sabato 24 dicembre 2016

Mattina di Natale

 

E dunque è la mattina di Natale. Il vecchio avaro Mr Scrooge si è risvegliato dopo una notte di incubi e spalanca la finestra sulle vie innevate, lieto finalmente dopo il grande spavento della notte:

“Si vestì, col meglio che aveva, e uscì per la via. La gente si riversava fuori, com'egli l'aveva vista con lo Spirito del Natale presente. Camminando con le mani dietro, Scrooge guardava a tutti con un sorriso di soddisfazione. Era così allegro, così irresistibile nella sua allegria, che tre o quattro capi ameni lo salutarono: «Buon giorno, signore! Buon Natale!» E Scrooge affermò spesso in seguito che di tutti i suoni giocondi uditi in vita sua, i più giocondi, senz'altro, erano stati quelli”. (Charles Dickens, Canto di Natale")

Anche i bambini si sono risvegliati e con gli occhi improvvisamente vispi si sono riversati con ansia a cercare i pacchetti colorati sotto l’albero, li scartano, ridono esaltati davanti al nuovo giocattolo; gli innamorati si sono baciati scambiandosi i loro doni… Le campane suonano annunciando la Nascita nell’umile grotta. I saluti si spandono nell’aria come fiori: Auguri! Buon Natale! Buone feste! Le mani si stringono, i baci si schioccano sulle guance. E nelle cucine i profumi iniziano a salire: le patate arrosto, le tacchinelle ripiene, il brodo di cappone. Le luci degli alberi e dei presepi scintillano più vivide in questa giornata, i parenti cominciano a radunarsi, portano i loro doni, le loro bottiglie, i panettoni per il pranzo.

Un avviso per i meno cinici: non leggete il pezzo qui sotto, potrebbe rovinarvi la sorpresa del pomeriggio, rivelarvi come potrebbe essere… È tratto da “Natale” di Marco Lodoli:

“Anche quest'anno è andato tutto bene. Io ho avuto un paio di cravatte, un libro, l'ennesimo rasoio elettrico. I bambini hanno cominciato a giocare sul tappeto con i loro attrezzi elettronici, mentre mia moglie faceva girare gli aperitivi. A tavola, come al solito, abbiamo un po’ litigato parlando di politica, esattamente come ogni anno. La più grande delle mie nipoti, ha quasi diciott'anni ed è ribelle e arrabbiata come lo ero io, vorrebbe un mondo in cui tutti fossimo in pace, senza poveri, senza esclusi. Questa vita è ingiusta, ha detto, butta via la gente, la fa morire. Nessuno dovrebbe morire, ha gridato. Per riportare un po’ d'allegria a tavola, mio cognato ha raccontato come sempre due barzellette. Una era la stessa dello scorso Natale, ma nessuno l’ha interrotto. Dopo il panettone e il caffè, ci siamo sistemati sui divani per continuare a chiacchierare e bere un cognac. E dopo mezz’ora le parole sono iniziate a mancare ed è scesa la malinconia che segue la festa, qualche bambino sbadigliava tra i fogli accartocciati dei regali, e allora io ho acceso la televisione”.

Be’. Che altro dire? Ma “Buon Natale!”

 

2009

 

Larsson

ILLUSTRAZIONE DI CARL LARSSON

sabato 17 dicembre 2016

Edipo re

 

La storia di Edipo è quella di un uomo che lotta invano per sfuggire al suo destino, condannato ancora prima della sua nascita, costretto a vagare con il fardello della sua colpa per il mondo.

”Edipo re” di Sofocle era considerato già nell’antichità un vero e proprio capolavoro: Aristotele nella “Poetica” lo giudicò capace di suscitare contemporaneamente terrore e pietà. Il tragediografo greco lo scrisse nel periodo della sua tarda maturità, già ottantenne, tra il 414 e il 411 a. C.

La trama è notissima: il re di Tebe Laio viene a sapere da un oracolo che il figlio che potrebbe nascergli dalla moglie Giocasta sarà il suo uccisore; quando l'erede infine nasce, per sventare il disegno degli dei, Laio lo fa abbandonare sul Monte Citerone con i piedi feriti - di lì viene il nome Edipo, "piedi gonfi". Il bambino viene affidato al re di Corinto, Polibo, che lo alleva a corte come un figlio; un altro oracolo predice a Edipo, ormai adulto, che ucciderà il padre e sposerà la madre, dalla quale avrà dei figli. Convinto di essere l'erede di Polibo, Edipo abbandona Corinto per raggiungere la Focide: sul cammino incontra Laio e in una futile lite per il passaggio lo uccide. A Tebe sconfigge la Sfinge rispondendo al suo famoso enigma, liberando la città ed ottenendo il premio per chi avesse eliminato il mostro: la mano di Giocasta. Edipo inconsapevolmente sposa la madre ed ha con lei quattro figli. Un terzo oracolo, allo scoppio di un'epidemia, rivela che la malattia è dovuta alla presenza in città dell'uccisore di Laio. L'indagine porta il nuovo re a scoprire di essere proprio lui l'assassino e l'autore dell'incesto: per punirsi si acceca e fugge a Colono, per condurvi il resto della sua sciagurata esistenza.

La fortuna dell'"Edipo re" sta nella sua attualità: il senso del destino, la ricerca delle proprie radici, l'infelicità umana sono temi comuni a tutte le epoche. Il modo di procedere di Sofocle nella ricerca del colpevole può poi ricordare anche la tecnica dei moderni gialli: il fatto che il detective sia l'assassino dà quel tocco inarrivabile di originalità. La conclusione, l'accecamento che Edipo si infligge, è un vero e proprio "coup de théatre": sta al lettore valutare se sia un modo per non vedere più la realtà o, al contrario, il solo modo per vedere, dall'interno e per sempre, tutto l'orrore. La figura di Edipo è poi duplice: è sì il colpevole, ma è anche la vittima innocente, in quanto tutto quello che compie deriva dal destino, dall'onnipotenza degli dei; egli è solo lo strumento di cui il fato si serve per portare a compimento i suoi disegni.

"Mai nessuno giudichi felice un uomo
prima del giorno della morte,
prima che la sua vita sia trascorsa priva di dolore".

Così commenta nelle ultime battute della tragedia il Corifeo, mentre Edipo, cieco, si avvia verso l'esilio a Colono in una scena epica: se fossimo al cinema, sarebbe l'eroe sconfitto che si staglia curvo e solitario in un rosso tramonto.

10 settembre 2008

 

Brodowski

ANTONI BRODOWSKI, “EDIPO E ANTIGONE”

sabato 3 dicembre 2016

Quel turco di Babbo Natale

 

Babbo Natale, per gli anglosassoni Santa Claus, non è come vuole una leggenda metropolitana il parto dei pubblicitari della Coca Cola negli Anni Trenta che portò alle famose immagini di Haddon Sundbloom riprodotte ovunque: non è in effetti altri che San Nicola, di cui il 6 dicembre ricorre la venerazione.

Per inciso, la Coca Cola non fece altro che appropriarsi a fini promozionali della poesia di un oscuro autore newyorkese, "La notte di Natale", scritta nel 1823: San Nicola vi è raffigurato come un uomo tarchiato dagli occhi scintillanti e dalla barba bianca, con dei vestiti rossi bordati di pelliccia e lucidi stivali neri. La fantasia di un illustratore, Thomas Nast, creò l'immagine iconografica tuttora in auge. L'idea dello scrittore portò invece a spostare la tradizionale venuta di Santa Claus dal 6 dicembre al 25.

Dunque, spazzato via l'equivoco, la slitta con conseguente serie di renne e di casa in Lapponia, a Rovaniemi per la precisione, Babbo Natale è San Nicola, che fu vescovo di Mira, città della Turchia identificata con l'odierna Demre. Il santo era un taumaturgo, ovvero compiva miracolose guarigioni, spesso di bambini. La sua figura si fuse qua e là nell'Europa con miti antichi ed oscuri, come lo Spazzacamino tedesco, e adottandone altri in qualità di assistenti, ad esempio i folletti o il truce Pietro il Nero olandese o il Cavalier Rupprecht, un uomo dalla faccia paurosa tinta di nero.

Il San Nicola più tradizionale, quello che si attaglia in maniera più precisa, è il Saint Nicholas svizzero, abbigliato come un vescovo con lunga veste bianca, mantello rosso, cappello a punta e bastone pastorale. Il Père Noël francese è una via di mezzo tra San Nicola e Babbo Natale: alto e magro, ha una veste vescovile rossa, copricapo di pelo e rumorosi zoccoli di legno.

Che sia un ciccione vestito di rosso, un vescovo che si circonda di personaggi inquietanti, una bambina con una corona di luci, una vecchietta che vola a cavallo di una scopa o Gesù Bambino, si può concludere che, se ci sono tanti modi di rappresentare un simbolo, unico e comune a tutto il mondo è il gesto d'affetto, il dono.

2008

San Nicola

sabato 26 novembre 2016

La verità su Guangxu

 

Guangxu fu il decimo imperatore della dinastia Qing, che governò la Cina dalla metà del XVII secolo all'inizio del XX. Fu incoronato nel 1875, ma in realtà a guidare la Cina fu sua madre Cixi, visto che il povero Guangxu aveva solo quattro anni. Al compimento dei diciotto anni, nel 1889, ebbe i pieni poteri, sebbene l'influenza dell'imperatrice fosse comunque fortissima. Dieci anni dopo, iniziata la riforma politica, culturale e sociale che avrebbe dovuto ammodernare il paese e portare alla sua industrializzazione, nota come Riforma dei Cento Giorni, subì il colpo di stato da parte della madre e finì agli arresti. Morì in una "prigione dorata" nel 1908, a trentasette anni.

Un secolo dopo la sua scomparsa, alcuni ricercatori cinesi sembrano avere risolto l'enigma della morte di Guangxu, predecessore dell'ultimo imperatore della dinastia Qing, quel Pu Yi reso celebre da Bernardo Bertolucci. La verità su Guangxu è che l'imperatore che voleva portare la Cina nel XX secolo venne avvelenato.

I registri ufficiali segnalano che il 14 novembre 1908 Guangxu morì di morte naturale: il suo stato di salute era fragile dopo dieci anni di "arresti domiciliari", ma non c'era dubbio già allora che il potere conservatore cinese e la stessa Cixi avevano buoni motivi per assassinarlo. Le analisi condotte dall'Istituto cinese per l'energia atomica e dal laboratorio di medicina legale della polizia di Pechino rivelano tracce elevate di arsenico nelle ossa, nei capelli e nelle vesti dell'imperatore.

Se il come è chiaro, il perché facile da supporre, non altrettanto chiaro è il chi. Se i tempi non fossero così remoti, la prima sospettata ad essere condotta in commissariato per gli interrogatori di rito sarebbe certamente Cixi, insieme a uno dei suoi luogotenenti, il capo degli eunuchi Li Lianying. Quando Guangxu lanciò la riforma per evitare la decadenza della Cina, aveva pensato di trasformare l'impero in una monarchia costituzionale sul modello del vicino Giappone: Cixi si sentì ferita nel cuore e nella tradizione e tramò per mettere a punto le sue manovre, tanto da deporre il figlio e conservare un potere esercitato formalmente per quarantacinque anni.

Guangxu fu dunque arrestato per ordine della madre e confinato in un palazzo posto su un'isola lacustre, i suoi consiglieri furono uccisi o fuggirono. E il 14 novembre 1908 fu avvelenato, forse per evitare che riprendesse il potere.

