto e baciandoti ti sentii ancora felice. Un contadino che avevamo incontrato sulla strada ci offrì un grappolo di uva bianca e lo divorammo con lo stesso ardore con cui quella volta avevamo consumato il nostro amore. Passò Natale e la settimana in montagna piena di luoghi comuni e di skilift presi e ripresi. La sera il caminetto acceso ci riportava un po’ di poesia e le nostre ombre tremolanti sul muro erano un’ombra sola mentre fuori la neve cadeva soffice e silenziosa. Allora mi chiedevo spesso se eravamo felici e non trovavo risposta ai miei dubbi. Passò anche l’ultimo dell’anno in casa di amici con la musica assordante e io che continuavo a dirti - Dai, usciamo, andiamo a festeggiare il nuovo anno da soli su qualche panchina. E poi con Carnevale arrivò la primavera.

L’amore è il mistero dei tuoi occhi grigi, due tratti di mare dove i miei pensieri si perdono, due fari nella notte che scrutano la mia anima. E quella primavera li bevvi d’un fiato così che ora non li scorderò mai più. Mai più. La stagione cominciò tra i coriandoli di una festa in costume per Carnevale: vestita da dama del Rinascimento eri ancora più bella, i capelli raccolti, la scollatura ampia che mostrava l’incavo dei seni, i tuoi occhi grigi. Eri la mia regina. Nel mio costume da Cristoforo Colombo mi sentivo impacciato ma devo dire che stavamo proprio bene insieme. E come in quella festa anche nella vita stavamo insieme e gli amici ce lo ripetevano spesso. Eh sì, stiamo davvero bene insieme: forse è perché ci compensiamo, io che cerco di vincere la mia impacciata timidezza, tu che cerchi piuttosto di domare la tua gioiosa esuberanza. Io che mi trovo bene quando sono solo, tu che ti butti giù e cerchi compagnia. Come adesso che ti stringi a me mentre ti ricordo la storia di questo nostro amore. Come adesso che ti togli le scarpe e appoggi la testa sul mio grembo, lasci che io ti accarezzi e dici - Continua, ti prego. - E io continuo a ricordare.

Ricordo un campo di grano, i papaveri tra le spighe mosse dal vento, le biciclette abbandonate sul ciglio della strada e noi sdraiati sotto un cielo azzurro a giurarci nuovo amore, a prometterci di non pensare mai a ciò che la gente può dire e di vivere sempre in libertà. E il fiume lontano faceva sentire la sua voce passando tra le rocce, i grilli facevano la serenata alla nuova estate che nasceva portando il rumore delle trebbiatrici nei campi più remoti.

E ora sei tu a ricordare, parli con voce soave della maturità, di quelle giornate in giardino a studiare e io che ti aiutavo e che ti portai a scuola la mattina e apprezzasti molto quelle mie lunghe attese, forse più ansiose per me che per te che almeno ti dovevi impegnare. E io che leggevo il giornale e guardavo l’orologio e tu dalla finestra mi vedevi e provavi un’infinita tenerezza. Questi sono tra i momenti più belli dell’amore, quando si soffre per il bene dell’altro e non pesa la sofferenza se si pensa all’amore.

L’estate poi fiorì in riva al mare. E partimmo insieme alla fine di luglio, una corsa in autostrada dall’alba alle dieci e nei tuoi occhiali a specchio il Veneto e poi i campi di mais del Friuli. Trovammo una buona compagnia e ci divertimmo come matti. Una notte rimanemmo ad aspettare l’alba in spiaggia e si spegnevano le stelle ad una ad una e i pescherecci tornavano nel cielo rosa con le reti piene mentre i primi barconi arrivavano a dragare i fondali. Rientrando cogliemmo gli oleandri in un giardino e respiravamo l’aria frizzante che sapeva di sale.

Ed eri splendida la sera che fissammo come il primo anniversario del nostro amore e quasi litigavamo perché io sostenevo che io mi ero già innamorato di te il giorno del torneo serale, e tu dicevi che non ho mai parlato di colpo di fulmine e che non era stato quella volta che siamo stati al cinema a Bergamo e poi siamo andati da Balzer e lì ti tenevo le mani e ti baciavo intanto che aspettavamo la cioccolata e le paste: prima c’era stata la sera del piano-bar e non ti ricordi neppure della nostra canzone e della promessa che avevi fatto allora. Come al solito la spuntasti tu e dovetti ammettere che sì, era proprio così e quel 10 agosto era davvero il nostro primo anniversario e per farmi perdonare andammo a cena nel ristorante più chic con le aragoste e lo champagne, anche se tu preferivi una semplice pizza alla napoletana.

