sabato 30 dicembre 2017

Il gioco era quello


Nel gioco io mi chiamavo Guy, lei Karla. Le ore passavano lente come i tram che sentivamo sferragliare nella piazza. Ci pareva di essere personaggi di un romanzo di Kundera, persi in un teorema psicologico, avversati dagli avvenimenti. Fuori poteva anche essere Praga e i carri armati sovietici pronti a sparare sulla folla della rivoluzione. Oppure la vivacità di Parigi, il bianco e nero delle fotografie di Doisneau, di Cartier-Bresson, di Ronis. Bambini con la baguette sotto il braccio, innamorati allacciati sui ponti della Senna, mercatini sui boulevards. O ancora la banale tranquillità della Svizzera, bandiere quadrate e laghi che riflettono un cielo di cobalto.

Sedevamo lì con le nostre facce stropicciate, la luce esterna colava nella stanza come un fluido grigio. Probabilmente tra poco sarebbe scesa la pioggia, se ne avvertiva l’odore di umido e foglie. Ogni tanto dicevamo qualcosa – il gioco era quello – e le parole si disperdevano rimbalzando sui muri, o forse attraversavano le pareti e si scioglievano liquide nell’aria, svanendo per la tromba delle scale, per il balcone dove i pini nani e i vasi di erbe aromatiche contendevano al cielo il poco ossigeno cittadino. Di tanto in tanto ci guardavamo negli occhi – il gioco era quello – con innocenza, con indecenza. Le pupille che si sfioravano erano magneti dello stesso polo, subito si allontanavano per ricercare altrove un punto di vista: il grande dipinto con un vaso di fiori dal quale traboccavano rose e i petali si disperdevano su una tovaglia di stoffa indiana, il soprammobile di ferro battuto che raffigurava un airone, le poltrone di stoffa cremisi, il vaso di cristallo dove smorivano sette tulipani gialli e i riflessi nell’acqua disegnavano piccole iridescenti stelle.

Io, “Guy”, riuscii a dire: «Karla, sei come un rapace notturno che mi impedisce di dormire, sei il grido della nottola che mi sveglia e infrange i miei sogni». Lei, “Karla”, rimase sorpresa, arricciò le labbra prima di rispondere che lo sapeva, che questa è la condizione della vita e che se mi sembrava crudele, ebbene avrei dovuto farmene una ragione. La sua voce era un’armonia anche mentre diceva – il gioco era quello – parole spiacevoli. Il passo successivo era una porta chiusa, un volo di colombi spaventati da una presenza. Ma ancora restavamo lì nella stanza calda. Il mio cappotto, quello di Guy, rimaneva posato sullo schienale di una sedia, ripiegato come una tovaglia da usare di lì a poco. Le mani di Karla sbriciolavano un biscotto rimasto sul piattino, indugiavano come la padrona di casa, si crogiolavano nel tormento di un addio. «Adesso è ora che tu vada» disse dopo un tempo che sembrò interminabile. Il suo viso tradiva l’emozione, una lacrima nasceva sull’orlo della palpebra. Pietà, bontà, dispiacere, rimorso. Chissà che cos’era…

Il cappotto si spiegò come le ali di un corvo, fu sulle spalle. Milano ingrigiva come la Parigi di Doisneau, la pioggia ora scendeva copiosa sugli ombrelli, sulla spalletta del Naviglio. Guy si incamminò con le mani in tasca e il bavero rialzato. Vincitore o vinto? Felice o infelice?


2009


Kertész

ANDRE KERTÉSZ, “CHEZ MONDRIAN”, PARIS, 1926




sabato 9 dicembre 2017

All’imbrunire


Come un'apparizione lei si mostrò sorridente nel suo vestito rosso, più intimidita da me di quanto io non lo fossi da lei. E osai, l'abbracciai cingendole la vita. La sua bellezza era in balia di me, indifesa. In un sussurro sospirò e chiese silenzio, si mise attenta ad ascoltare fuori e si divincolò dall'abbraccio, l'ardore e la furia in noi lentamente scemarono. Eppure tutto era così naturale fino a che il suo braccio sinistro non lasciò il mio braccio destro.

Sul suo volto nel silenzio spuntò un rossore come un nuovo sole a colorare l'alba: fuori non c'era nessuno, solo la sua timidezza. E con un balzo allora lei decisa la superò sapendosi così, con la volontà l'umana debolezza saltò a piè pari con un atto di coraggio. Tornò tra le mie braccia mormorando una frase di scusa e sentivo il suo corpo vivere nel cesto del mio petto, pulsare nel suo seno, prendere vita dalle narici e dalla bocca vivere.

Alla finestra silenziosa, dove prima quel rumore o quell'allucinazione in qualche luogo avvenne o si mostrò, imbruniva; la sera sopra i monti colava come vernice male amalgamata nei colori; nella stanza in compenso la luce naturale sempre più calava ma lei non volle accendere la luce artificiale, neppure un’abat-jour o una candela.

Così non si vedeva quasi nulla più se non una concessione di un quarto di luna quando lei tolse l'abito rosso e scoprì le gambe mentre tentavo di abituare gli occhi al buio come un gatto o qualsiasi rapace notturno, per distinguere in lei almeno il volto. Ogni suo gesto risaltava così dal movimento e nell'intuito si moltiplicava, di lei sapevo quel che ricordavo.


1994


Abbraccio


sabato 21 ottobre 2017

In Via Francesco Crispi


Risalgo i miei ricordi oggi, ripercorrendo questa strada che dalla stazione porta alla scuola dove in anni ormai lontani frequentai il liceo. È un viaggio nello spazio, su questa strada lastricata in modo differente da allora, tra alberi che non sono gli alti ippocastani, tra negozi che non potevano neppure esistere. Ed è un viaggio nel tempo, un retrocedere nella memoria: quella ragazza che attende al semaforo di Piazza Guglielmo Marconi potrebbe essere Marta, che studiava alle Magistrali e prendeva il mio stesso treno.