Ma l'enigma non finisce qui: il giorno dopo, 15 novembre, moriva anche l'imperatrice Cixi. E Li Lianying, il suo favorito, fu assassinato qualche mese dopo...

 

Guangxu

GUANGXU – PUBBLICO DOMINIO

sabato 19 novembre 2016

Un buon consiglio

 

C’è una striscia dei Peanuts, pubblicata il 24 luglio 1962, in cui Linus passa trascinando la sua coperta e Snoopy è pronto a morderla e portarla via. Linus lo ammonisce “Non fare qualcosa di cui potresti pentirti”. Snoopy desiste, ci riflette e pensa “È un buon consiglio”.

È davvero un buon consiglio, ottimo direi. Eppure, molte volte lo abbiamo disatteso, troppe volte siamo precipitati nell’abisso del rimpianto, perché abbiamo scelto la strada sbagliata quando la via principale divergeva come nella poesia di Frost – quella battuta, probabilmente, quella seguita da tutti mentre noi avremmo preferito imboccare il sentiero più solitario. O perché invece non abbiamo compiuto quel passo che avrebbe cambiato la nostra vita o ci avrebbe spinto nell’abbraccio dell’amore. O ancora invece perché quel passo lo abbiamo invece compiuto e i risultati sono risultati diversi o addirittura all’opposto di quello che avevamo immaginato e desiderato.

E questo capita perché molto spesso ci affidiamo all’istinto più che alla ponderazione e ci lanciamo come acrobati forse coraggiosi o forse impavidi e quindi incoscienti, fidando nell’attrezzo, nelle nostre capacità, nel partner e nella rete di sicurezza. Il fatto è che non si può tornare indietro e quel che è fatto è fatto. Se fossimo saggi, capiremmo almeno questo e seguiremmo un altro buon consiglio, quello del Maestro di Khalil Gibran: «Amico mio, non essere come quello che siede presso il suo camino e guarda il fuoco che si spegne per poi soffiare, vanamente, sulle morte ceneri. Non rinunciare alla speranza, non abbandonarti alla disperazione a causa di ciò che è passato, giacché rimpiangere l'irrecuperabile è la peggiore delle umane debolezze».

 

Un buon consiglio

sabato 12 novembre 2016

Gli incontri di Marco Aurelio

 

Al mattino comincia col dire a te stesso: incontrerò un indiscreto, un ingrato, un prepotente, un impostore, un invidioso, un individualista. Il loro comportamento deriva ogni volta dall'ignoranza di ciò che è bene e ciò che è male. Quanto a me, poiché riflettendo sulla natura del bene e del male ho concluso che si tratta rispettivamente di ciò che è bello o brutto in senso morale, e, riflettendo sulla natura di chi sbaglia, ho concluso che si tratta di un mio parente, non perché derivi dallo stesso sangue o dallo stesso seme, ma in quanto compartecipe dell'intelletto e di una particella divina, ebbene, io non posso ricevere danno da nessuno di essi, perché nessuno potrà coinvolgermi in turpitudini, e nemmeno posso adirarmi con un parente né odiarlo. Infatti siamo nati per la collaborazione, come i piedi, le mani, le palpebre, i denti superiori e inferiori. Pertanto agire l'uno contro l'altro è contro natura: e adirarsi e respingere sdegnosamente qualcuno è agire contro di lui.

I tempi sono molto cambiati dal II secolo dopo Cristo, quando l'imperatore Marco Aurelio scriveva queste riflessioni rivolte a se stesso nel secondo libro dei "Pensieri" o "Ricordi", secondo la traduzione dal greco. Ma le persone sono rimaste le stesse, anche se hanno modificato il loro abbigliamento, la pettinatura, addirittura il linguaggio, e se invece delle lance, delle meridiane e delle bighe ora si servono di telefonini, orologi e automobili. Come allora portano nel mondo le loro esigenze e le loro clientele, le bassezze e i vizi, le insensibilità.

È bello questo pensiero di Marco Aurelio, è un invito all'autocontrollo, alla tolleranza, alla considerazione che "tutti siamo sulla stessa barca", semplici ingranaggi di un mondo in movimento: il ciabattino, il soldato, la popolana e anche l'imperatore...

Un filosofo di tale levatura, che aveva per maestri gli stoici Sesto di Cheronea, Cinna Catulo e Claudio Massimo, non poteva essere un dittatore e infatti non lo fu, ma, al contrario, stabilì un costante miglioramento della legislazione per rendere più equa la vita dei cittadini dello sterminato impero romano. La sensibilità e l'intelligenza dimostrata in questo precetto furono la linea guida del suo ventennale impero. A noi che non siamo imperatori, farebbe solo bene ricordarlo ogni mattino, quando usciamo di casa e iniziamo a incontrare gli "altri": manteniamo la calma e rispettiamoci, il mondo non potrà essere che migliore.

 

Marco Aurelio

FRAMMENTO DI STATUA DI BRONZO DI MARCO AURELIO, PARIGI, LOUVRE

sabato 5 novembre 2016

Arano

 

Arano. Ho visto un trattore emerso dalle nebbie nei campi lungo il fiume rivoltare le zolle in maniera regolare, come seguendo un disegno: in realtà non faceva altro che percorrere il solco battuto prima, aderiva alla forma insolita della stradina che costeggia il campo. Dal belvedere del santuario, lo spettacolo era apprezzabile in tutta la sua geometrica precisione: la terra smossa era scura, sembrava fumare anch'essa come l'acqua appena al di là.

E mi è sovvenuta alla memoria da tempi scolastici ormai dimenticati, forse le elementari, forse le medie, "Arano", la poesia di Giovanni Pascoli, tratta da "Myricae". Al campo, dove roggio nel filare / qualche pampano brilla, e dalle fratte / sembra la nebbia mattinal fumare…”

Sullo sfondo nebbioso del mattino d'autunno, quelle terzine dantesche si sono materializzate, sono diventate vive, sebbene il progresso tecnologico abbia allontanato gli uomini dai campi e li abbia forniti di mezzi più efficaci dell'aratro e dei buoi. Sentivo quel grigiore pascoliano, ma sentivo anche quella malinconia sottesa nell'animo. Il realismo si trasformava in un intimo sentimento e lì ho capito Pascoli, ho incominciato ad apprezzare quei versi che ho sempre giudicato ingenui e di maniera, ho intravisto sotto la superficie la vena che scorreva. E la speranza di quelle foglie di vite rosseggianti (i pàmpani) e di quel trillo degli uccelli che pregustano il loro "raccolto" di lombrichi sono diventati la mia speranza, in questa mattina grigia di novembre.

2008

 

Aratura

FOTOGRAFIA © HELENA (LICENZA CREATIVE COMMONS)

sabato 29 ottobre 2016

Lo scudo

 

Qualcuno dei Sai si vanta del mio scudo, che presso un cespuglio
- arma gloriosa - lasciai non volendo.
Ma salvai la mia vita. Quello scudo, che importa?
Vada in malora. Un altro ne acquisterò, non meno bello.
ARCHILOCO

Lo scudo ho gettato nell’onde di un fiume che bello scorreva.
ANACREONTE

Lo scudo era uno degli armamenti fondamentali del soldato nei tempi antichi: faceva da baluardo e da difesa e veniva conservato con cura. Il militare greco era un cittadino chiamato al momento della guerra: lo si denominava oplita, da όπλον, lo scudo, appunto. Solo gli Spartani avevano un esercito a tempo pieno: delegavano agli schiavi iloti e agli artigiani del circondario, i "perieci", ogni altra attività. Il loro valoroso comportamento alle Termopili, dove con soli trecento uomini fermarono l’imponente esercito persiano di Serse prima di esserne travolti per un tradimento, si spiega con questa mentalità guerriera inculcata già ai bambini.

Lo scudo dunque era d’importanza vitale perché, essendo il soldato inserito in una falange, con esso difendeva non solo se stesso, ma anche il compagno alla sua destra. Gettare lo scudo, come affermano di avere fatto il poeta-soldato Archiloco e il gaudente Anacreonte, veniva considerato dagli eroi omerici e soprattutto dagli Spartani, la più grave infamia che un combattente potesse commettere: non era più un’arma, ma diventava un simbolo, era l’appartenenza a una società.

Archiloco lo priva di questa importanza: ne vede solo l’utilità immediata, l’ingombro nella ritirata, lo abbandona per fuggire e salvarsi. Se gliene servirà un altro, se lo comprerà. Non è spartano: Sparta non ha poeti, solo soldati. È un decaduto nobile di Paro e combatte per vivere: è un mercenario. Questo gesto che sembra antieroico è in realtà solo un atto di sopravvivenza, tanto che Archiloco morirà nella difesa di Taso.

Anacreonte invece, si mostra più spregiudicato: se Archiloco lo ha deposto in un cespuglio per poterlo magari ritrovare, lui invece lo lascia in balia della corrente.  Quello che conta nella sua vita sono il vino e l’amore, le chiacchiere davanti a una tazza di quello buono: “Recaci acqua, ragazzo; recaci vino; recaci corone di fiori, ma recali subito… con Eros devo fare pugilato”. Anche Anacreonte non era spartano, ma veniva da Teo, nella Ionia, ed era esule a Samo, ad Atene e in Tessaglia, dovunque vi fosse una corte regale. Non gliene può fregare di meno di quell’oggetto.

2008

Forngrekisk_sköld,_Nordisk_familjebok

sabato 22 ottobre 2016

Rispetto e dignità

 

“Da una scala di legno annerito pende una bandiera francese: è l’unica, e la stacco con cura, la ripiego e la metto nel tascone della giubba. (La ritroverò a casa mia questa bandiera, tra vecchie carte, lettere e oggetti strani agli altri. Un giorno i ragazzi giocavano, e la diedi a loro perché la riportassero a sventolare sopra una collina di prati fioriti)”.

Cos’è il rispetto? Cos’è la considerazione che anche gli “altri” hanno le loro ragioni? Mario Rigoni Stern ne aveva gerle nella sua vita di montanaro. Certo, chi va in montagna sa quanto dura è la vita lassù: conosce il valore delle cose, sa che un aiuto dato non sarà mai sprecato e che al momento buono sarà ripagato. Sa che, se anche non sarà ripagato, questo non è importante.

Rigoni Stern nel 1971 scrive Quota Albania e ricorda quell’episodio della bandiera francese raccolta dalle parti di Séez. L’Italia aveva invaso la Francia pochi giorni prima e già era stato stipulato l’armistizio. Ma in quei giorni al caporale Rigoni Stern capitò di entrare affamato in una casa di legno abbandonata dagli abitanti: mangiò del formaggio e del pane e lasciò un biglietto di scuse in un cassetto della credenza. Anche la sua ad Asiago era una casa di legno, una casa di montagna, ricostruita dal nonno, profugo anch’egli con tutta la sua famiglia, proprio come quei francesi, nel 1916.

Rispetto, pietà, umanità: non per questo Rigoni Stern fu un soldato peggiore, anzi riuscì a riportare a casa dalla Russia gran parte della sua squadra. Nel Sergente nella neve non poteva perciò non notare la differenza con i soldati tedeschi e rumeni, e ancor più con le SS. La cattiveria, il disprezzo, la crudeltà non erano nei cuori degli italiani, che i russi aiutavano, quando potevano, e lo testimonia lo stesso scrittore di Asiago: gli diedero patate e pane, lo sfamarono in un’isba dove c’erano anche soldati russi.