E a mezzanotte ti portai sulla spiaggia e c’era una luna piena e bianca che si sdoppiava nel mare e ti baciai e fu tutto come la prima volta, nonostante lo scenario diverso. Quel che conta è l’essere, non l’apparire come vogliono farci credere. Quel che conta è che noi allora ci sentivamo gli stessi di un anno prima e provavamo le medesime emozioni e le nostre anime erano una sola anima come quella doppia luna gigante. L’ultima sera, gli amici ci prepararono una festa sulla spiaggia e accendemmo un falò e qualcuno aveva portato la musica e ballavamo e ridevamo e ci baciammo e poi facemmo il bagno al buio. Sa­ranno cose banali che sembrano uscite da un film sugli anni Sessanta ma è banale sentirsi felici?

1987

 

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JACK VETTRIANO, “ANNIVERSARY WALTZ”

sabato 8 giugno 2013

Il sorriso di lei

 

La ragazza sorride: indossa un vestito chiaro e il sole del tardo pomeriggio illumina il suo viso, disegna riflessi dorati sui capelli castani. Il suo ricordo è un volo di gabbiani nell’azzurro, un raggio di luce che attraversa una nuvola candida e tinge con l’oro i suoi contorni. La ragazza sorride da un giugno ormai lontano, molto lontano e l’uomo seduto da solo sul muretto a guardare il giorno morire lentissimo su un anfiteatro di colline moreniche ripensa a quel tempo in cui anch’egli era un ragazzo, il ragazzo cui il sorriso era rivolto.

Ripensando al passato, non può fare a meno di enumerare ancora una volta tutti i suoi errori. In primis, quello di avere amato la ragazza come un sogno, di averne fatto un simbolo di nostalgia per sopravvivere, per aggrapparsi a qualcosa per non cadere, per non venire trascinato sul fondo: lei fu il salvagente che per anni lo tenne a galla, lei fu l’ancora che permise alla sua esile barca di non andare alla deriva. Fu con la forza di lei che l’uomo era riuscito a resistere ogni volta che volentieri avrebbe mollato, che si sarebbe abbandonato al suo destino come gli sbandati dell’esercito italiano che si sdraiavano nella neve ghiacciata durante la ritirata di Russia. Invece no, aveva continuato a camminare, aveva inseguito ostinatamente, anche contro ogni ragione, la speranza. Nei momenti bui era l’immagine di quella ragazza che gli appariva come una Madonna e gli indicava la via. Era come se recitasse una parte, quella della sua coscienza, di un fato superiore che in qualche modo lo proteggesse. Era per questo che la amava: lei incarnava il suo sogno, in pratica era un vaso che conteneva la sua vita ed evitava in ogni modo che lui la versasse. Con il passare del tempo era diventata un’ombra del passato, ma sempre distaccata dalle altre figure della memoria: una Beatrice a indicare la strada del suo personale Paradiso, con il viso luminoso che irradia tutta la sua sicurezza.

Un aereo cuce cielo e terra a oriente, dove la luce ancora permane: è il suo rombo a ridestare l’uomo dalle sue memorie. Si alza dal muretto e riprende a camminare verso la sua meta tra i giardini fioriti. Sul suo viso riluce il sorriso di lei.

 

Morgan

FOTOGRAFIA © SCOTT MORGAN

sabato 1 giugno 2013

Prima del tramonto

 

Una ragazza rideva sull’altalena rossa, una spinta più forte generava di tanto in tanto un urletto che si confondeva con lo stridulo canto dei gabbiani. A spingerla era un ragazzo bruno dalle fattezze mediorientali, ma forse era quella barba scura a trarre in inganno. Badaloni disse che il movimento dell’altalena gli rammentava un altro movimento e che sembrava che i due ragazzi stessero facendo l’amore, anche per i gridolini di lei. Ma per Badaloni il sesso è un chiodo fisso e nessuno prestò molta attenzione alla sua teoria, tanto meno Rossi, che era intento ad osservare una ragazza prona sulla battigia proprio dove le onde lambivano la spiaggia: aveva le gambe nel mare e il busto sulla sabbia ed era pensierosa, il capo chino, appoggiata sui gomiti. Badaloni avrebbe certamente detto che la ragazza era in quella posizione perché faceva l’amore con il mare, rivolgendo il sesso alla carezza delle onde. Ma Badaloni le volgeva le spalle e fortunatamente non poteva vederla.