Così ogni vetrina, ogni portone, mi dice qualche cosa di nuovo, ogni chiesa immutata, ogni palazzo, come quello che ora è stato violentato dall'insegna ad archi gialli di Mac Donald's. Il tempo è passato. Tanto tempo, tanta acqua sulle pietre di questa città, tanti giorni di sole. Ma il presepio da cartolina rimane appollaiato dietro Porta Nuova con le sue cupole e le sue case di stile veneziano.

La signora dell'edicola all'incrocio con Via Paleocapa non c'è più: a darmi il resto c'è un ragazzo. E pizzerie da asporto e gelaterie hanno preso il posto delle librerie. La mia memoria sa ricostruire ancora questo puzzle: sembra prendere maggiore confidenza con la città ad ogni passo. Sa dirmi cose che neanche credevo di ricordare, lo scherzo di Carnevale alla "Boutique del pane", la neve che cadeva nei giorni in cui si consumava il colpo di stato polacco e la compagna di Wroclaw pensava agli amici lontani e mi parlava accorata camminando per Viale Papa Giovanni XXIII dalle parti di Santa Maria delle Grazie.

Questi mutamenti intervenuti, l'edicola scomparsa nel passaggio tra Porta Nuova e il Sentierone, il parco giochi sorto dove una ruspa chissà quando ha demolito vecchi muri, il palazzo comunale lucidato a nuovo, mi dicono con una sorta di dolcezza, con un lieve pudore, che se il mondo è cambiato, se la città è cambiata, anch'io naturalmente non sono più il ragazzo che ero, quello che camminava con la borsa piena di libri e molti più capelli sulla testa. Senza astio, mi pongono davanti agli occhi tutte le speranze e le illusioni che coltivavo allora, i sogni che mi accompagnavano mentre percorrevo questa stessa via. Non mi dicono "Confronta", non esigono un'analisi: mi dicono soltanto che tutto passa, che il tempo scorre inesorabile come un fiume.

Ma non lo sanno che li ho fregati, perché, quasi arrivato alla Rotonda dei Mille, in Via Francesco Crispi, come allora, adesso io sto pensando a lei.


2008


Crispi

FOTOGRAFIA © L’ECO DI BERGAMO

sabato 7 ottobre 2017

Un lampo


Me ne stavo andando tranquillo per Corso Vittorio Emanuele, guardando le vetrine e godendomi la brezza tiepida di primavera, odorosa di nuovi fiori anche nel centro di Milano. All'improvviso, tra la gente noncurante del primo pomeriggio che passeggiava come me, tra i turisti giapponesi con la macchina fotografica a tracolla e quelli americani in maglietta e sandali, tra gli impiegati delle banche che rientravano dalla pausa pranzo, apparve come un lampo.

O piuttosto è meglio dire che nella mia testa, nel mio cuore, nella mia anima, in qualche parte di me preposta alla funzione del ricordo e della memoria, in qualche sperduta e remota sinapsi, si accese una lampadina - potei sentire quasi lo scatto dell'interruttore, la piccola leva che apre le porte del tempo e consente di valicarle per un attimo solo.

Ed era lei che aveva acceso l'interruttore, quella donna che avevo incrociato qualche istante prima, nella gente anonima del Corso: era lei che camminava sul filo del ricordo, e che mi aveva condotto a percorrere in equilibrio instabile quella lama sottile ed affilata: una donna con le scarpe basse ed il cappotto chiaro, i capelli castani dai riflessi dorati sciolti sulle spalle, una borsetta di pelle nera a tracolla. Lei, la giovane donna che mi aveva rubato il cuore in un'estate lontana, che mi aveva portato fuori dall'adolescenza sul passo di un amore leggiadro e travolgente.

Ma quel lampo, proprio come una saetta nel cielo notturno di un temporale d'estate illumina per un tempo troppo breve la realtà circostante, fu infinitesimo: lo spiraglio aperto come una breccia nelle mura sterminate del tempo, la tentazione di voltarmi e fermare la donna, di verificare se davvero fosse lei, di rinverdire i ricordi seduti al tavolino di uno dei tanti caffè disseminati sotto i portici.

Dominai quel capriccio, con la ragione mi convinsi che non poteva essere lei, lì a Milano, in quel preciso momento; che la coincidenza era assolutamente improbabile, qualsiasi matematico mi avrebbe potuto dimostrare con estrema facilità che la combinazione statisticamente avrebbe potuto calcolarsi in miliardesimi.

Fu così che, razionalmente, ebbi la meglio sul desiderio, sull'illusione. Fu così che frenai i destrieri bianchi della fantasia, già smaniosi di lanciarsi in un galoppo sfrenato nelle lande del sogno: non era lei, neanche le somigliava. O no?

2009


Milano

FOTOGRAFIA © ABOUT MILAN

sabato 30 settembre 2017

La falena


Dopo giorni spazzati da un vento quasi autunnale e bagnati da una pioggia monotona e grigia, giorni inusuali per il mese di giugno, è finalmente scoppiata l’estate e subito il caldo, umido e appiccicaticcio, ha preso possesso delle nostre stanze come un ospite che giunga ad un hotel. Non si respira. Apro la finestra per vedere se qualche refolo di vento possa alleviare l’afa.