Rispetto, allora, condivisione e dignità: ancora in Quota Albania racconta del trasferimento di prigionieri greci: “Quel mattino mi trovavo anch’io da quelle parti, e con altri feci da scorta a quaranta prigionieri che accompagnammo giù al comando. Anche loro erano magri, malridotti nelle divise, carichi di pidocchi e con le barbe lunghe e ispide. Ma dentro i loro occhi scuri e profondi e nel loro silenzio, avevano dignità”.

2008

 

Bandiera

FOTOGRAFIA © FIONA TWIG

sabato 15 ottobre 2016

La Gioconda nuda

 

Dopo la dissacrazione dei baffi dipinti da Duchamp, dopo le rivisitazioni di Warhol e di Botero, dopo il furto ad opera di Vincenzo Perugia nel 1911, dopo l’assurda e vaneggiante rivisitazione del “Codice da Vinci”, ecco che per la “Gioconda” arriva la violenza scientifica.

Per risolvere l’arcano dello “sfumato” leonardesco che dona a quel sorriso la sua caratteristica enigmaticità, la società “Lumiére Technologie” ha sottoposto il dipinto alla camera multispettrale: un raggio luminoso proiettato dalla macchina consente di misurare lo spettro dei vari componenti e di risalire ai primi disegni nascosti sotto la superficie colorata, senza neppure sfiorare l’opera.
L’indagine, eseguita accuratamente dal Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica francese, guidata dalla ricercatrice Mady Elias, è pubblicata dalla rivista specializzata americana “Applied Optics”.

Risulta dunque che lo “sfumato” è una geniale elaborazione della tecnica messa a punto dai pittori fiamminghi ai tempi di Van Eyck ed esportata in Italia forse da Antonello da Messina. Il procedimento è semplice: sovrapporre tanti strati di un solo colore non troppo concentrato, nel caso della “Gioconda” una “terra d’ombra”, ocra contenente manganese. I passaggi di colore successivi danno l’impressione che il ritratto esca letteralmente dalla tavola.

La ricerca ha rivelato anche la composizione della mano preparatoria: 99 parti di bianco di piombo e una di vermiglio, secondo l’uso che all’epoca era diffuso in Italia.

Leonardo, ci dice questo studio francese, era molto attento alle nuove scoperte tecniche, cosa che non stupisce. Ed era attento anche alle correnti pittoriche straniere, come altri artisti del suo tempo: dallo scambio culturale non si poteva trarre che vantaggi, allora come oggi.

Quanto al sorriso della “Gioconda”, quello resta enigmatico: l‘affiorare dell‘anima sul volto. La scienza vorrebbe spiegare tutto, ma il trascendente vi si sottrae. Il mistero rimarrà, per fortuna, insondabile.

2008

 

LEONARDO DA VINCI, “LA GIOCONDA”

sabato 8 ottobre 2016

Schneider Weisse

 

Quell’estate mi sentivo come un pugile suonato: avevo perso i contatti, mutato gli orizzonti. L’anno trascorso lontano per il militare in realtà significava averne persi due, dall’estate prima di partire a questa nuova nuova, passando per il magone delle brevi licenze di giugno e di luglio osservando i papaveri rossi in autostrada e sognando il mare. E anche lei se n’era andata, apparteneva a un’altra vita, a quella di prima. E anche gli Anni ’80 che finivano stavano portando dalle giacche colorate al grigiore uniforme del nuovo decennio.

Trascinavo per la città di mare la mia solitudine, gli amici erano tutti via: di qualcuno sapevo che era in Grecia, altri in Spagna, ma la maggior parte di loro ignoravo dove fossero. Passavo serate al cinema all’aperto o mi ubriacavo di romantica malinconia guardando la luna alzarsi dal mare e tingerlo d’argento, poi passeggiavo a lungo in compagnia dei miei ricordi mentre gli ombrelloni chiusi montavano la guardia alla spiaggia.

Una sera sedevo al solito bar, scorsi la lista della birre e ordinai una Schneider Weisse, in memoria delle sere passate al Café Liszt di Merano. La cameriera che me la portò ardì di domandare «Come mai ha scelto questa birra? Qui la chiedono solo i tedeschi». Le raccontai che avevo da pochi mesi finito l’anno di militare a Merano e che là qualche volta la chiedevo invece della solita Radler o della vodka-lemon. Le dissi che la luna nel Passirio non era poi così diversa da quella che ora si specchiava nel mare vicino a noi.

Eravamo in pochi quella sera che ormai diventava notte, ai tavolini all’aperto di quel bar. Alla conversazione si unì un tale sulla quarantina, che disse di venire da Latina e di essere un giornalista. Chiese cortesemente «Posso?», appoggiò il suo whisky con ghiaccio e accostò la sua sedia al tavolino. Sorseggiavo lentamente quel liquido ambrato che sotto le luci dei lampioni prendeva tonalità opalescenti: ne sentivo sul palato il sapore fruttato, il gusto di lievito non filtrato, che ricordava vagamente il profumo del glicine. E mi ritrovai senza nemmeno sapere perché a raccontare la mia vita e le mie vicissitudini amorose a un estraneo – be’, per lo meno si era presentato come Angelo.

Mi ero talmente calato in quella parte che solo un paio d’ore prima, uscendo dal cinema all’aperto dove avevo visto “Rain Man”, avrei detto non mia. Così conclusi il mio discorso con un’uscita ad effetto, da guascone o vagabondo navigato: «Ho solo stanze per dormire e notti per sognare». Forse era la Schneider Weisse che parlava per me come un avvocato delle cause perse.

Rimanemmo in silenzio. Anche Angelo inseguiva un suo pensiero che forse gli avevo risvegliato io stesso. In lontananza si sentiva cantare il mare…

 

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sabato 1 ottobre 2016

Come l’estate

 

«Senz’addii mi hai lasciato e senza pianti». Leggo Saba e mi travolge il ricordo, mi assale come una banda la diligenza nei film western: «Io so un amore che ha durato un mese e vero amore fu». Certo che fu vero amore e ripenso a te e a quei giorni passati che volavano svelti come falchi. Fu vero amore, per quanto breve sia stato, per quanto lontano sia nello spazio e nel tempo. E tu sei immutata nella mia memoria, come allora signora del ricordo, padrona della mente. Il cruccio di quei giorni era fermare il tempo: il nostro sogno ricorrente era quello di infilare un enorme chiodo tra le lancette. Sembrava inimmaginabile: eppure, vedi, ci siamo riusciti alla fine, pagando il prezzo della solitudine. Ora è tra le maglie del tempo che ti cerco. È tra le sue maglie che tento di passare. In qualche parte, in qualche luogo deve esserci uno squarcio, un qualche passaggio per ritornare a quell’estate. Devo tornare indietro, evitare tutti gli errori che ho commesso, devo ritornare per non perdere te. La nostalgia come fumo mi soffoca, ma voglio respirarla fino in fondo.

Ipermnestra, una delle cinquanta Danaidi, fu l’unica a non obbedire al padre che ordinò loro di assassinare i mariti. Come lei, forse tu avesti l’ordine di uccidere il nostro amore però non trovasti il coraggio e lo lasciasti in vita limitandoti a restare lontana. Sarebbe stato di certo meglio che come le quarantanove sorelle tu non avessi guardato in faccia la pietà: avresti soppresso anche il mio rimpianto, oltre a quell’amore. Adesso il ricordo si fa rimpianto e vado divinando il tuo oggi senza me ora che non contano più i perché ma solo che in qualche modo tutto sia stato e che in qualche luogo tu porti ancora il mio ricordo chiuso nel cuore come quando dicevo che non è importante essere insieme perché un amore vive in quanto il suo seme cresce e germoglia anche per chi è lontano. Allora sorridevi mostrando i denti bianchi: era un sorriso così bello e dolce. Ne ero talmente innamorato che mi mettevo da­vanti ad uno specchio e provavo a ricrearlo io stesso.

Eri bella come l’estate. Come l’estate, del resto, svanisti.

 

1996

 

Hicks

RON HICKS, “CAFE KISS”

sabato 24 settembre 2016

Meran Street View

 

“Ne è passato di tempo... Quasi trent'anni”. Questo mi è venuto da pensare ripercorrendo le vie di Merano su Google Street View senza più riconoscere le strade, come se io fossi stato Pollicino e il tempo avesse raccolto i sassolini che avevo disseminato per ritrovare il filo della mia memoria. Via delle Palade, a parte la desolazione delle caserme vuote, sembrava per certi versi una strada interna di certe località di mare, Via Piave era irriconoscibile con i suoi palazzi nuovi, guardavo i negozi di Via delle Corse e non li riconoscevo. Ho trovato un po' di conforto nell'inconfondibile architettura dei portici e nell'insegna rossa del Gasthof Rainer, immaginandomi subito le panche e i tavoli di legno, le tovaglie a quadretti bianchi e rossi, il giardinetto interno dove si poteva cenare d'estate, il pane con i semi di papavero, i gurken, il gulasch con i mirtilli rossi, le salse allo yogurt per l'insalata.

Allora però cosa c'era al posto di questa nostalgia così dolce e impossibile? Non certo rabbia, forse un po' di rassegnazione perché ci sembrava di buttare un anno della nostra vita - l'avremmo capito dopo, molto dopo, che invece quell'anno ci aveva formato, educato, ci aveva insegnato a socializzare, a lavorare insieme, a porci un obiettivo e raggiungerlo non da soli, ma insieme agli altri. Nessun sergente cattivo di Full Metal Jacket, nessun sergente Rompiglioni dei film italiani di serie B (detto en passant, si sarebbe potuto almeno far tagliare i capelli agli attori, così sono semplicemente delle macchiette, fuori ruolo, ancora più inverosimili). C'era insomma la voglia che tutto finisse presto, se è vero che contavamo le albe ed esultavamo ad ogni passaggio di scaglione. In ufficio, con il maresciallo, eravamo solo in due noi scritturali, e avevamo nel cassetto del tavolo del ciclostile una specie di gioco dell'oca ricavato da una lunga scatola di quella carta copiativa: ma le caselle non erano 90 bensì 355, una per ogni giorno che avremmo dovuto passare sotto la naia (dieci ci erano misteriosamente abbonati); c'erano due bandierine fissate su uno spillo e la prima cosa che facevamo ogni mattina, appena arrivati dalla colazione in mensa, era spostare in là di uno spazio quel segnalino. Quando il mio collega d'ufficio si congedò, esultai vedendo che il mio spillo era davanti - ma ero ancora ben oltre i 200. Qualche giorno dopo arrivò un altro ragazzo a sostituirlo: gli mostrai il calendario segreto e pose il suo spillo - al limite dei 300.

Ma ora non ritrovo più i giorni e le sere di quella vecchia Merano, perduta, sepolta sotto la cenere degli anni. Non ritrovo più il ragazzo che ero e che andava talvolta a cenare al Pic-nic Grill o al Ristorante Alla Marinara, o che si fermava al Pandemonium a comprare cartoline o spillette. Che fine ha fatto quella paninoteca su Via Piave che serviva un eccellente francesino con il brie e lo speck? E il locale in cui andavamo a bere la Eku 28 nel bicchiere a balloon sentendoci bohemiens in una città belga? E ancora il MacRoland che faceva il verso alla più celebre multinazionale dell'hamburger, con il suo piano rialzato dove andavamo a vedere le partite di calcio della Nazionale? E quel posto dietro il Duomo dove servivano lo Stiffel, uno stivale di birra arricchito con grappa e altri liquori, che dava alla testa mentre giocavi con i tradizionali giochi di legno? Tutto è cambiato, tutto è perduto: rimane solamente il limbo della mia memoria e di quella di chi era con me. Così capita - quando ci incontriamo come reduci di una battaglia perduta - di far rivivere quei posti, quelle sere, quei sabati e quelle domeniche in cui bighellonavamo lungo il Passirio e andavamo in stazione a veder partire i treni verso casa...