Più in là una donna parlava all’orecchio di un uomo: erano entrambi sdraiati e lei si mostrava di schiena, dava proprio l’impressione di un violino, anche l’abbronzatura con il suo colore ligneo contribuiva all’idea. Maria Sole provò a spostare il discorso sulla psicologia, per sottrarre il gruppo alle morbose teorie di Badaloni: “Belli i gabbiani... Sapete che gli uccelli simboleggiano un grande bisogno di libertà e di desiderio di fuga dai vincoli sempre più forti della quotidianità? Be’, non tutti: il corvo è la frustrazione...” Badaloni chiese cosa simboleggiasse invece il sole e - manco a dirlo - Maria Sole gli rispose che indica creatività e comprensione nonché un io molto forte, ma soprattutto una dirompente sessualità. “Il fatto che il mio nome sia Maria Sole” aggiunse “non significa però che tu la debba esprimere nei miei riguardi, caro Badaloni”.

La ragazza che era sdraiata sulla battigia era entrata in mare solo pochi metri e, seduta sui talloni, guardava l’orizzonte dove nuvole basse imitavano una costa formata da monti innevati. Un’ultima vela tornava a riva: bianca davanti al faro bianco, mi rammentò “Le Bagnanti” di Picasso; cercavo tra le ragazze che si attardavano sul bagnasciuga qualcuna che potesse essere in quel quadro: c’era quella che si lisciava i capelli seduta ma non trovai quella che si pettinava né quella che si asciugava i capelli sdraiata. Un movimento davanti a me mi distolse dalle fantasticherie artistiche: la donna che sembrava un violino si era alzata e si preparava ad andarsene. Il seno le traboccava dal costume. Indossati un pareo ed un cappello di paglia, se ne andò mentre l’uomo la seguiva portando borse e teli di spugna. “Queste donne: più le adori e più ti fanno schiavo” disse Rossi e subito Badaloni replicò: “Vorrei essere io lo schiavo di una così!”

La ragazza della battigia aveva raggiunto uno scoglio e vi si era seduta: ancora guardava l’orizzonte come se aspettasse qualcosa, l’arrivo di un puntino che a poco a poco si trasforma in nave, vela, zattera o relitto. Con un gesto improvviso si voltò e si tuffò in mare; con poche bracciate raggiunse la riva e si diresse verso le cabine. L’afa del pomeriggio era caduta e un vento fresco soffiava dalla pineta portando un odore di terra e resina. “È un’ora così bella e così triste” disse Maria Sole, “andiamo, altrimenti piango”.

(16 maggio 1991)

 

Pablo Picasso, Les baigneuses

PABLO PICASSO, “LE BAGNANTI”

sabato 25 maggio 2013

La stampante 3D

 

Ho sognato una macchina capace di creare oggetti. Era una specie di juke-box in un angolo seminascosto di un bar, in quel momento deserto. In effetti poteva essere il retro: c'erano accatastate casse di acqua minerale con i vuoti da rendere e scatoloni da sei di bottiglie di vino.

Mi avvicinai alla macchina. C'era un microfono attraverso il quale il software evidentemente elaborava le istruzioni: bastava indicare il nome dell'oggetto e questo prontamente veniva stampato. Provai. Pensai di realizzare un coltello da tavola. Dissi, in inglese: «Table Knife». Niente. Neanche una lucina che lampeggiasse. Provai ancora: «Fork». Nulla. Riprovai: «Spoon». La macchina rimase immobile e silente. Ci girai attorno, esaminandola, e scorsi un'etichetta laminata sul retro. Indicava la fabbrica che l'aveva prodotta. Si trovava a Frattamaggiore, in provincia di Napoli. La lampadina, invece che sulla macchina, si accese in me: l'oggetto doveva essere chiesto in italiano. Mi avvicinai ancora al microfono e pronunciai distintamente: «Coltello da tavola». Si accese una spia, la macchina elaborò un poco e quasi subito sputò nello sportello apposito qualcosa, che cadde con rumore metallico. Lo presi: era un coltello da tavola in una qualche lega che brillava argenteo ai raggi di sole che entravano da una finestrella del retrobottega. La fattura era buona. Provai allora con «Cucchiaio» e in breve ebbi la mia posata. Così anche con «Forchetta».