Toc. Dal bordo superiore dell’anta è caduto qualcosa con un tonfo sordo: è una falena. L’ho riconosciuta per quei suoi colori anonimi, adatti per la notte, quando, in assenza di luce, non servirebbero le vesti sgargianti di altre farfalle, come la Rhodocera Rhamni o la Zygaena Carnidica, l’una gialla, l’altra rossa e verde, o il famoso Papilio tanto caro a Gozzano, arabescato di nero e giallo con due vezzosi occhi rossi sul bordo inferiore delle ali.

Dovrei raccoglierla quella falena, metterla in un luogo buio e fresco. Ci vorrebbe una cartolina… Nel portacarte sulla scrivania ce ne sono diverse. Una cartolina di Gubbio, chi l’avrà scritta? L’inchiostro è sbiadito, a tratti svanisce, parte dell’indirizzo già non è più visibile, si può ricostruire seguendo il tratto di pressione della penna a sfera. Oh, l’ha scritta lei!

Raccolgo la falena rimuginando sulla cartolina, l’emozione del ricordo quasi mi travolge, come se un colpo violento mi fosse stato sferrato in viso, barcollo un istante solo. Colloco la falena tra le ortensie, in un angolo fresco e buio del giardino.

Torno ad osservare la cartolina: “Qui è bellissimo!” dice la scrittura inclinata sulla sinistra, “Bacioni” e segue quel nome che fu un universo nei giorni di anni che allora definivo “d’oro”, forse presagendo un rimpianto quasi oraziano.

E come sbiadisce e svanisce la scrittura di lei, così sbiadisce e svanisce in me il suo ricordo: lasciato al sole di troppe estati, lentamente mi si cancella dall’anima.


1994


Farfalla

sabato 23 settembre 2017

Un reduce


Da una risma di carta, tra fogli bianchi e altri, scritti per metà con vecchi pensieri e antichi endecasillabi, è spuntata per quell'incanto di cui è capace solo il tempo una tua vecchia fotografia. È un campo lungo della spiaggia: tu, in primo piano, seduta su una sdraio coperta da un asciugamano rosso in una fila di ombrelloni. Dietro si scorge il bagnino con la sua maglia a righe, più oltre, dopo altri bagnanti, il mare di un azzurro quasi grigio sotto il cielo sereno. Hai i capelli stranamente liberi sulle spalle - di solito invece li raccoglievi con un elastico - e sembri una vestale o una qualche divinità del mondo classico. Indossi un bikini chiaro, bianco, con dei piccoli disegni, e con il piede destro giochi a scavare onde nella sabbia, che poi ricomporrai. Io naturalmente sono il fotografo, come sempre: il mio occhio è dietro l'obiettivo per tentare di fermare il tempo, di strappargli a morsi infinitesimi brandelli da sottrarre all'oblio. Ci sono riuscito, se adesso resto basito a guardare questo rettangolino di carta lucida che mi dice di te più di quanto possa fare l'ultima diavoleria tecnologica.

Dopo trent'anni mi sorprende quella somiglianza con tuo padre che allora non notai: la bocca, gli zigomi sono l'eredità paterna, da tua madre hai preso il carattere e quella facilità nel comunicare con il mondo che a me risulta invece così difficile. Avrai avuto sedici anni allora, diciassette forse. Io, di un anno più anziano, badavo alla tua esuberanza, al tuo corpo che cresceva e che sentivo vivo pulsare e respirare accanto a me nei lunghi pomeriggi, nelle serate di musica e di bar, nelle notti di lune e di stelle.

Penso a Properzio, il poeta latino e a Cinzia, la sua amata: "Cinzia fu la prima, Cinzia sarà l'ultima...". Prendo il libro blu delle sue elegie nella mia biblioteca, cerco il passo che questa tua fotografia mi ha riportato alla mente: "Non sono più per lei quello che fui: un lungo viaggio muta le fanciulle, quanto amore in breve tempo si disperde!". Eccolo lì, è proprio vero: il viaggio in questo caso è il tempo, ma il risultato non cambia. Non sono più per te quello che fui. Trattenendo nelle mani questo simulacro, questo brevissimo istante scolpito nella mia memoria, mi sento come un reduce che torni da una lunga guerra, dopo migliaia di chilometri, con i vestiti laceri e le armi smarrite: trova il suo mondo cambiato e lo osserva sgomento.


2010


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KAZUYA AKIMOTO, “DONNA DISTESA SU UNA SPIAGGIA”

sabato 16 settembre 2017

Un silenzio


Un silenzio, breve, improvviso, forte come un urlo, quasi che il tempo si fosse fermato. Nessun motore rombante, nessun clacson, non fischietto di vigile o scrosciare di laterizi a frantumare l’aria, né un canto d’uccelli o un sibilo di sirena. Un istante non misurabile, non qualificabile: un miliardesimo di secondo, un decimo, un paio, tre o quattro.

Mi sono voltato e lei era lì pressante come un desiderio, immobile nella folla ora in movimento, impegnata a percorrere la via come un fiume di formiche. E hanno sporte da cui fuoriesce verdura o bastoni di pane, borse della spesa o da lavoro. La differenza è che le formiche possono portare anche il doppio o il triplo del loro peso.

Era lì, con il suo vestitino a fiori, lungo appena sopra il ginocchio, le maniche corte, la pelle non ancora abbronzata, una peluria dorata quasi invisibile, come quella sulla buccia delle pesche. E mi sorrideva. Da un lontano ricordo ancora mi sorrideva. Ed era quella di allora, intorno ai vent’anni. La memoria certo non sa se si è tagliata i capelli e quali rughe si disegnino sul suo bel viso. Non sa quello che le ha fatto il tempo.