Avremmo riso allora, se qualcuno ci avesse detto che un giorno avremmo provato una folle inestinguibile nostalgia...

 

Merano

FOTOGRAFIA © FRIEDRICH BÖHRINGER

sabato 17 settembre 2016

Il compleanno dell’alpino S.

 

Un giorno di settembre l’alpino S. compiva gli anni. Merano era bellissima, ancora più dolce nella luce che scemava lentamente colorando di giallo i palazzi del centro e tingendo di luce riflessa le alte montagne a corona della città e le colline dove si vendemmiava l’uva matura. In più c’era l’attesa per l’evento dell’anno, il Gran Premio all’ippodromo di Maia Bassa.

L’alpino S. non era nella mia caserma del Logistico, ma in quella vecchia, dalla quale fui trasferito sul principio di luglio. Però avevamo legato nel mese e mezzo in cui ero rimasto là: così aveva convocato me e altri due amici che ancora si trovavano al Reparto Comando e Trasmissioni: ci aveva “invitato” a cena, in realtà era un modo elegante per dire che comunque ognuno avrebbe pagato la sua parte

Ci aveva dato appuntamento alle sei e mezza sul Lungopassirio, sulle panchine appena al di là del ponte del Teatro. Ci arrivai per la strada a me più comoda, ovvero risalendo Via Piave. Lui e gli altri sarebbero arrivati invece costeggiando il Passirio, come facevamo le sere di libera uscita quando anch’io mi trovavo con loro. Arrivai e già c’erano gli altri due seduti sulla panchina. «E S.?» domandai. «Mah» disse Braschi «ha detto che doveva prendere una cosa, tanto arriva in bicicletta». Infatti S. si era portato da casa la sua bicicletta rossa fiammante e scorrazzava qua e là nei dintorni il sabato e la domenica quando non era di servizio o in licenza. L’avevo aiutato io alla stazione delle autolinee a caricarla nel bagagliaio del pullman: facemmo tutto il viaggio insieme e fu in quelle tre ore che in pratica facemmo amicizia.

Aspettammo una decina di minuti, poi lo vedemmo spuntare dalla Piazza del Teatro con un sacchetto di plastica giallo del supermercato Meinl sul portapacchi. Era ancora presto – anche se a Merano già alle sei i ristoranti cominciavano a servire la cena e si riempivano in fretta. Decidemmo di andare in stazione, alla Mensa Ferrovieri a mangiare la “pastora”: si trattava di un piatto piuttosto abbondante di ravioli conditi con ricotta, funghi e salsiccia al finocchietto. Poi, per celebrare il compleanno, prendemmo anche lo strudel e una bottiglia di spumante dolce.

Uscimmo che nella sera di settembre era già calato il buio e si accendevano le stelle. Fu a quel punto – su una panchina nel parco antistante la stazione, vicino all’inferriata dove ancora era legata la sua preziosa bici che l’alpino S. aprì il sacchetto giallo che si era portato dietro per tutta la sera: c’era una bottiglia di grappa Williams alla pera con un pacchetto di bicchieri di carta. «È il mio compleanno» disse S., orgoglioso e fiero con un sorriso che sembrò luccicare alla luna «ragazzi, beviamo a questa giornata che soltanto una volta si passa sotto la naia!». Svitò, non senza fatica, il tappo della bottiglia e cominciò a versare un dito di grappa in ogni bicchiere, che subito distribuiva. «Prosit! A S.!» si levò il coro delle nostre voci. E bevemmo quel liquore forte dal sapore di pera. Scoprimmo subito che l’alpino S. non reggeva l’alcol: unito al mezzo bicchiere di Asti che aveva bevuto a tavola, quel poco di grappa lo mise K.O.: cominciò a ridere sguaiatamente e faticava a reggersi in piedi. Erano ormai le dieci passate, dovevamo rientrare in caserma per il contrappello delle undici.

Braschi e Gnutti presero l’alpino S. sotto braccio e si incamminarono per Corso Europa. Io presi per mano la bicicletta rossa e li accompagnai fino alla loro caserma. Li lasciai lì che mancava un quarto alle undici: avevo appena il tempo di tornare di buon passo al Logistico per essere in orario al passo carraio. Prima però guardai il cielo pieno di stelle e sospirai, sorridendo per la dolce ingenuità del mio amico.

 

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LINDA APPLE, “OLD RED CLASSIC BIKE”

sabato 10 settembre 2016

Gli anni del ricordo

 

"Quegli anni erano più belli nel ricordo che non quando li aveva vissuti":
MILAN KUNDERA, "L'insostenibile leggerezza dell'essere", I, 14

Milan Kundera è probabilmente il mio scrittore preferito del secondo Novecento. I suoi romanzi sono costruiti a intarsio, intersecano storie, si lanciano spesso in digressioni sul vivere e sui suoi sentimenti con lapidarie conclusioni degne di aforismi.

Come questa che ho estrapolato dal suo romanzo più noto, L’insostenibile leggerezza dell’essere. I nostri ricordi sono probabilmente molto più belli della realtà che li ha originati: sono come quelle mele che vendono sulle bancarelle o nei supermercati, così lucide che vi si specchia a rovescio tutto il mondo. Ed è un bene che siano così, i nostri ricordi: sono il nostro paradiso perduto, l’Eden in cui eravamo un giorno e dal quale siamo stati cacciati. Il nostro desiderio che sappiamo impossibile, e che per questo ci strugge, è di ritornare. Questo è il motivo per cui spesso i ricordi si associano alla nostalgia.

In realtà, se una macchina del tempo o una distorsione spazio-temporale di quelle che spesso si vedono nei film ci riportasse al nostro passato, a quell’Eden, quasi sicuramente lo troveremmo più scialbo, i suoi colori ci sembrerebbero meno vividi, la nostra giovinezza un po’ diversa da come la magnifichiamo adesso, ne percepiremmo il disagio che abbiamo rimosso. Così anche la ragazza che amavamo, così i grandi giorni che serbiamo nella memoria. E avrebbe ragione, ancora una volta, quel gran genio di Kundera…

 

BARBARA FOX, “SHINY RED APPLES”

sabato 3 settembre 2016

La poesia di Charlie Brown

 

“Cos’hai lì, Charlie Brown?” chiede la scorbutica Lucy vedendolo arrivare con un foglio in mano e lui risponde: “Ho scritto una poesia”. “Davvero? Leggila”. “Va bene… non è molto lunga”. E Charlie Brown la legge:

Certi giorni crediamo di sapere tutto
Certi giorni crediamo di non sapere nulla
Certi giorni crediamo di sapere qualcosa
Certi giorni non sappiamo neppure la nostra età…

Charlie Brown sorride imbarazzato, in attesa del giudizio di Lucy, che non tarda: “È la più brutta poesia che abbia mai sentito! Una poesia deve avere sentimento! La tua poesia non commuoverebbe nessuno! La tua poesia non farebbe piangere nessuno! La tua poesia non…” e si interrompe perché si leva alto il WAAH di Snoopy, che continua a commuoversi mentre Charlie Brown gli rilegge i versi.

Ecco, sulla poesia mi è capitato spesso di udire pregiudizi simili a quelli di Lucy: anzi, sono giudizi (errati) di persone che probabilmente tarano il mondo sulla loro vita. La poesia invece è personalissima: può toccare le corde più intime di una persona e farla vibrare lasciando invece altri assolutamente impermeabili ad essa. E sono quelli che magari si inteneriscono davanti alla poesia “facile”: Prévert, Neruda per esempio. Sono quelli che considerano magari poesia i testi delle canzoni, che invece poesia non lo saranno che in rarissimi casi. Io, non ho timore di ammetterlo, ammiro la sensibilità di Snoopy: con la sua fantasia di cane un po’ folle, è la vera incarnazione del poeta.

 

2013

 

sabato 20 agosto 2016

Ozio d’agosto

 

Giovedì d'agosto Siedo su questa veranda, al tavolo di resina, senza nulla da fare, senza appuntamenti pressanti che mi chiamino, senza incombenze a cui pensare. Siedo semplicemente, le gambe allungate, il corpo abbandonato a una comodità spensierata. Posso dire che sono finalmente rilassato, che lo stress lavorativo si è dissolto come una coltre di neve al sole, che le batterie si stanno ricaricando.

È meraviglioso questo ozio d’agosto: ha il sapore antico delle estati di una volta, quelle dei tempi delle scuole elementari e medie, quelle dei tempi del liceo anche, in misura minore. Ha il sapore di quando non c’erano i telefonini e neppure i computer, di quando i social network consistevano nello scendere in piazza a parlare con gli amici. Ma ad agosto, molti erano al mare o in montagna, e la piazza era deserta. E allora era proprio questo ozio a dilagare, soprattutto nei lunghi pomeriggi, soprattutto quando non c’erano le Olimpiadi o i mondiali di atletica o gli europei di nuoto in televisione. Un ozio dolce e spesso, un po’ come l’aria umida che quasi si può tagliare a fette e nasconde sotto un velo di foschia le colline. Una noia che si riveste di una mielosa apatia.

Così siedo su questa veranda, al tavolo di resina bianca, e guardo le donne tornare dal mercato con le borse piene di frutta e di verdura, di formaggi, i sacchettini leggeri con le magliette comprate al banco tutto a 10 euro. Parlano tra loro, ridono, si raccontano le cose. Con lentezza, con il passo languido di agosto a percorrere il lato in ombra della strada. I bambini vociano, giocano, si allontanano correndo finché un richiamo non li riporta indietro - sembra che abbiano un invisibile elastico che li trattenga.

È mezzogiorno passato ormai. E un suono noto interrompe il mio ozio come la sveglia che taglia il collo ai sogni. Il campanellino di Whatsapp che organizzerà il mio pomeriggio...

 

Merry

MARGARET MERRY, “AN ANDALUCIAN PATIO”

sabato 13 agosto 2016

Una storia americana

 

Il treno tagliava come una lama la prateria ghiacciata che un sole di me­tallo velava con una sottile bruma al punto da sembrare anch'esso una sfera di ghiaccio. Seduta sulla comoda poltrona di prima classe foderata di velluto rosso, Cadiz guardò fuori e si strinse ancora di più nell'ampio cappotto nero. Nono­stante il riscaldamento interno del vagone, sentiva il gelo penetrarle nelle ossa. La ragazza stava ripensando alla sera prima, così inusuale nella sua vita, come la tessera di un puzzle che non si incastri con le altre.

In un bar di Vancouver aveva incontrato per puro caso - casuale l'ora, casuale la scelta del bar, casuale la sua presenza - Mickey. “Mickey, come Mickey Mouse” si era presentato quel ragazzo dagli occhi di ghiaccio che sembrava uscito da un film d'avventure.

“Ma perché Cadiz? È il tuo vero nome?”. Cadiz non aveva voluto spiegar­gli la triste storia del suo nome, le sere perdute a vendere nel Nevada la sua esuberante gioventù; la fuga da casa, da quella tranquilla casa di Oskaloosa, nello Iowa, si era trasformata in prostituzione d'alto bordo: bei vestiti, gioielli, profumi, una Chevrolet... Era stato un cliente avanti negli anni a chiamarla così perché gli ricordava le estati spagnole della sua gioventù, le corride dove incontrava Hemingway, le ragazze della solare città di Cadice.