Poi, per scherzo, provai con «Seno» e il mio sorriso era spartito a metà tra la boutade e la sfida che credevo di lanciare alla macchina. Stavo pensando: «E adesso cosa fai, eh? Che cosa fai, macchina?» quando nel cassettino demandato alla raccolta degli oggetti con suono attutito uscì un perfetto e rosato seno di donna, con il capezzolo di un colore più scuro. Era di silicone o di una resina simile. A quel punto volli provare con un concetto astratto, per mettere alla prova ancora una volta la macchina: «Amore». Ma resta purtroppo inevasa la mia richiesta: proprio in quel momento un tuono mi ha svegliato, un forte temporale si stava abbattendo sulla città.

Sono rimasto lì, sveglio, mentre i bagliori dei lampi di tanto in tanto illuminavano la stanza. Caro il mio Freud, vedi che effetto può fare leggere un articolo sulle stampanti 3D prima di andare a dormire...

 

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FOTOGRAFIA © AIRWOLF 3D

sabato 18 maggio 2013

Qual è colui che sognando vede

 

Qual è colui che sognando vede,
che dopo ‘l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede.
DANTE, Paradiso, XXXIII, 58-60

Tutto accadde così, all’improvviso mi ritrovai catapultato come Alice dentro lo specchio o come Dante nel mezzo del cammin di nostra vita. Ero in una selva, naturalmente, ma non di alberi e arbusti, di felci e licheni: un bosco di pilastri, di colonne ben bilanciate, decorate canonicamente con i capitelli d’acanto – cattedrale gotica, antico scriptorium di una biblioteca medievale. Ogni colonna dunque era un’idea, un perno portante per resistere al moto della luna e agli influssi delle maree. Ero nudo e mani si tendevano verso me, dita di fuoco che quando riuscivano a sfiorarmi mi lasciavano sulla pelle il loro marchio come un tatuaggio.

Eppure ero io quello che si era erto a vendicatore, ero io l’incarnazione della giustizia umana, un moderno conte di Montecristo evaso dalle pastoie della sua vita, tornato indietro per completare l’opera, punire chi c’era da punire e redimere chi c’era da redimere. Mi ero messo in caccia di tutti i pensieri molesti e li avevo schiacciati come tafani, i male accetti consigli spiaccicati sul muro, gli importuni discorsi infilzati allo spiedo. Dopo, le illusioni schiantate, i rimpianti libratisi in volo, i rimorsi mai digeriti hanno fatto meno male. Se avevo confuso l’essere con l’apparire, se avevo navigato tra lo spazio e il tempo, se mi ero perso come dadi rimescolati nei bussolotti, adesso avevo finalmente tra le mie mani il filo del destino...

E invece ero lì tra le colonne, in fuga da qualcosa, da qualcuno. La torma di scagnozzi spuntava dalla terra, dal pavimento di granito, dalle grate. Vedevo soltanto quelle loro braccia, le zampe, gli artigli. Vedevo il balenare delle fiamme, lo sentivo riverberare sulla mia pelle, sulle pareti, sulle scaffalature, sui confessionali, sulle arcate di pietra. Correvo, correvo a perdifiato. Doveva essere sterminato quel bosco di colonne, forse infinito, immerso in una luce fioca fin dove si poteva gettare lo sguardo, poi soltanto una cupa oscurità. Da una delle navate laterali uscì un frate rubizzo e opulento: “La diritta via!” urlò con voce squillante e intanto indicava una porticina dalla quale penetrava una luce ben più vivida. Decisi di fidarmi e la infilai... Subito si trasformò in una finestra, dalla quale entrava il sole dell’alba. Ero sveglio.

 

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FOTOGRAFIA © NATIONAL RAILWAY

sabato 11 maggio 2013

Confabulation

 

Lame di fuoco nel mattino, l'alba stagnante sulle colline ad oriente, l'aria fresca entra dal finestrino a ricordare la velocità, il serpente grigio dell'autostrada, i Tir sonnacchiosi...