L’altro giorno alla televisione ho visto quell’attrice che le somiglia, avrà qualche anno più di lei: l’ho riconosciuta subito ma ho stentato a credere che la ragazza che ricordavo in un film sull’America fosse la signora bionda seduta sul divano di un talk-show. La sua faccia era gonfia, come se usasse del cortisone, la rosa che ricordavo turgida ha preso ad avvizzire. Lei invece no, lei come nel ricordo improvviso mi si è parata in una strada cittadina gonfia di traffico e del viavai di un mercato rionale.

Lei no. Apparsa improvvisa alle mie spalle evocata da un silenzio, chiamandomi con un’assenza di suoni per poi sparire tra la gente quando il tempo - così mi è sembrato - ha ripreso a correre e ho proseguito la mia strada senza più cercarla.

2008


Brown

TOM BROWN, “THE HUM OF THE CITY”

sabato 9 settembre 2017

Lettera da Vega


Caro JKPH28-LK321,

i miei vicini astrali sono un vero tormento: fanno un rumore insopportabile tutto il giorno. Già al mattino, verso l'alba, nella pallida luce planetaria, il ragazzo esce per andare alla scuola siderale: accende la motoastronave e la lascia rombare per tre minuti stellari buoni prima di partire strombazzando con il clacson termomicrofonico. Per tutto il pomeriggio il nonno, un astrotrasportatore in pensione, rompe i timpani potando la vegetazione, i cristalli di rocca, la foresta di pietra con la motosega dai denti di diamante e tosando a giorni alterni il prato di bauxite con la levigatrice autotermodinamica.

Le comari si radunano almeno tre volte al giorno e ciarlano a lungo vociando e squillando attraverso l'altoparlante della tuta. Evidentemente il loro impianto microfonico è regolato su un livello di hertz molto alto, come quando parliamo con un sordo e dobbiamo aumentarne il volume.

Per non parlare poi dei tre cani elettronici che abbaiano in continuazione a tutto: un passante, un venditore spaziale porta a porta dell'enciclopedia plutoniana, uno stormire di fronde, un visitatore occasionale...

Il padre fortunatamente lavora su Altair, ma nei lunghi week-end contribuisce del suo fresando e alesando, saldando e tagliando, martellando e inchiodando: per hobby costruisce di tutto, dalle astronavi ai canestri autosospesi per giocare al basket antaresiano, e lo fa a lungo e con foga. Logicamente i figli, quello della motoastronave e l'altro, che la madre chiama in continuazione con l'altoparlante di Bell, giocano rumorosamente con il canestro antaresiano o si sfidano a chiassose partite di calcio uraniano o di baseball galattico, dove si deve colpire con la mazza di titanio una biglia d'acciaio venusiano.

Ma presto risolverò il mio problema... No, non ti allarmare, non ho deciso di sterminare l'intera famiglia con la bomba X o con del potente veleno per iguanodonti di Proxima Centauri: ho solamente prenotato un impianto di vetri antirumore, quelli lavorati con il bismuto, e prossimamente i tecnici verranno ad installarli.

Da Vega ti saluto con affetto

tuo affezionatissimo XCGH21-KL987

18 marzo 3031


Vega

IMMAGINE DA “SPACEFLIGHT NOW”



sabato 2 settembre 2017

I lettori di poesie

Per scrivere una lettera commerciale occorre essere chiari, lineari, esporre i fatti essenziali e in un linguaggio quanto più possibile scarno ma preciso. Inutile gonfiarla con ridondanti barocchismi, costruire arzigogoli di periodi che si incastrano e si ingarbugliano in se stessi, abbandonarsi a un’enfatica retorica fuori luogo.

Così è la poesia: deve soltanto indicare la strada al lettore, porgergli gli elementi essenziali alla sua comprensione, un po’ come certi problemi matematici che spetta all’allievo poi risolvere e dimostrare. Prendiamo “Mattina” di Giuseppe Ungaretti: “M’illumino / d’immenso”. Tocca a noi che la leggiamo ricostruire tutto quello che ruota attorno ai versi, la giornata di sole, il cielo che si allarga in un orizzonte infinito, la luce che colpisce il volto e via di seguito fino a scoprire la sensazione che ha originato quei sintetici versi.

O ancora come quei detersivi concentrati che si vendono adesso: la poesia è quel denso liquido blu nella bustina, l’acqua che si aggiunge nel recipiente per diluirlo è l’esperienza del lettore: sono i suoi giorni passati, le sue vicissitudini, lo stato d’animo del momento, i ricordi, il carattere. Cito spesso il Premio Nobel messicano Octavio Paz: “Ogni lettore è un altro poeta; ogni testo poetico un altro testo”. Leggendo una poesia, oltre a udirne il suono e a figurarci le immagini che essa presenta, eseguiamo un esercizio poetico: siamo noi stessi poeti, adeguando a quelle immagini le nostre immagini. Se si dice “mare” è magari quello della nostra ultima villeggiatura, se si dice “amore” è la nostra amata/il nostro amato a cui pensiamo. È ancora Octavio Paz a parlare: “Il testo poetico deve provocare il lettore: costringerlo a udire, a udirsi”. Così entriamo nella poesia, indagando nel nostro profondo, e la rivestiamo con le nostre emozioni. E probabilmente, più l’emozione si avvicina alla nostra, più giudichiamo bella la poesia…

2010


Deineka

ALEXANDER DEINEKA, “GIOVANE DONNA CHE LEGGE”


sabato 26 agosto 2017

Il vecchio contadino


Il vecchio si chiama Piero, ma tutti lo conoscono come Luigi. Ha il suo pezzo di terra dietro la casa, un tratto in salita baciato dal sole e dall'aria del lago; dietro si distende il bosco dove ogni tanto va ancora a cacciare. È un ometto curvo, dotato però di una forza straordinaria e di una grinta che gli anni - quasi novanta - non hanno intaccato di un millimetro. Sotto i baffi indecisi tra il bianco e il rossiccio si apre una bocca che taglia il silenzio con i suoi giudizi precisi e affilati, con parole che non vengono sprecate, ma vanno diritte al centro del bersaglio.