Il suo vero nome era Lynn, Lynn Vozinsky. Non era riuscita a dirglielo subito. Mickey era qualche cosa di diverso, con lui Cadiz l'aveva fatto per amore. Non riusciva a capacitarsi che potesse esistere ancora l'amore nel mondo e che Mickey potesse infondergliene così tanto nel cuore. Era dai suoi sedici anni che non si innamorava: al ballo della scuola aveva baciato Sonny Parker, il bello del college. Sei mesi. Sei mesi prima di lasciare Oskaloosa e i suoi campi di grano.

Cadiz guardava dal finestrino: Vancouver era ormai lontana, già si intravedeva Seattle prona nella baia. Un'inestinguibile sete d'amore aveva preso Ca­diz, non l'amore fisico, il sesso che era il suo lavoro e che aveva ormai a noia: l'amore vero, quello che vince anche i cuori dei saggi e li trascina nella passione. Cadiz voleva davvero vivere una storia alla “Via col vento“: quante volte aveva sognato e pianto al posto di Vivien Leigh.

Una speranza. Scese dal treno con una speranza, certa che le avrebbe permesso di continuare a vivere. “Chiamami Lynn: è il mio nome ed è solo per te“, così aveva salutato Mickey e in cuor suo sapeva che un giorno o l'altro si sarebbero incontrati di nuovo.

19 ottobre 1990

 

Sally Storch

SALLY STORCH, “NIGHT STORIES”

sabato 6 agosto 2016

Toponomastica di Venezia

 

La toponomastica veneziana è unica al mondo, data la conformazione della città. Calle, corte, fondamenta, salizzada, rio, rio terà nella bellissima città della Serenissima fanno le veci di quelli che altrove sono chiamati viali, vie, vicoli, larghi, piazze e piazzali. Non è di questo che si intende parlare, ma della denominazione di alcune strade cittadine. In una località così ricca di storia la toponomastica si perde nel medioevo e nel rinascimento, quando lo splendore veneziano fu all’apice. Vi erano famiglie importanti, ed ecco allora Calle Gondulmer, Calle Colomba, Rio dei Gozzi, Ramo Calle del Pin. Vi erano bravi artigiani che spesso lavoravano nel medesimo sestiere, ed ecco Corte delle Ancore, Calle dei Fabbri, Calle del Cappeller (il cappellaio), Calle del Pistor (il prestinaio), Calle del Parrucchier. Vi erano antiche e frequentate locande, ed ecco allora Calle del Carro, Corte della Cerva, Corte della Anguria, Calle del Leon Bianco. Ma vediamo qualcosa di più originale:

CALLE DEL VENTO – È un imbuto vicino al mare nella zona del porto, dove il vento la fa da padrone. Ci abitava il poeta Diego Valeri, che dedicò alla calle questa poesia: “Qui c'è sempre un poco di vento / a tutte le ore di ogni stagione: / un soffio almeno, un respiro. / Qui, da trent'anni, sto io, ci vivo./ E giorno dopo giorno scrivo / il mio nome sul vento”.

CALLE LARGA DEI PROVERBI – Prende nome da due proverbi che anticamente, almeno fino al 1840, si potevano leggere sulle cornici di due balconi: «Chi semina spine non vadi descalzo» e«Dì de ti, e poi di me dirai».

CAMPO DE LE GATE – No, non sono le gatte a dare nome a questo campo, quanto piuttosto i delegati, ovvero i Nunzi papali, che erano ospitati nel palazzo del priorato dell’Ordine di Malta. La corruzione del termine ha portato dai Legati alle Gate.  

FONDAMENTA DE LE PROCURATIE – Così come le Corti delle Procuratie, deve la sua denominazione alle case destinate alle famiglie indigenti dai Procuratori di San Marco, secondo le pie intenzioni dei testatori. Le case di Santa Maria Maggiore, dov’è la Fondamenta, provenivano dal testamento di Filippo Tron: erano ben sessanta.

FONDAMENTA E PONTE DE LE TETTE – Nessuna corruzione di termini: sono proprio le “tette”: nel 1358 venne prescritto ai capi di sestiere di individuare una zona dove concentrare le prostitute. Il luogo fu fissato due anni dopo tra un gruppo di case note come il Castelletto e Ca’ Rampani – il quartiere venne poi denominato “Carampane”, vocabolo assurto in seguito a indicare spregiativamente le meretrici. Le ragazze per invogliare la clientela stavano affacciate ai balconi e alle finestre con le «tete» bene in vista…

NARANZARIA - a Rialto. Nei magazzini sotto il palazzo dei «Camerlenghi» che fiancheggiano questa via, venivano conservate le arance e gli agrumi .

PONTE DE LA DONA ONESTA – Incerta è l’origine della denominazione di questo ponte e dell’omonima Fondamenta: secondo una versione, due uomini passarono di lì dibattendo sull’onestà delle donne e uno dei due, alquanto deluso dal genere femminile, indicò all’altro la testa di donna incassata nel muro sopra il ponte: «Sai tu quale è onesta fra tante? Quella là che tu vedi!». Un’altra versione rende invece omaggio all’onestà di una popolana, moglie di un maestro spadaio: un giovane patrizio, che aveva commissionato una daga allo spadaio, invaghitosi della donna, fece in modo di trovarsi da solo con lei e la violentò; la popolana allora, disperata, si uccise con quella stessa daga. Una terza versione, meno poetica e più sarcastica, fa derivare il nome del Ponte da una prostituta, detta la “donna onesta” perché prudente nell’esercitare il suo mestiere.

RIO TERÀ DEGLI ASSASSINI - Il rio, prima del suo interramento, era attraversato da un ponte, chiamato «degli Assassini», per la frequenza dei delitti che in tempi remoti vi venivano perpetrati. Nel 1128 il governo veneziano, per arginare il fenomeno,  ordinò che nelle strade poco sicure venissero accesi di notte i «cesendeli», le lanterne.

 

Tette

sabato 30 luglio 2016

Dopo quarant’anni

 

Oggi, dopo quarant’anni, ho rivisto una mia compagna di classe delle elementari. Il mio percorso scolastico, dopo la scuola in paese con i miei coscritti, mi portò lontano da qui, verso posti sempre più lontani. Insomma, ci perdemmo di vista dopo l’esame di quinta elementare, dopo l’oratorio, dopo i nostri undici anni.

Certo, da soli quasi certamente non ci saremmo riconosciuti, ma lei era con sua madre e io con mio padre: sono stati loro a “riconoscere” in noi gli antichi compagni di classe. Ci siamo scambiati le informazioni indispensabili su questi quarant’anni: lei si è sposata, ha tre figlie, abita in un paese distante una quindicina di chilometri, più all’interno nella provincia. Era curiosa della sorte di alcuni dei compagni, che ha nominato. Chissà, tasselli nella memoria, visi di bambini che avevano allora un certo interesse.

Mi sono sentito addosso il tempo, non come un enorme macigno, come un peso piuttosto, ma un peso naturale, come lo zaino dell’escursionista che affronta la montagna: come quello ha l’equipaggiamento, la bussola, la torcia, la borraccia con l’acqua, noi abbiamo i nostri dolori, i nostri studi, le nostre gioie, gli amori, le illusioni…

Sono bastati cinque minuti a raccontarci sommariamente, mentre le cicale cantavano sotto i cipressi del camposanto – sì, perché quello è il luogo dove ci siamo incontrati, dove riposa mia madre, dove da qualche mese è sepolto suo padre. Ed è un altro sintomo del passaggio di questi quarant’anni: sempre più spesso incontro i miei compagni delle elementari in questo piccolo e ordinato cimitero di paese, ognuno di loro ha i suoi cari da onorare con un fiore e una preghiera, e spesso accompagna il genitore che è rimasto, ormai anziano, ricambiando amorevolmente le cure che ne aveva ricevuto.

Ci siamo salutati con un ciao, come quando da bambini lasciavamo l’aula e tornavamo a casa con le nostre biciclettine, e questi quarant’anni – nonostante tutto – non sembravano poi così tanti.

 

Saia

PASTELLO DI TERESA SAIA

sabato 23 luglio 2016

Ho sognato il mare

 

Ho sognato il mare. Era un mare di maggio, mare mosso, mare in contraddizione che si perdeva sulla riva in larghe pozze calde di bassa marea. Ho sognato il mare, quel nostro mare. Dalle parti delle Terme già c’era la gente sulla spiaggia con magliette e giubbetti di jeans, che camminava e discorreva. Due ragazze si divertivano a fare la ruota in quell’acqua bassa, schizzavano riflessi dorati tutt’intorno.

Il vento del mattino accarezzava la baia, agitava il gran pavese colorato steso al di là della spiaggia. Le sue scarpe da tennis bianche e rosa erano appoggiate sulla sbarra dove legano i pattini, un peschereccio indefinito navigava al largo. Nel suono ipnotico della risacca il sole ingialliva il cielo ad Est, le barche rovesciate sulla riva, i riflessi danzanti sulle onde. Il cielo stava per cadere in me o forse solamente si attorcigliava sui miei capelli, sui miei vestiti, sulla mia figura e l'ombra lunga bagnava la battigia. Rimanevo lì come stordito, come se un pugno avesse centrato il mio viso – come il Catullo di Ille mi par esse deo videtur avevo il respiro mozzato, mi sentivo le gambe molli, più non mi reggevo in piedi. Così la bellezza mi aveva colpito, una sera di luglio ormai lontano. Non ho potuto mai dimenticare quei colori, quel suo dolce sorridere.

Credo di averle dato più rispetto di quanto meritasse: il mio errore principale fu quello e lo ammetto. Ma come possono virtù ed amore considerarsi difetti? Avrei dovuto ledere la mia morale? Tra i dubbi neppure oggi lo farei, pur avendo piazzali di alibi per fuggire. Sono sempre il timoroso e il prudente di allora: rischi solo calcolati. Eppure la rispetto ancora; nel ricordo, nel sogno, nella mente. Ero il buon compagno gozzaniano, il good fellow, penso davanti allo specchio inseguendo ricordi nel mattino. La radio passa canzoni come sottofondo: sanno di nostalgia in questa nuova estate. E mi guardo con le guance e il mento insaponato e ricordo il bravo ragazzo che fui, quello che sempre ascoltava, che sapeva far ridere le donne...

Ho sognato il mare ma lei non c’era.

 

Spiaggia

FOTOGRAFIA © ANGIE MACKENZIE

sabato 16 luglio 2016

Diarietto amoroso

 

25 luglio

Luce di solleone, noia del pomeriggio. Un sottile languore, un'apatia tipica delle lunghe giornate d'estate. Un sonnellino di un quarto d'ora sembra lenirla, poi ritorna questa abulia, come un velo di sudore. Nella strada passano automobili, lontano c'è un motore che ronza, forse una motosega, forse qualche altro macchinario. Di tanto in tanto si leva un filo di brezza, lo si sente sulla pelle, lo si vede lieve accarezzare appena le fronde. E tutto galleggia in questo svuotamento della volontà.

29 luglio

“L'amore è come la poesia: o è amore o non esiste”.
DE RITA, MAIURI, SALERNO, Sceneggiatura di “Eutanasia di un amore”, 1976

11 agosto

Che cosa romantica stasera restare fuori ad osservare le stelle per scorgerne una cadente ed esprimere un desiderio stipato in un cassetto del cuore.