Venezia con i suoi ori, maliarda ed equivoca come la definì Thomas Mann, San Marco. Ho un appuntamento con Ursula e sono in ritardo. Eccola: bionda, magra, attraente, elegante. Sono le venti ormai, andiamo a cena in un ristorante di Salizzada San Lio e poi via per le calli, ammaliati dal fascino grave di questa città, un po' sperduti un po' eccitati.
«Buona notte, Leonardo»
«Buona notte, Ursula»

La mattina entra dai vetri, il sole limpido dell'estate mi sveglia. Oggi ho da fotografare dei dipinti alla Scuola di San Rocco per un libro d'arte. È meglio che mi sbrighi, altrimenti il lavoro si accumula. Vaporetto, scie d'oro di motoscafi. San Tomà, Campo San Rocco. Presento l'autorizzazione poi regolo l'illuminazione. "Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia” e la “Crocifissione” del Tintoretto, "Cristo portacroce" di Tiziano : dodici pose ciascuno e il lavoro è finito.

Una luce davanti agli occhi, irresistibile. Mi costringe a guardare, mi strappa dalla sala. Le palpebre sbattono, gli occhi si aprono. Una voce cavernosa, con accento meridionale, dice: «Si sta riprendendo». Immagini sbiadite e sfuocate entrano nella mia mente come fotografie sovraesposte. Poi distinguo una donna, china su di me. Sussurra tra le lacrime «Roberto». Vicino a lei una ragazza, lo sguardo assorto, uomini in camice bianco... sono medici, lo capisco quando mi accorgo di avere un tubo infilato nel naso e un altro nel braccio. Sguardi ansiosi delle due donne su di me. È una camera d'ospedale. Sono in una camera d'ospedale. In un letto d'ospedale. Ma perché? Che cosa mi è successo? Stavo fotografando dipinti manieristi a San Rocco, poi non ricordo altro. Che sia caduto per le scale? Ma dove sono? In che ospedale? Provo a parlare, ma il tubo in gola me lo impedisce. Mi porgono una lavagnetta bianca e un pennarello. Scrivo: Dove sono? La donna risponde: «In ospedale». Questo l'avevo intuito. Scrivo ancora: Quale? È ancora la donna, sui cinquant'anni, bella nonostante la tensione: «Quello di Reggio Emilia».Reggio Emilia... Scrivo: Cosa ci faccio a Reggio Emilia? «Ma non ricordi, Roberto?» Mi ha chiamato Roberto... Scrivo: Ma io sono Leonardo. Sguardi attoniti, stupiti, interrogativi. Le due donne guardano il dottore. Non ci capisco più niente. Finalmente il medico mi fa togliere il tubo... «Ora espiri». Tossisco.

Ero a Venezia. Ora sono a Reggio Emilia. Fotografavo dipinti, ora sono in un letto d'ospedale. Mi chiamo Leonardo e qui tutti mi chiamano Roberto, anche l'infermiera. Il medico con la voce cavernosa sta parlando con le donne: «L'incidente, il coma, devono avere provocato un'amnesia forse solo temporale, conseguente al trauma. L'incidente. Ora riesco a parlare: «Quale incidente» chiedo con una voce arrochita che riconosco però subito come mia. «L'incidente... Il Tir, non ricordi, Roberto?»: a parlare è la ragazza, ha un viso familiare, noto che ha una mano fasciata e un vistoso cerotto dietro l'orecchio.

Il Tir... ora un ricordo come un flash  mi attraversa la mente. Il Tir bulgaro davanti a noi, le luci rosse improvvise degli stop, bagliori di fiamma, azzurri lividi, rossi cremisi a macchie, schianti di tuoni, sterza, sterza, gira il volante e quel nome che ho gridato, il nome della mia ragazza che dormiva sul sedile di fianco... Andavamo a Roma, ho gridato per svegliarla, ho gridato «Anna!»

«Anna!»
«Roberto!»
Ci abbracciamo. Temevo di perderla nello schianto. Si alza, mi mostra  un foglio di giornale, il Resto del Carlino di lunedì 12 agosto 1985. Il titolo dice: Auto contro Tir sulla A1: due feriti, uno grave. Leggo avidamente l'articoletto: "All'improvviso il Tir ha rallentato e ha frenato bruscamente per evitare una Volkswagen Golf che aveva tamponato leggermente un furgoncino. La Mercedes guidata da Roberto Guidotti, 28 anni, da Milano, ha urtato violentemente l'autotreno bulgaro. Il Guidotti è stato ricoverato all'ospedale cittadino ed è in coma farmacologico. La ragazza che viaggiava con lui, Anna Bessi, 24 anni, da Bergamo, è rimasta ferita solo lievemente e i medici l'hanno dichiarata guaribile in dieci giorni".