Ora sta cavando i porri con la vanga, al sole tiepido di primavera. "Li prenda", mi dice mescolando italiano e dialetto, senza troppo insistere, "tanto li devo togliere comunque per le nuove coltivazioni, altrimenti li devo buttare via". Capisco che devo accettare, per non offenderlo, e lodo la grossezza ed il profumo di quei porri che ora sta pulendo con il falcetto: dà un taglio netto al culmine delle foglie, poi con un movimento circolare e aggraziato leva le barbe delle radici. Quando li ha mondati tutti, ne fa un grosso mazzo e li lega con un ramo di salice. Mentre me li porge, sorride.

Davanti a un bicchiere di vino rosso, e poi a un altro e a un altro ancora, fumando di tanto in tanto il suo mezzo toscano, mi ha raccontato dei suoi vecchi e nuovi dolori. Il tempo scorreva lento, sulla strada oltre l'orto passavano le automobili e le motorette della domenica pomeriggio. Lontano potevo vedere la breva sollevare minuscole onde sullo specchio grigio-azzurro del lago.

Luigi ha fatto la guerra di Russia, e prima ancora è stato nel fango dell'Albania, della Grecia e del Montenegro. Ha visto i muli sprofondare nella melma, le navi italiane bombardate tra Brindisi e Durazzo, le trincee scavate nel gesso in riva al Don, gli amici sfiniti fermarsi a morire nel ghiaccio. Nelle isbe della steppa ucraina ha conteso agli odiati tedeschi quel poco di calore nella notte e negli orti esultava per una vecchia buccia di patata o per un torsolo di cavolo. A Nikolajewka, dopo giorni di marcia nel gelo, è riuscito a passare di là del ponte della ferrovia e a ritrovare la libertà, la strada per l'Italia, a prezzo di sacrifici inenarrabili.

E con la pace ha trovato una moglie e poi i figli e un lavoro alla fornace. Gli anni sono trascorsi e ora la moglie è morta e sui figli non può più comandare, non capisce neppure come ragionino, non sa capacitarsi di tutte quelle liti per la casa e i terreni.

Però quando è qui, nel suo campo sulla collina dalla terra buona e scura, con i boschi dietro e lo scintillio del lago davanti, seduto tra il cielo e l'acqua come adesso, mentre fuma e guarda le piante crescere al sole di primavera, ritrova la felicità, quello che vagheggiava negli interminabili giorni nel gelo ucraino, tutto quello per cui ha resistito e continuato a marciare, passo dopo passo, chilometro dopo chilometro, verso il ritorno.

Guarda il rosmarino che ha piantato a ridosso del vecchio muro di pietra soltanto stamattina: "Farà alla svelta a coprire il muro: cresce in fretta il rosmarino..."


2009


Snug

ALEX JAKDOKIMOW, “THE SNUG”



sabato 12 agosto 2017

La passione per il cinema


In quel periodo mi appassionai al cinema: andavo all'Ariston, all'Odeon, talvolta - la domenica pomeriggio o anche il sabato - a Bolzano. Comperavo tutti i mesi la rivista Ciak e mi tenevo al corrente delle ultime uscite.

Alberti mi fece sapere che allo School Village avevano organizzato un cineforum per ottobre e novembre e ci iscrivemmo. Ci andavamo la sera e, se avevamo tempo, ci fermavamo in un bar lì vicino per bere un caffè o una birra prima di tornare in caserma. Così ci gustammo "Ultimo minuto" di Pupi Avati, "Good Morning Babilonia" dei fratelli Taviani, "Quartiere" di Silvano Agosti, a dire il vero un po' complicato, "Cartoline italiane" di Memè Perlini, spendendo meno che per il cinema propriamente detto.

All'Ariston vidi "Arancia meccanica" con Miglio, che poi chiese al gestore la locandina, "Good Morning Vietnam", "Attrazione fatale", "Scuola di polizia 5" giusto per ridere un po'. All’Odeon, su verso Maia Alta, presso la pizzeria Arcadia e il giardino botanico, quando non c’erano i porno davano ottimi film, come il lungo "L'insostenibile leggerezza dell'essere" o "Frenesie militari" o ancora "Chi protegge il testimone". A Bolzano scendevamo con il treno nel sole dei campi di mele e l'Adige era un ribollire di specchi rotti. Giravamo un po', poi entravamo nel cinema e, usciti, andavamo in una pasticceria sotto i portici a fare quattro chiacchiere con una cameriera. Vedemmo "Il piccolo diavolo", "Il principe cerca moglie", "Donne sull’orlo di un esaurimento di nervi" di Almodòvar, il divertentissimo "Chi ha incastrato Roger Rabbit?", "Bull Durham".

La passione per il cinema mi durò fino all’estate successiva, quando al mare, in un cinema all'aperto, vidi ”Rain Man" e qualche altro film che neppure ricordo. Quella passione se n’era andata con l’anno di militare.

Ottobre 1995


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FOTOGRAFIA © CLASSIC CINEMA SCHOOL


sabato 5 agosto 2017

Un caldo assurdo


Fa un caldo assurdo. Ci sono 35 gradi e un’umidità da sud-est asiatico. Ricordo un’altra sera calda così, molti anni fa, in una località di mare. Sedevo al tavolino di un bar con gli amici. Davanti avevo un enorme bicchiere di vetro con una granita al lampone e grondavo di sudore, i capelli che allora portavo più lunghi si arricciavano sul collo e sulla fronte. Tra una partita e l’altra a scala quaranta discorrevamo di noi e delle nostre vite, ci ragguagliavamo sulle amicizie comuni. Succede così a chi si ritrova soltanto una volta l’anno. La sera era caduta presto, era già agosto come adesso, e una mezza luna velata dall’afa splendeva giallastra in un cielo che aveva anch’esso il sapore del caldo.