15 agosto

Dicono che talvolta mi lamento nel sonno. Chissà quali torture o dolori - o quali piaceri - incontro in quella momentanea follia che è il sogno.

20 agosto

“…quella che ha tutto e non ha niente… di me” cantano i Pooh adesso alla radio . Sono io “il vero uomo da avere accanto”, il respiro che lei respirerebbe, la scelta per la vita?

…piccole cose, come andare insieme all’Ikea e scegliere qualcosa per la casa: un tappetino per il bagno, una lampada, un copri piumone per il letto matrimoniale. E ancora andare a fare la spesa, cogliere tra gli scaffali come fiori soltanto quello che ci serve. E passeggiare insieme, piano, senza meta, guardando i giardini, le cose, tenendoci per mano. Molto romantico e vagamente ingenuo.

23 agosto

Si invecchia, anzi, si cresce. nulla più.

25 agosto

Mi manca. È nell’assenza, nella lontananza che tutto si amplifica. Il desiderio di lei diventa addirittura insopportabile a volte, come un’ansia d’aria, una sete inestinguibile che continua ad aumentare. Racconto di lei al vento, alla luce, la mimetizzo tra le rose del giardino. E allora sì, mi manca un po’ meno.

2 settembre

“Non esistono amori felici / ma per noi due c’è il nostro amore”.
LOUIS ARAGON

9 settembre

«Cosa siamo?» mi chiede, «Noi due cosa siamo?». «Di più» le rispondo.

Noi siamo entrambi Florentino Ariza, il tempo, il destino, il futuro è Fermina Daza - alla fine la nostra attesa sarà premiata.

11 settembre

Chiama questo suo porsi “sentimento”, domanda se anche io lo provi, in caso contrario se ne rattristerebbe. No, tranquilla, anche io lo provo.

12 settembre

“Sai tu che in un bacio mi regali una poesia?
WANG JINGZHI, Vento di Hui

15 settembre

Ho sentito l’amore palpitare nelle sue parole, non come un lampo, piuttosto come un’onda, una dolcissima onda calda e setosa.

18 settembre

“Quando siamo amati, lo sentiamo. Il sentimento s'imprime in tutte le cose e attraversa lo spazio.”
HONORÉ DE BALZAC, Papà Goriot

 

Conversazione

RAFAL OLBINSKI, “CONVERSAZIONE”

sabato 2 luglio 2016

Viaggio in tram

 

Piove sulla città e sui taxi bianchi, piove sui Navigli e le grosse gocce disegnano cerchi sull’acqua d’onice sempre più fitti, sempre più concentrici. E un vortice di bottiglie di plastica ostinato si infrange sulla diga sotto le bancarelle del mercato mentre si aprono gli ombrelli come funghi. Piove sui nuovi tram trasformati in deambulanti réclame. Questo è il 2, che parte da Piazzale Negrelli, davanti al Naviglio e ora attraversa Via Torino per curvare in Via Orefici, prima del Duomo, e poi, dopo aver scavallato il Cordusio e costeggiato il Parco Sempione, andare a morire come un fiume in Piazza Giovanni Bausan, al Dergano. Pubblicizza una vacanza ai tropici e allora è vero che chi inventò il viaggio inventò anche l’attesa ed insieme la nostalgia. O almeno è quello che mi vogliono fare credere i copywriter che hanno disteso quel mare azzurro e quelle palme su un tram che scivola sul lucido pavé come una enorme limaccia.

Ma no. Sono amaro e caustico perché sono deluso, perché credevo di credere all’amore e invece ho poi scoperto che mi ingannavo. Non riuscivo a staccare gli occhi da lei: era la luce di interi universi. O almeno lo sembrava quando assumeva quella angelica postura, incrociando le mani sopra il seno nudo quasi fosse la modella di uno scultore. Forse era soltanto quel suo fascino di carne e spirito, o almeno così io mi ostino a credere. “TU SEI LA MIA VITA MARY” ho visto scritto su un muro da qualche parte nell’Isola. Anch’io un tempo credevo che una donna valesse la mia vita, che la sua presenza fosse il respiro e saperla mia mi facesse palpitare il cuore. Se lei era davvero la mia vita, allora mi illudevo.

Anche di donna, che splendida anfora: e non versano acqua, ma la vita. Questa ragazza che cammina sul marciapiede di Viale Stelvio con una borsa di Prada pratica la danza della seduzione forse inconsciamente. Certo anche lei così compita e seria, anche lei, quando è nell’intimità… Oh, voglia d’amore che mi gonfi il cuore, resta con me a lungo, voglia d’amore. - Dici che chi ci guida è la ragione? - Magari! Spesso ci guida l’istinto. Adesso parlo anche da solo. No, non parlo. Semplicemente dibatto tra me e me. Ma l’ho sempre saputo di essere scisso in cuore e ragione, sono sempre stato un seguace di Pascal. Ma anche di Charlie Brown: c’è quella striscia in cui Lucy piega Linus da una parte perché lui vuole che in sé prevalga l’amore. L’ho sempre detto: Linus è il filosofo della compagnia.

La verità spesso ci sta davanti. Noi però, purtroppo, guardiamo dietro… Siamo soltanto povere cose di carne, siamo uomini che provano a vivere con tutti i turbamenti e tutti i dilemmi. Alla fine si può dire che quell’amore che mi logora la vita (che credo che mi logori la vita) – il nostro amore pomposamente lo chiamavo – non sia neanche nato: probabile che prima di partorire lo abortimmo. Il fatto è che adesso non ho più lo stupore di allora di fronte a quel che c'era e che non c'era, l’innocenza è perduta, il tempo è passato come una lama a recidere i fili.

Torna il sole, quel sole che un mattino baciò Eraclito e che adesso ride ancora sulle nostre teste. Il cielo adesso è tutto sull’asfalto, dipinge i marciapiedi d’azzurro e i riflessi scintillano leggeri galleggiando sul lucido granito.

 

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FOTOGRAFIA © YORICK39

sabato 25 giugno 2016

Il marinaio immobile

 

Il cielo è quello tipico delle località del mare al primo mattino - le nuvole sospinte verso la costa, la foschia sottile che avvolge i moli come un fruscio prima di svanire nei vapori dell'alba per lasciare il posto all'aria carica di sale. Lei dorme ancora tra le lenzuola bianche, giace prona schiacciando il seno sul materasso, le gambe appena piegate, i capelli sparsi fanno pensare a un'attinia che si muova nella corrente di un fondale. Io invece, seduto al tavolino guardo dalla finestra l'alba che irrompe, il taffetà cangiante del mare, pescherecci lontani che si apprestano a rientrare.

È questo il mio Tropico, questa la mia avventura: sono il marinaio immobile che scopre la grazia nelle luci che tremolano evanescenti, nelle fiamme che guizzano sulle onde. Così, quando la notte intuisco la costa nel buio, sento la gioia venire fino a me, una felicità umile e gentile, una commozione dolce e divina che mi avviluppa al caldo, che nelle coltri dell'oscurità mi fa sentire sicuro e libero di andare, anche se so che non partirò: ne sono comunque permeato, illuminato da questa certezza. Altri andranno ad affrontare il maelstrom, a perdersi nei ghiacci delle banchise, a inseguire i loro fantasmi sulle baleniere, a sporcarsi di carbone su inaffondabili Titanic, oppure perderanno l'ago della bussola nelle tempeste magnetiche.

A me basta questo cielo paglierino che ora riflette i suoi stendardi di nuvole nella superficie del caffè, la tazza un lago dove i pensieri navigano sdruciti per approdare poi sicuri alle rive. A me basta questo presente di giorni uguali scanditi solo dallo scorrere della stagione e condividere la vita con lei che adesso naviga lontano nei sogni e che presto si sveglierà per chiedere nuovo amore. È dolce ricordare da un porto sicuro le tempeste passate.

 

Daines

DIPINTO DI SHERREE VALENTINE DAINES

sabato 18 giugno 2016

Il fruscio del vinile

 

“La voce di una giovane ragazza
cantava dolcemente queste parole”.
THOMAS PYNCHON, V.

Un vecchio disco suona i miei ricordi e mi sorprende il fruscio del vinile, l'imperfezione che mi apre gli occhi e mi dice quanto tempo sia passato - del resto non ho nemmeno più l'abitudine a estrarre il disco dalla busta, spolverarlo con l’apposita spazzolina antistatica, collocarlo sul giradischi e infine posare attento la puntina tra un microsolco e l'altro: sono impacciati i miei gesti, desueti, da fruitore di nuove tecnologie, da ascoltatore di brani in mp3 scaricati da iTunes, di canzoni digitali suonate su Spotify, ora che non ho bisogno più neppure dell’asettica custodia dei CD.

Ascoltando quella musica, mi ha subito sopraffatto il senso del mio tempo perduto: come un succo denso di ore irrimediabilmente passate, lontane, come se soltanto adesso mi fossi reso conto del trascorrere del tempo, del suo volgere continuo, eracliteo. Anche i ricordi sembrano diversi, lontani, come se li avesse vissuti un altro. Sembrano assumere addirittura una rilevanza diversa, mi sembra che sia insignificante ciò cui davo valore e viceversa più importante ciò che ignoravo perché consideravo irrilevante. I dettagli si ingigantiscono, la lente del tempo riesce a mettere finalmente a fuoco le distanze, a collocare nel loro giusto incastro le tessere di quel puzzle.

C’è quella canzone dei Matt Bianco che piaceva a lei, che ci piaceva tanto: la ascoltavamo in spiaggia sulla radio, la cantavamo sulle biciclette, la ballavamo la sera dentro i bar... Shua Doo Doo-Ah Sneaking out the back door with a grin I move along when things are going wrong la voce della corista, l’assolo delle trombe, le percussioni... Mi sembra di risentire distintamente il profumo dello shampoo alla mela con cui si lavava i capelli, riesco a immaginarmi con precisione il suo volto, i gesti consueti con cui mi invitava, la vedo riempire cruciverba con una matita verde mordicchiando il gommino, il movimento con cui si legava i capelli con il nastro… Ma il mio amore per lei – ora sì lo posso dire, ora che tanto tempo è passato e finalmente vedo chiaramente nelle cose – era un grumo di nostalgia, in esso avevo impastato la malinconia che contrassegna certe gioventù. Non poteva durare.

Quanto ho amato quegli anni perduti quanto ho amato quei dischi di plastica – ci sembravano brutte le canzoni, invece se ascolti quelle di adesso, le confronti ed erano proprio belle. Quanto ho amato quei giorni in cui si badava ad apparire piuttosto che ad essere e invece io ero anticonformista anche più di ora. E li ho amati, quegli anni, perché ho amato lei. E chissà dove è adesso e che cosa farà la ragazza che avevo ribattezzato «Miss Shua Doo Doo-Ah»…

Tolgo il vinile con gesti insicuri e lo ripongo nella sua custodia riponendovi anche i miei ricordi.

 

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FOTOGRAFIA © AUDIOKLASSIKS

sabato 11 giugno 2016

La punizione

 

Solitamente chi sbaglia e viene scoperto, paga. Chi commette un illecito, chi parcheggia in divieto di sosta, chi va contro una norma o un regolamento imposto dallo stato o da qualsiasi comunità. Anch’io ho pagato le mie multe, ho subito i miei castighi. Ma, della mia vita, ricordo queste due occasioni in cui la meritata punizione non arrivò.