Riordino i pensieri, poi dico: «Dunque è stato così, mamma?»
«Sì, Roberto», e piangendo di gioia mi stringe in un abbraccio.
E Ursula? Solo un falso ricordo, una confabulation… Solo un sogno farmacologico...

 

Highway Lights 1

FOTOGRAFIA © MIKE MUSICK

sabato 4 maggio 2013

Milano

 

Vado per la strada con le mani in tasca guardando tra la gente e lascio liberi i pensieri. Una ragazza ancheggia mollemente sul pavé, occhi di ghiaccio e un amore dentro al cuore tormentato di nostalgia. Il sole è nascosto dietro qual­che nuvola, alle Poste gente in coda agli sportelli. Pesce fresco al cartoccio all'Osteria del Monastero. Una signora anziana porta al guinzaglio il suo cane, compagno fedele di giorni un po’ lunghi; dive e campioni appesi all'edicola.

Un furgone si ferma per farmi passare, ringrazio l'autista con un cenno della mano; il semaforo sembra impazzito e un vigile cerca di trovare il ritmo giusto ai colori mentre i tram sferragliano senza problemi sulle loro rotaie d'argento. La metropoli palpita e non si ferma un momento, rallenta solo di notte ma il suo cuore batte sempre. Ragazze passeggiano con i libri di scuola sotto il braccio e una storia d'amore chiusa dentro al pensiero. E chissà dove sarà il silenzio, laghi montani e pini dorati, spiagge deserte e il mormorio del mare...

Il metrò ingoia la gente e riparte veloce nella sua tana di cemento armato, corre nei corridoi artificiali come una talpa inseguita. Scendo in Centrale e mi lascio tentare dagli stucchi e dai mosaici dei pavimenti; le scale mobili portano su, sempre più su. Un po’ di nascosto arriva il mio treno, salgo e mi metto a sognare per cancellare la vista squallida della periferia. Poi la campagna ritorna davanti ai miei occhi, campi gialli di grano e boschi attraversati da ruscelli. A poco a poco l'aria si fa più pulita e lontano si trova il silenzio rotto soltanto dalla canzone del treno che lascia la città e culla i miei sogni di mare.

 

1984

 

milano piazza del duomo

sabato 27 aprile 2013

Il 29 aprile 1988

 

Quella mattina partii dalla Centrale sotto un cielo livido come questo, che andava spaccandosi nell’alba di aprile.  Il verde nuovo delle foglie ornava i rami del paesaggio che scorreva dietro i finestrini. Avevo due compagni, ci eravamo riconosciuti subito “sulla stessa barca”, capelli corti e borsone: “Militare? A Merano?”. A Brescia dovemmo lasciare il posto a chi lo aveva prenotato, rimanemmo in corridoio con il borsone tra i piedi fino a Bolzano, fino al cambio di treno, mentre il mondo strisciava oltre i vetri sporchi dell’Intercity. 

A Bolzano salimmo su un vecchio elettrotreno marrone, quello derivato dalla “littorina”: ci portò a Merano tra i campi di mele in fiore, nuvole bianche intersecavano i binari e lo scorrere scintillante dell’Adige. La città infine si profilò con il suo ippodromo e le sue case Liberty: scendemmo alla stazione centrale e non a Maia Bassa, come avremmo dovuto. Comunque, anche lì c’erano ad attenderci i camion militari e i caporali istruttori; ci fecero salire sui cassoni e scendemmo verso le caserme - sentivo l’aria attraversare il telone, guardavo la città scorrere veloce dall’apertura posteriore.

Quando attraversammo la sbarra bianca e rossa del passo carraio della “Rossi”: sentii come se la mia libertà se ne andasse via davvero in quel momento. Era mezzogiorno ormai e ci portarono subito alla mensa. C’era della pasta e una cotoletta, non c’erano più bibite, solo acqua. Per la prima volta venimmo schierati in fila e camminammo fino al cinema; ci lasciarono lì nel piazzale ad attendere. Ero ancora con i due compagni del treno, discorrevamo sotto i grandi tigli dalle tenere foglie. Era un modo per vincere l’ansia dell’ignoto, e intanto conoscevamo altri ragazzi, fraternizzavamo. Vennero alcuni caporali e ci divisero per distretto di appartenenza: Como, Varese, Milano, Bergamo, Brescia, Bolzano, Vari. La Valtellina quell’anno non c’era, esentata dalla leva per l’alluvione del luglio precedente. Lì persi i due amici del treno, che venivano dal distretto di Milano. Io fui indirizzato verso il gruppo di Como. 