Il mio ingenuo sogno d’amore si era infranto ormai da qualche giorno, giaceva a pezzi da qualche parte sul litorale, dove avevo visto la mano di lui sospingere dolcemente la schiena di lei ad un passaggio, come se volesse in quel modo sottolinearne la proprietà – allora almeno lo interpretai così, in realtà ora lo vedo come un gesto romantico, una cura, ma si sa che agli occhi innamorati ogni cosa appare sotto una lente deformante.

Il risultato fu però che divenni abulico, che spesso mi distraevo e gli amici dovevamo invitarmi al gioco: «Cesare, Tocca a te». Il fatto era che l’avevo assediata a lungo, che l’avevo rincorsa come s’insegue un sogno, pedinando il suo vestito azzurro lungo le vie della sera, perdendola e ritrovandola. Il fatto era che io non conoscevo di lei che l’esteriorità che mi proponeva. Come quella volta che, attraversando il sentiero nella pineta senza secondi fini, in mezzo a quei residence isolati, con sorpresa di entrambi lei pose la mia mano sul suo seno. Eppure, nessuno parlava al suo cuore come facevo io, anche quando restavo zitto mentre guardavamo le stelle la notte in spiaggia. E ora mi ritrovavo ad amare di meno, ad amare come un uccello in gabbia, che canta selvaggio solo perché straziato, ricordando i voli sulle rose e sui verdi prati. Mi ritrovavo come Catullo ad amare di più ma a voler bene di meno…

Fa un caldo assurdo stasera. Ci sono 35 gradi e i ricordi di certo non giovano. Accenderò il ventilatore.


Ventilatore

FOTOGRAFIA © COUNTRY LIVING

sabato 29 luglio 2017

I riti del Presidio


Durante l'anno di servizio militare ero scritturale alla Delegazione Presidiaria, prima nota come Presidio in quanto indipendente dall'analogo ente di Bolzano. Il primo mese avevo un collega più anziano; quando si congedò dopo un mese in cui rimasi solo, mi affiancarono un alpino appena uscito dal Car. Gli insegnai i riti che vigevano da chissà quanto in quell'ufficio, come me li aveva insegnati l'alpino dello scaglione più avanzato.

C'era ad esempio una specie di gioco dell'oca ricavato da una scatola di carta per ciclostile - un rettangolo largo il doppio della sua altezza: non c'erano i classici numeri, ma quelli da 350 a 1 e quell’uno era un’alba radiosa, ovvero contava i giorni che mancavano al congedo. Le pedine - solo due - erano bandierine triangolari di colori diversi incollate a uno spillo: ogni mattina aprivamo il cassetto dove era riposto e spostavamo avanti di uno il nostro segnalino.

In un armadio, attaccato con del nastro adesivo ad un'anta metallica, c'era l'elenco di tutti gli scritturali che erano passati di lì - una ventina d'anni mi pare di ricordare, quindi circa quaranta nomi cui aggiunsi anche il mio con annessa firma e cui feci aggiungere il nome del mio nuovo collega. Quella che si poteva in qualche modo definire la "stecca" di quell'ufficio.

Avevamo poi il timbro con la dicitura "Annullato" e alle cinque di sera (il mezzogiorno del sabato) stampigliavamo sul calendario in inchiostro rosso a fianco del giorno appena trascorso un "Annullato". Era un giorno di meno a separarci dalla libertà, era la valvola di sfogo che ci permetteva di tirare avanti. Così spegnevamo le luci, chiudevamo l’ufficio e andavamo a prepararci per uscire pregustando la libertà di giorni futuri.

Ottobre 1992


sabato 22 luglio 2017

Al crepuscolo

La sera cade sui monti come un mantello di luce che li veste a lungo in un gioco di riflessi e di colori che sfumano sempre più fino al crepuscolo. Sulle Dolomiti c’è addirittura un termine per indicare il variare dal rosa al rosso al viola del cielo sulle particolari rocce formate di dolomia, la “enrosadira”. È un lungo tramonto che non vuole mai finire: il tempo sembra improvvisamente fermo, così nella memoria l’attimo si è cristallizzato e illumina con la sua luce.

Sono sempre stato affascinato dai tramonti, dai crepuscoli – è la mia anima romantica, mi ha detto una volta un’amica, che si avvolge nell’ultimo sole: in queste giornate che non vogliono morire mai rimango a lungo a guardare la luce svanire lentamente sulle colline brianzole, che da verdi diventano viola e poi blu. È al crepuscolo che ci si isola, che si ascolta la natura, che si prova ad entrare in sintonia con l’universo. Quella magia, quella poesia, ci riempiono di una serena armonia e anche noi, come il viaggiatore che inizia la sua marcia notturna nel deserto, siamo pronti a continuare il cammino.


2012


QC/Retouched by CWL

FOTOGRAFIA © KLAUS NIGGE/NATIONAL GEOGRAPHIC

sabato 15 luglio 2017

In treno


Il pittore, quando nota un viso interessante, un paesaggio, una veduta che in qualche modo lo attraggono, li ritrae, li disegna, li schizza per fermare l'immagine nel ricordo. Così fa anche il poeta, che invece dei colori, del carboncino, della matita, usa le parole, le rime, le immagini retoriche.