La prima: avevo 17 anni, frequentavo la seconda liceo classico e quel mattino tutta la scuola partecipò nei locali della Borsa a una conferenza su Luigi Pirandello. Noiosa assai, barbosa, pallosa. Fuori la città pulsava nel sole di primavera, il cielo era azzurro, i negozi erano aperti e invitanti. Dopo l’intervallo, presi e me ne andai raccogliendo per strada anche un ragazzo di prima liceo. Pur non essendoci lezione, tecnicamente bigiammo, anzi “impiccammo”, come si diceva a Bergamo: erano le 11 e la conferenza sarebbe durata fino alle 12.45, l’ora in cui mi fiondavo in stazione per prendere il treno dell’una; nessuno si sarebbe accorto che mancavo. Prendemmo la vicina funicolare e salimmo in Città Alta, girovagammo per i vicoli medievali, comprammo una focaccia ciascuno e ci sedemmo a mangiarla sulle Mura guardando in basso il formicaio della città muoversi nel sole di maggio. Scendemmo per tempo e all’una, salutato il mio occasionale Pinocchio (dovevo essere io Lucignolo, se l’idea era stata mia), presi il treno e rincasai. Il giorno seguente la professoressa di latino e greco, appena entrata e sistemata sulla cattedra, mi chiamò - era diventata rossa, sintomo inconfondibile che segnalava la sua collera, anche se teneva un tono di voce perfettamente normale. «Ti è piaciuta la conferenza su Pirandello?». Raccolsi tutto il mio candore, rimasi perfettamente calmo e risposi «Sì», senza neppure arrossire. La prof disse «Bene» e lo disse in un modo in cui mi fece capire di sapere perfettamente cosa avevo fatto. La storia finì lì e non fui sospeso, come avevo temuto. Non bigiai più...

Sei anni dopo non ero più un adolescente ma un ragazzo di 23 anni. Ero un soldato semplice dell’esercito italiano da un paio di mesi appena, un alpino - anche se secondo i gradi di caserma ero al posto più basso, “nipote di terza”. Mi trovavo al campo estivo di Ponte di Legno, nei boschi della Val Sozzine, alle pendici dell’Adamello. Quel giorno, erano i primi di luglio del 1988, l’intero campo era in fermento per l’arrivo di Giovanni Paolo II, che avrebbe celebrato messa in quota. Sarebbe atterrato con l’elicottero in un prato non lontano da noi e ci era stato tassativamente ordinato di non salire fino al punto di arrivo. Ma io quel giorno non avevo servizio - ed era un caso raro, perché ai “nipoti di terza” venivano affibbiati quasi ogni giorno. E a perdermi, come nel caso della conferenza di Pirandello, fu la noia, associata a una curiosità di vedere da vicino il pontefice polacco, che ho sempre stimato moltissimo. Così salii  lungo il pendio tenendomi chino tra l’erba alta. Non ero solo: arrivato al prato, scoprii che altri quattro o cinque alpini avevano avuto la mia stessa idea. L’elicottero con il papa atterrò, ma non riuscii a vederlo, perché spuntò il maggiore C. con la sua barba da ufficiale e qualche bicchierino già in corpo. Fuggimmo veloci, ci precipitammo lungo la discesa a rotta di collo. All’adunata della sera, il maggiore puntò la sua faccia paonazza verso la truppa radunata nello spiazzo tra i larici dove era stato collocato il pennone con la bandiera. «Avevo detto di non salire dove sarebbe atterrato l’elicottero!» disse con un’ombra di accento piemontese, «ma qualcuno non ha ascoltato le mie parole. Perciò i seguenti stiano puniti, 3 giorni di consegna semplice» e snocciolò i nomi di quelli che erano con me. Non il mio. Mi feci piccolo piccolo per quanto possibile, nascosi ancora di più il viso sotto la tesa del berretto da stupidi. Ma tutto finì lì né certo nessuno dei miei commilitoni fece la spia. Mi domandai perché nella lunga e fredda notte di guardia: forse, conclusi, essendo io da meno di un mese in quella caserma, il mio nome al maggiore C. non era ancora noto. Rigai dritto da lì in avanti, come avevo fatto a scuola dopo quella conferenza su Pirandello. Conclusi il mio anno di militare senza aver mai preso neppure un giorno di consegna.

E da allora ho fatto mio un motto dai Proverbi della Bibbia: «La punizione degli stupidi è la stupidità».

 

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sabato 4 giugno 2016

Le lettere d’amore

 

Le lettere, d’amore o meno, non si scrivono più: la tecnologia le ha cancellate dalla faccia della terra sostituendole con le asettiche e-mail e anche peggio con gli SMS prima e con i messaggi in chat o su Whatsapp dopo, facendo piombare il linguaggio in un abisso di k usate al posto del ch e di abbreviazioni numeriche o stenografiche spesso incomprensibili peggio di un cifrario.

Scriveva Pessoa nelle vesti del suo alter ego Álvaro de Campos: “Le lettere d’amore, se c’è l’amore, devono essere ridicole. Ma dopotutto solo coloro che non hanno mai scritto lettere d’amore sono ridicoli”. Certo, possono essere ridicole perché fuori contesto o perché, lette al di fuori della coppia cui sono riservate, diventano materiale per voyeur, o ancora perché contengono segreti che non devono essere rivelati. Ma in realtà - come Pessoa alias Álvaro de Campos sa bene, tanto da definire ridicoli coloro che non ne hanno mai scritte, un atto d’amore non può mai essere ridicolo.

In una scatola di cartone nell’armadio, con altri cimeli sopravvissuti miracolosamente al tempo (conchiglie, ciottoli levigati, monete, boccette di sabbia, biglietti del cinema, braccialetti, collanine, un suo nastro per legare i capelli) ho un bel plico di lettere d’amore scambiate nel corso degli Anni Ottanta con la mia ragazza di allora, che viveva in un’altra città – purtroppo non pensai all’epoca di tenere copia delle mie e neppure ricordo quali “capolavori” romantici le scrissi e posso soltanto desumere da qualche mia frase stralciata e riscritta da lei.

Quando apro quella scatola, quando tolgo le lettere dalle buste, mi sento catapultato in un’altra epoca, come se quel piccolo scrigno di cartone fosse una macchina del tempo: l’odore della carta, dell’inchiostro della biro con cui lei mi scriveva, dei profumi dolciastri e femminili con cui talora le spruzzava, sono l’essenza del tempo perduto, di un passato che non tornerà. Leggo di noi, come eravamo e come non siamo più, ma anche di band musicali che ricordo e che vedo ancora ingrassate e invecchiate bazzicare i programmi televisivi di memorie, di politici ormai consegnati alla storia o ghigliottinati dalle forche caudine di Mani Pulite.

Ne scorro ancora qualcuna, poi le metto via, le lego di nuovo con la fettuccia rossa di raso e le consegno a un altro momentaneo oblio rimuginando che Pessoa travestito da Álvaro de Campos in fondo aveva ragione…

 

Lettere

FOTOGRAFIA © FRENCH LARKSPUR

sabato 28 maggio 2016

La leggenda dell’ulivo

 

Una nuova città stava nascendo sulle mosse colline dell’Attica: il destino aveva preparato per essa molte glorie. Non aveva ancora nome quando due divinità lottarono per contendersi l’onore di darle il proprio. Ma come scegliere? Zeus quel giorno era di ottimo umore, non doveva tenere a bada gli amanti di Era né trasformarsi in pioggia per amare una donna: decise di intitolare la nuova città a chi tra Poseidone e Atena avesse portato il dono migliore.

Il dio del mare scosse il tridente e si mise a percuotere la sabbia bagnata della battigia: ne scaturì un meraviglioso cavallo bianco che incominciò a correre sul bagnasciuga. Poseidone pensò di avere ottenuto la palma della vittoria con quell’utile animale: poteva condurre lontano, tirare l’aratro, essere usato in combattimento.

Pàllada Atena invece si portò a ridosso delle mura in costruzione e sfiorò la terra con la sua lancia: d’incanto tutta la collina si ricoprì di piante dalle foglie d’argento con delle bacche verdi, centinaia e centinaia di ulivi. Era quello il dono migliore, come sentenziò Zeus: luce, alimento e simbolo di pace. In onore della dea la città venne chiamata Atene.

 

2009

Olivo

ELIDON, “ULIVO A FILIPAPPOU, ATENE”

sabato 21 maggio 2016

Adriano

 

Il treno percorreva la pianura, la solita tratta di ogni giorno, da Bergamo verso ovest, verso il sole. Fuori scintillava la luce del mezzogiorno ormai passato: la corsa partiva alle 13.05 precise dal binario 4. La nostra compagnia era eterogenea, variegata, si era andata formando a poco a poco, conoscenza dopo conoscenza, un amico di amico dopo l’altro.

Ci trovavamo sull’ultimo vagone, tassativamente nella carrozza per non fumatori. Di solito si rideva e si scherzava, si parlava di calcio o di donne, di moto, di auto, della musica del momento: era il periodo di transizione tra la discomusic degli Anni ’70 e la new wave degli Anni ’80. Tra gli italiani andavano per la maggiore Alberto Fortis, Rino Gaetano e Lucio Battisti. C’erano anche ragazze nella compagnia: si faceva un po’ la corte, con loro si parlava anche di film o di quello che avevamo visto alla televisione, dei posti che visitavamo la domenica. L’unica cosa che ci eravamo tacitamente vietati era di discorrere di scuola, di quello che avevamo fatto la mattina, dei compiti che avremmo dovuto fare nel pomeriggio. Quel momento era una specie di zona franca, un’oasi dove ricaricare le batterie e riposare la mente.

Ma quel giorno qualcuno lanciò il sasso: era un ragazzo di un paio d’anni più vecchio, ce n’erano due o tre che facevano la quarta geometri o la scuola di chimica dell’Esperia. La domenica successiva si votava per le politiche e loro, che avevano già compiuto i diciotto anni, si sarebbero recati alle urne per la prima volta. Chi aveva preso la parola si chiamava Adriano, era un piccoletto riccioluto con i bicipiti sviluppati dai pesi e una passione smodata per i Rolling Stones: «Ma voi domenica per chi votate?» chiese, poi gettò uno sguardo a noi e si corresse prontamente aggiungendo un «o per chi votereste?». Giuseppe si accarezzò i baffetti e disse di non fare mistero, che la sua famiglia era sempre stata comunista e che perciò anche lui avrebbe votato per il PCI. Davide disse di essere ancora indeciso, ma che probabilmente avrebbe scelto il Partito Liberale, sebbene i suoi avrebbero votato Democrazia Cristiana. «E voi che non votate?” chiese Adriano. Laura e Donatella si appellarono alla segretezza del voto ma poi si dissero orientate eventualmente verso i socialisti o i socialdemocratici. Emanuele e Nicola si dissero democristiani. Io mi dichiarai, cosa che poi più volte avrei ripetuto come una boutade nel corso degli anni, “agnostico” o “politicamente ateo”, schifato da quel sistema dei partiti. «Vedi, ti do ragione» mi disse Adriano, avvicinandomisi e battendomi una mano sulla spalla «questo sistema è superato e un giorno imploderà su se stesso. Per questo stavolta ho deciso di dare fiducia al Partito Radicale: voterò Pannella».