Finalmente ci fecero entrare: dovemmo attendere ancora che il nostro nome fosse chiamato. Le ore passavano lente e inesorabili, una cosa a cui mi sarei abituato in fretta, almeno per quel mese di C.A.R.; vennero le sei e ritornammo in mensa e poi di nuovo al cinema. Mi chiamarono. Si doveva stare a distanza di uno sgabello dalla lunga schiera di tavoli – un accenno della disciplina cui tutti ci saremmo dovuti adeguare, anche quel ragazzo di Sotto il Monte che aveva capelli da rockstar heavy metal. I tavoli andavano passati uno per uno: qui declinare le generalità, là lasciare le impronte digitali, altrove ritirare uno scontrino oppure spiegare le proprie attitudini. Infine un militare visibilmente annoiato mi assegnò alla 50ª Compagnia e mi definì “Alpino verde” grazie a un bigliettino con tale dicitura timbrata, che mi consigliò di non perdere.

Presi il mio borsone e mi avviai con altri ragazzi alle visite mediche. Dopo un’altra lunga attesa ci fecero un’iniezione nel braccio e il Tine Test, ci pesarono e misurarono l’altezza. Ci indirizzarono infine alla palazzina che, entrando dalla caserma, si trovava sul lato destro, la “Venini”: era quella la 50ª Compagnia. Nell’atrio c’era il disegno di un’aquila e dipinta sul muro la Preghiera dell’Alpino: “Su le nude rocce, sui perenni ghiacciai”, avrei avuto modo in una lunga sera di piantone di impararla a memoria. Salimmo le scale e un caporale in tuta azzurra dell’Esercito ci accolse in una saletta e ci fece compilare un test-questionario, quindi ci avviò al magazzino di compagnia a ritirare materasso, lenzuola, cuscino, coperta e zainetto.

Finalmente fui incorporato nel plotone: 50ª Compagnia, II° Plotone, IVª squadra. Arrivai carico come un mulo e un altro caporale mi chiese come mi chiamassi. Gli risposi e mi mandò nella quarta camerata. Cercai il mio letto nelle camerate contrassegnate dal 4: a destra non c’era, lo trovai a sinistra. Era la branda superiore del castello. Vi adagiai il materasso, infilai le lenzuola e la coperta: era il primo letto che facevo in vita mia, ma da quel giorno non avrei più smesso. Infilai il cuscino nella federa e il gioco era fatto. Era tardissimo, ero sfinito, ma avevo ancora una cosa importante da fare.

Nel 1988 non c’erano ancora i cellulari, ci si affidava al magico gettone scanalato o in alternativa alle monete da 200 lire. Anche le schede telefoniche erano ai loro albori. Chiesi al caporale - si chiamava Pessina ed era varesino - se potessi uscire a telefonare; mi indicò le cabine della caserma, a destra del passo carraio e mi esortò a fare in fretta. Chiamai casa: erano quasi le 22, ormai. Ed era giunto il momento di prepararsi per la notte.

Mi recai nei bagni con molto timore di quello che vi avrei trovato. Invece erano moderni ed efficienti, pavimentati con piastrelline di cotto rosso. Ero in pigiama ormai, stavo per andare in branda quando scattò il contrappello. Fecero i nomi e tutti rispondemmo “Presente”, anche il ragazzo che dormiva nella branda sotto la mia e che avevo fatto di tutto per non svegliare: “Ritsch” era il nome che avevo letto sulla targhetta e che il caporale Corbetta, varesino, aveva chiamato. Poi chiamò me… “Presente!”

 

Giuramento

sabato 20 aprile 2013

Total eclipse of the heart

 

C'è chi a mezzanotte considera finita una serata, c'è chi invece la vede cominciare. Nella letteratura troviamo molti esempi di questi ultimi, indicati come bohemiens. Vincenzo e Roberto sono bohemiens viventi: per loro conta solo il divertimento da mezzanotte in poi. Forse per questo la mattina sono quasi introvabili, mentre il pomeriggio bivaccano. Quando esco con loro devo trovarmi qualcosa da fare fino a mezzanotte, poi li vedo arrivare.

Quella sera ero un po' annoiato: non avevo trovato altra compagnia che un libro dei Peanuts; Paola era andata chissà dove con sua madre, Enrico era al cinema, altri amici in vacanza all'estero. Rimasi al bar tutta la sera con il mio libro e una Coca-Cola ghiacciata lanciando occhiate occasionali alla televisione che trasmetteva le registrazioni delle gare del mattino alle Olimpiadi di Los Angeles in attesa di collegarsi con la California.