Così faccio ora io, seduto comodo e al calduccio mentre il treno mi porta in città: tento di descrivere la giovane donna che, seduta nell'altra fila di sedili, in diagonale a me, ha attirato il mio sguardo distraendolo dalla corsa delle campagne, delle case e delle stazioni dietro il finestrino.

La ragazza ha capelli d'un castano chiaro, il colore del malto, del grano maturo, che, scendendo sulle spalle, le incorniciano il viso pulito, regolare. Sul viso spiccano gli occhi verdi, un verde anomalo, il verde delle mele, dello stesso colore del gilé che indossa sopra la camicetta bianca. Con la mano destra, forse inseguendo i suoi pensieri, forse per noia, tormenta rumorosamente la vistosa collana d'ambra. E la mano è affusolata, mano da pianista, bianca e liscia. Le lunghe gambe, in comodi pantaloni di lana color sabbia, le tiene distese sotto il sedile di fronte...

Siamo arrivati. La ragazza indossa il cappotto, prende la sua borsa e svanisce come un’ombra davanti ai miei occhi infilando il sottopassaggio.

17 novembre 1992


EDWARD HOPPER, “SCOMPARTIMENTO C, CARROZZA 293”

sabato 8 luglio 2017

Dove comincia il viaggio

“La carta geografica, insomma, anche se statica, presuppone un’idea narrativa, è concepita in funzione d’un itinerario, è un’Odissea”. Così scriveva Italo Calvino nel 1980 su “Repubblica”, nell’articolo intitolato “Il viandante nella mappa”, poi raccolto in “Collezione di sabbia”.

È lì che comincia il viaggio, da quella pianificazione sulla carta, dal momento in cui la spieghiamo su un tavolo abbastanza ampio e cominciamo a familiarizzare con i nomi, a seguire strade e fiumi, a orizzontarci, a scoprire luoghi da visitare. Il viaggio è già tutto lì, in quella ipotesi, in quel dire “Qui dobbiamo assolutamente andare” o “Questo è un edificio da visitare”. Già l’itinerario si costruisce, i toponimi si insinuano nella mente, spilli invisibili si puntano su quella mappa.

Per noi, in quel momento, è come se la carta geografica fosse in scala 1:1, come nel racconto di Borges in cui la mappa di carta si sovrapponeva perfettamente all’Impero cinese. Siamo i viaggiatori e ci trastulla quel passatempo infantile. Siamo i sognatori che, senza muoversi da quell’ampio tavolo dove abbiamo posato la carta, già volano a inseguire la meta, leggeri come un palloncino.

2008


FlightPlan

ROB GONSALVES, “PIANO DI VOLO”


sabato 1 luglio 2017

La bellezza


"La bellezza smentisce la tristezza," scrisse un giorno Ghiannis Ritsos "il coraggio, la follia di sperare, il rischio radicale è in fondo la lotteria dei poeti, questi eterni inconsolabili consolatori del mondo".

Ma cos'è la bellezza? Un dizionario potrebbe rispondere "ciò che è fonte di piacere estetico" oppure "ciò che suscita un'attrazione fisica e spirituale". Un filosofo potrebbe identificarla con la perfezione universale o con l'idea di Dio - Aristotele, per esempio, citato da Diogene Laerzio. Un esteta come Oscar Wilde direbbe che è il simbolo dei simboli, una categoria fine a se stessa che si lascia contemplare dagli eletti. Altri potrebbero legarla a una "manifestazione di arcane leggi della natura", è il caso di Goethe; o ancora alla verità, come per Keats, o alla bontà, come nell'indissolubile legame degli antichi Greci tra etica ed estetica, sfociato nel mito dell'eroe bello e buono, καλός κ΄αγαθός.

Bello è allora ciò che è sublime? C'è una bellezza oggettiva negli occhi e nelle orecchie degli uomini e delle donne? Se dico che la musica più bella è l'Aria sulla quarta corda di Bach, una ragazzina non potrebbe smentirmi dicendo che per lei bella è la musica dei Tokio Hotel? E un fanatico di heavy metal non direbbe che belle sono le canzoni degli Iron Maiden? "La bellezza delle cose esiste nella mente che le contempla" diceva il filosofo scozzese David Hume. Non diciamo noi stessi abusando di un luogo comune, che "non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace?". La bellezza è, ancora una volta, l'emozione.

2008


La nascita di venere

SANDRO BOTTICELLI, “LA NASCITA DI VENERE”



sabato 24 giugno 2017

Il superstite lupo di mare

Il sole è un ombrellino rosso ormai ad Occidente, laggiù oltre le case, dove lambisce i monti rarefatti dalla calura del giorno d’estate. La gente è rincasata, sento rumore di stoviglie dall’altro lato della strada, bambini giocano in un cortile. Ci si riposa dal viavai della giornata, si cerca il sollievo di quel refolo di vento che infila le finestre.

In questo crepuscolo, in virtù di un anniversario che un tempo era importante e ora che un’altra compagna condivide i miei giorni è assolutamente vano e insignificante, come il Gozzano del Convito “m’è dolce cosa convitar le poche donne che mi sorrisero in cammino”. In realtà adesso è una soltanto la donna che rievoco, P***. Davanti a questo carnato del cielo, seduto con il mento sulle mani, ripercorro tutti i nostri incontri dal primo casuale all’ultimo cercato e dentro i flutti della memoria naufrago. Eccola lì, come in un dipinto di Vettriano, altera e sicura, dirigere l’orchestra delle emozioni e delle cose – era apparsa come una Madonna nel mezzo della strada assolata dopo un repentino temporale, forse era il vestito azzurro a dare quella sensazione, forse l’amore come la bellezza è già insito negli occhi di chi guarda.