Questo ricordo è rimasto per anni sepolto nei meandri nella mia memoria: si è presentato all’improvviso quando, aprendo Facebook il pomeriggio del 19 maggio 2016, ho appreso della morte di Giacinto Pannella, detto Marco, come era indicato sulle schede elettorali. Un partito e un personaggio che non ho mai votato, ma che sapeva farsi sentire e ritagliarsi i suoi spazi. Aveva attirato giovani come Adriano in quelle politiche del 3 giugno 1981 e in elezioni successive, aveva condotto le sue battaglie anche con atteggiamenti provocatori. La domanda successiva che mi sono posto è stata però più privata: se Davide, Emanuele e Nicola mi capita ancora di incontrarli, che fine hanno fatto Laura e Donatella e Giuseppe? E soprattutto, che ne sarà stato di Adriano, con la sua tracolla militare sulla quale aveva scritto con la biro nera “I was born in a crossfire hurricane”?

19-20 maggio 2016

 

Treno

sabato 14 maggio 2016

I tre giorni

 

Per molto tempo, al compimento del diciottesimo anno un obbligo ha pesato su tutti i maschi italiani: la visita di leva, più familiarmente nota come “i tre giorni”. In una data fissata i nati nel trimestre si dovevano presentare alla sede del Distretto per sottoporsi ad alcuni esami medici e psicologi di idoneità in vista del servizio militare obbligatorio da prestare alla patria. Era per molti una sorta di iniziazione: ci si svincolava da madri e padri e forse per la prima volta nella vita ce la si doveva cavare da soli – sì: anche agli esami e alle interrogazioni, al lavoro di apprendista o di artigiano ci si presentava da soli, ma qui si trattava di porsi come individuo davanti allo stato, così come sarebbe stato poi per il conseguimento della patente di guida, di lì a poco.

Arrivava una cartolina-precetto azzurra (se non ricordo male, ma poteva anche essere verdolina) in cui si invitava l’iscritto Tal dei Tali a presentarsi presso il Consiglio di Leva per essere sottoposto a visita. Aveva anche due tagliandi valevoli come biglietti del treno già pagati (il Distretto intendeva che tu ti dovevi presentare e rimanere a dormire per quei tre giorni, ma in realtà tutti quanti tornammo a casa pagandoci di tasca nostra i quattro biglietti mancanti).

Fu così che una mattina di autunno mi arrivò la famigerata ma comunque attesa cartolina. Dovevo presentarmi a Como, piuttosto lontana sede del mio Distretto, alle ore 8.30 di un mattino di novembre – venerdì, sabato e quindi lunedì . Ero studente di liceo classico: il giovedì comunicai alla professoressa di latino e greco che sarei stato assente fino al martedì successivo per la visita di leva. Non ero il primo, naturalmente, né sarei stato l’ultimo. Ne prese atto e mi disse “Auguri”.

Mi alzavo presto, per andare a scuola: il treno per Bergamo partiva alle 6.57. Il treno per Milano invece faceva coincidenza e partiva due minuti dopo: vi salii con molti ragazzi della mia età del mio paese e di quelli vicini. Eravamo un’allegra comitiva di coscritti, anche se un po’ preoccupati di quello a cui avremmo dovuto sottoporci. Ritrovai anche alcuni miei compagni delle medie che non vedevo da anni. A Monza scendemmo e salimmo sul treno per Como. Poco prima delle otto passavamo accanto alla Basilica di Sant’Abbondio, già si annunciava la stazione. Scendemmo e raggiungemmo in un’unica frotta il Distretto. Lì ci selezionarono con un minimo di disciplina. Per tre giorni saremmo stati pagati dall’esercito, gli appartenevamo.

Delle visite non ho un chiaro ricordo: di certo la schermografia, un’occhiatina ai “gioielli di famiglia”, una bella guardatina ai denti, un po’ come si fa con i cavalli , la lettura del tabellone oculistico e qualche scartoffia da compilare vuoi per i precedenti sanitari vuoi per accertare eventuali tare psicologiche se non peggio. Di certo è che nel primo pomeriggio ci lasciavano liberi di tornare a casa con il nostro treno senza biglietto pagato.

Prima di venire via l’ultimo giorno, però, ci diedero il foglio di congedo provvisorio – che significava che eravamo abili e arruolati e che presto, salvo rinvii per motivi di studio o cause di forza maggiore (l’alluvione della Valtellina lasciò a casa tutta la provincia di Sondrio l’anno in cui poi fui infine chiamato a Merano) saremmo stati precettati per il servizio militare. Invece, chi non era abile veniva considerato “Rivedibile” o inviato all’Ospedale Militare di Baggio per accertamenti. A tutti pagarono la diaria, che in gergo veniva detta la “deca”: per i tre giorni mi diedero seimila lire in biglietti nuovi di zecca da duemila lire, quelli con Galileo Galilei e i monumenti di Piazza dei Miracoli a Pisa da un lato e l’osservatorio astronomico di Arcetri dall’altro, fior di stampa e con i numeri di serie consecutivi. Li conservo ancora come una reliquia dei miei diciott’anni: chissà che non abbiano anche un valore numismatico…

 

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sabato 7 maggio 2016

La chitarra

 

Il pomeriggio alle due io e Anna ci ritrovavamo nella saletta dell’albergo che ospitava il televisore. A quell’ora c’eravamo noi due soli, altri amici preferivano riposare o erano già scesi in spiaggia. Ci sedevamo sulle poltroncine rivestite di un tessuto scozzese a base rossa e guardavamo “Saranno famosi”. Restavamo in silenzio, in quella sala abbastanza fresca mentre dalla strada giungevano rumori di gente che si dirigeva in spiaggia.

Lasciavamo che le avventure di Leroy, Doris, Danny Amatullo (il mio preferito) ci prendessero, respiravamo l’atmosfera di quella scuola di New York come se ne facessimo parte, come se toccasse anche a noi organizzare spettacoli, seguire i corsi del professor Shorofsky, dover danzare sotto l’amorevole attenzione della coreografa Lydia.

Poi cominciava la sigla di coda, “Fame”, e ci trovavamo d’improvviso nel nostro mondo, come ridestati da un sogno. Anna prendeva la chitarra e cominciava a pizzicarne le corde, fermava un giro maldestro di accordi: erano gli Eagles di Hotel California e Desperado oppure il Bob Dylan di Blowin’ in the wind, o ancora la semplicissima Canzone del sole di Battisti.

Un pomeriggio intero, finito l’episodio, girammo a lungo per la cittadina in cerca di un ragazzo che le aveva promesso di accordare per sera lo strumento. Stava dalle parti della marina, ma lì ci dissero che forse era al porto, da lì ci indirizzarono a un bar sulla spiaggia dove immancabilmente sarebbe passato. Come Godot lo aspettammo invano e ci trovammo davanti a un falò dopo aver cenato cin un panino e un’aranciata. Anna suonava la chitarra scordata improvvisando accordi e note. Le faville salivano nel buio e io attendevo solo il momento di baciarla.

*

Quel che successe dopo, l’ho rimosso, l’ho dimenticato con facilità, come un ombrello quando è uscito il sole. Del resto succede spesso così con le amicizie estive, nate sotto un ombrellone e proseguite nei locali. Non so perché non le telefonai più, ignoro se in qualche modo la offesi o se la sfiduciai o la stancai: so soltanto che quella nostra corrispondenza all’improvviso cessò e non tentai più di riallacciare quel filo spezzato con Anna.

Eppure quella sera, mentre suonava la chitarra e le ombre disegnate dal falò danzavano sul suo viso, sul suo corpo, la chiave che portava alla sua porta mi sembrava a portata di mano. Ma solo oggi che ho avuto per caso sue notizie, che ho saputo che Anna è un architetto di grido, ripensando a quelle giornate di mare, ho compreso di averla delusa e ferita. Mi accorgo solo oggi di essere fuggito, di averla abbandonata per viltà.

Ora è tardi per poter rimediare: probabilmente avrà annodato il filo a un altro capo, più forte del mio.

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FOTOGRAFIA © MRWALLPAPER

sabato 30 aprile 2016

Guardie

 

Ammetto di essere stato fortunato nel mio anno di servizio militare: i turni di guardia che mi capitarono furono poco più di una dozzina - la mia condizione di caporale responsabile della Delegazione presidiaria mi mise per molti mesi al riparo dei servizi di caserma. Ma non per questo esente.

Ma cominciamo dal principio, cominciamo dal CAR alla caserma Rossi: lì mi toccò, come agli altri, un turno di piantone non armato all’ingresso della palazzina della mia compagnia, la 50°. Ero talmente annoiato che in quelle quattro ore imparai a memoria la Preghiera dell’Alpino stampigliata sul muro. Un’altra volta fui di piantone alle camerate del plotone, il secondo. Lì il tempo passò più veloce perché non ero solo: rimanevano confinati quanti avevano marcato visita e attendevano di essere trasferiti all’ospedale militare. Rimasi a conversare con un gruista di Vipiteno che aveva un’ernia e con il nipote di un famoso compositore trentino che non so nemmeno cosa avesse.

Passato quel mese di maggio, fui assegnato al Reparto Comando, presso la Caserma Bosin, e lì me ne toccarono parecchie di guardie, essendo un “nipote”:  almeno tre prima di partire per il campo estivo e un’altra dopo. Alla Bosin si montava di guardia in due: uno sull’altana, l’altro giù, a camminare lungo la mura di cinta. Dopo un’ora ci si scambiava di posto, dopo un’altra ora si andava a riposare quattro ore sulle brandine nel corpo di guardia per poi tornare fuori a dare il cambio. A tracolla avevamo il fucile, un Garand, e nelle tasche della mimetica un paio di caricatori. Nell’altana, una cabina rotonda di cemento armato sopraelevata, avevamo a disposizione una radio per chiamare il posto di guardia e un faro girevole, posto sul tetto.

Al campo estivo, in quel della val Sozzine, alla periferia di Ponte di Legno, la guardia era soprattutto all’armeria, sita in uno shelter, una specie di container trasportabile con i camion. Mi capitò in una notte di metà giugno, talmente fredda che dovetti indossare maglione pesante e cappello norvegese invece del consueto berretto da stupidi. Una domenica pomeriggio fui più fortunato: mi misero di guardia all’ingresso del campo, in un bunker costituito con i sacchetti riempiti della sabbia raccolta sul greto del torrente che scorreva lì vicino. Vedevo la strada: passavano motorini, automobili, ragazze, gente in bicicletta, e quello era il mio svago mentre maresciallo, sergente, colonnello e maggiore giocavano a carte a un tavolino non molto distante.

Dieci giorni dopo venivo finalmente assegnato alla Delegazione presidiaria e per mesi non fui interessato alle guardie. Fu verso dicembre che mi comunicarono che avrei dovuto sorbirmene anch’io qualcuna - poche vista la mia anzianità di scaglione e il fatto che comunque non avrei potuto abbandonare al suo destino il mio ufficio quando il mio collega era in licenza. Alla caserma Battisti, dove ero aggregato, si montava di guardia in modo diverso: un soldato presidiava il passo carraio mentre il resto della squadra ovvero un autista, un caporale e un soldato, perlustrava a bordo di una jeep il vasto territorio della caserma apponendo una firma ogni ora ad un blocco posto sugli obiettivi da controllare. I turni di guardia duravano due ore ed erano intervallati da quattro ore di sonno. Me ne capitarono tre o quattro prima del congedo. Una domanda facile facile per concludere: visto che il caporale doveva firmare il blocco due volte, quante erano le fermate necessarie per ogni turno? Una, naturalmente: si scendeva nella seconda ora abbandonando il calduccio della jeep e si apponevano due firme con orari diversi...

Quello che non immaginavo allora era che oggi avrei guardato non dico con rimpianto, ma con una dolce nostalgia a quei tempi ormai lontani.


 

Soldati

IMMAGINE DAL FILM “SOLDATI – 365 ALL’ALBA”