Verso le undici e mezza arrivarono gli "inseparabili": Vincenzo con la sua pettinatura alla "galeotto da poco evaso da Alcatraz" e Roberto, pallido come un fantasma. «Andiamo?» esordì il fantasma senza neppure salutarmi. «Aspetto Paola» risposi e i due si sedettero diligentemente ordinando misteriose birre olandesi. E Paola arrivò scusandosi del ritardo: in centro c'era traffico nonostante l'ora... «Vi porto io in un posto...» disse entusiasta Roberto, che ci aveva ormai abituato a queste sparate da montagna che partorisce il topolino. Però stavolta faceva sul serio. Ci scarrozzò a lungo sulla sua Autobianchi A112 argento che gemeva ad ogni buca. Paola si lamentò della musica sull'autoradio: era una vecchia cassetta di Joe Cocker che a me invece non dispiaceva.

Finalmente giungemmo alla meta, "Il Tondino", dove ancora numerosi clienti sedevano davanti alle tovaglie a scacchi bianchi e rossi. Sotto il pergolato troneggiava una grossa  botte piena di fiori. Vincenzo scelse uno dei tavoli liberi e ordinammo: patatine fritte con ketchup per tutti e boccali di birra Hacker.

Arrivò l'una ed eravamo ancora là a parlare - stranamente, per una volta - di cose serie: il lavoro, l'amore, il sesso, l'emancipazione femminile. All'improvviso ci fu un silenzio ispirato, come evocato dal vento che soffiava dal mare: la televisione accesa anche lì, in attesa di collegarsi con Los Angeles, trasmetteva video musicali. Quello che era riuscito a commuoverci era "Total eclipse of the heart" di Bonnie Tyler, con la sua musica soave. «Mi fa accapponare la pelle» disse Vincenzo. In quel momento, attraverso una canzone, tutti e quattro capimmo molte cose: quello era un momento felice e temevamo di rompere l'incanto dei nostri vent'anni. Ci bastava poco per la felicità: la compagnia, una sera di stelle, una musica dolce e la consapevolezza di avere il mondo davanti a noi, una carica di responsabilità e di infinita sensibilità.


1986

 

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VINCENT VAN GOGH, “INTERNO DEL RISTORANTE CARREL A ARLES”
 
                  

sabato 13 aprile 2013

Piccoli tesori

 

I libri sono per me fonte di sorpresa. Non intendo per quello che c’è scritto dentro, o meglio, spesso lo è anche il loro contenuto, sebbene di un genere più spirituale. No, intendo proprio i libri in senso materiale, come delle piccole casseforti di ricordi di un passato che fu, che se n’è andato per sempre e com’è logico che sia, ma che ha lasciato qua e là tracce di sé che all’improvviso erompono come il raggio di una torcia a illuminare una notte buia.

Poco fa, cercando una frase che ricordavo posta come epigrafe in un libro, ho dovuto aprirne una dozzina, ed è portentoso il regalo di piccoli tesori che essi mi hanno fatto: lo scontrino di un bar in un ponderoso saggio sulla guerra del Vietnam – 4.500 lire, ed ho rivisto quel piccolo locale con i tavolini all’aperto e su un tavolino con la tovaglia a quadretti una coppa di gelato ed una birra; davanti, seduti sulle sedie di resina bianca io e lei… Poi ancora, in un libro sul linguaggio, due biglietti promozionali del circo Moira Orfei, non utilizzati perché l’uso degli animali nei circhi mi ha sempre immalinconito… – ma eccoli lì, tagliandi rosa con il disegno di un elefante in un’improbabile acrobazia. E in un altro saggio della Piccola Biblioteca Einaudi sulle origini e la natura del linguaggio, ecco una cartolina militare, quella della Brigata cui sono appartenuto per un anno: l’aquila ad ali distese con una piccozza in primo piano e una vetta lontana.

Piccoli tesori, piccole parti di me, della mia vita, del mio tempo. Piccoli oggetti insignificanti che riassumono in sé un valore più alto: quello di simboli assurti a rappresentare la voce della memoria. Ah, poi la frase l’ho trovata: “Il fiume è simile alla mia pena: scorre e non si esaurisce”, è di Guillaume Apollinaire.

 

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FOTOGRAFIA © DEBORAH SCHENCK