Eccola lì turbarsi delle mie incertezze, rendere burrascoso il mare e la mia barchetta in esso a navigare. E ancora quella sera gialla di gelosia e tradimento, bella, bellissima con lui alla rotonda sul mare, allacciati danzavano frantumando i miei specchi – vagai per ore senza riuscire a stemperare la tristezza. Eccola ancora l’ultima volta, sempre elegante ma con un accenno di amaro che non le stava bene – era mutato il panorama, un interno cittadino aveva preso il posto dell’appartamento in una località di mare, era mutata lei due anni dopo quella sera, ero mutato io, rinsecchito il cuore come un coriaceo lupo di mare…

Il sole ormai è caduto all’orizzonte, resta un ultimo bagliore, come il residuo di quell’amore lontano . Molto tempo è trascorso adesso. Naufragare non fa più male ai vecchi marinai...


Jaume Laporta (19)

DIPINTO DI JAUME LAPORTA


sabato 17 giugno 2017

Sicilia, appunti di viaggio


9 maggio

La valigia è già pronta, i biglietti dell’aereo, mille preparativi, i piccoli dettagli che accompagnano il viaggio. La voglia di partire nonostante la pioggia che rallenta le strade e la stanchezza che sale. Domani voleremo, raggiungeremo il sole.

10 maggio - Catania e Siracusa

Catania è il caldo secco e ventilato che ti accoglie appena sceso dall’aereo, è lo stupore per le prime palme viste, per quei fiori simili a convolvolo ma dai colori indescrivibili: un succedersi di viola, giallo e bianco.

Siracusa vive del suo Teatro: provavano “Le Baccanti” di Euripide, peccato per quei sedili moderni approntati sui gradini, per l’incuria dei giardini nelle Latomie. L’Orecchio di Dionisio è una grotta imponente, la città - Ortigia - in festa per la Santa.

11 maggio - L’Etna e Taormina

L’Etna impressiona con il suo paesaggio: la lava che lenta e inesorabile ha inghiotti-to case e ristoranti per poi diventare improvvisamente pietra, come in un mito greco. Ai 2000 metri dei Crateri Silvestri un uomo vende pistacchi nel baule della vecchia 127 verde.

Taormina è un’altra Sirmione: ho percorso le vie di negozi ed ho acquistato un pupo raffigurante Carlo Magno. In un bar dall’arredamento esageratamente kitsch ho bevuto un vino bianco fresco e buonissimo, con mandorle e pistacchi.

12 maggio - Il mare della Sicilia

Mi affascina il mare: ora che lo vedo, ora che lo sento di notte mugghiare, che lo so presente, so di essere nel mio ambiente naturale. Stamattina ho visto il sole sorgere, colorare le onde di riflessi. Mi sono portato quell’immagine nel viaggio, salendo verso Catania e la sua festa, verso la pioggia improvvisa e abbondante.

E al mare sono tornato, nel sole del pomeriggio, a camminare sulla sabbia e raccogliere conchiglie.

13 maggio - Piazza Armerina

Piazza Armerina è una città che ricopre un colle: svetta la cupola grigia del Duomo. Sembra uno di quei paesi toscani abbarbicati agli Appennini. Alla Villa Romana del Casale ecco i mosaici: alcuni colpiscono per il dettaglio, per l’accuratezza del disegno, altri al contrario per la sproporzione. La copertura moderna in plexiglas è assolutamente orrenda: dà però l’idea di come poteva essere la costruzione, oltre a preservare i reperti. La guida dice che esistono progetti per sostituirla.

14 maggio - Agrigento

Agrigento è un tuffo nella storia: nel Museo Archeologico di fronte ai reperti d’incredibile fattura, nella Valle dei Templi, davanti agli edifici sacri, mi sono sentito come nella macchina del tempo. È certamente quanto di più bello mi ha offerto la Sicilia.

A San Leone, dove abbiamo pranzato, ancora il mare: ho camminato lungo la spiaggia scura raccogliendo sassi e conchiglie. Il turchino del mare mi ha ammaliato: forse è il colore degli occhi delle Sirene.

15 maggio - Ragusa Ibla

Ragusa Ibla, che con Ragusa Superiore forma il comune di Ragusa, è città barocca, ricostruita dopo il terremoto del 1693. Nel Duomo la statua di San Giorgio a cavallo, pronta per essere portata in processione. Un signore gentilissimo, custode della Chiesa dei Cappuccini, ha voluto mostrarci la sua casa, arredata in “barocco siciliano”: pizzi, ninnoli, tappeti, pareti damascate, la tavola apparecchiata con piatti e bicchieri finemente lavorati.

Ed è ora di lasciare la Sicilia… Goethe nel suo "Viaggio in Italia" scrisse che "Senza la Sicilia, l'Italia non lascia traccia nell'anima: qui si trova la chiave di tutto". È quello che ho pensato anch'io davanti a tanti monumenti, respirando la storia tra le rovine, guardando le città arroccate sui colli sullo sfondo del cielo.


2002


sabato 10 giugno 2017

Dichiarazione di guerra


“Il Paese non è affatto pronto. I carri armati sono tutti leggeri e solo 70 sono medi. Le artiglierie sono quelle del ’15-’18, molti pezzi sono bottino di guerra austriaco. La contraerea è inesistente, le munizioni coprono un dodicesimo delle necessità e carburante ce n’è soltanto per otto mesi”. Così c’era scritto nell’ultimo rapporto del generale Rodolfo Graziani a Mussolini. Badoglio, dal canto suo, riteneva altamente insufficiente l’equipaggiamento delle nostre truppe. Ciano, dieci mesi prima, aveva scritto: “In questo momento la guerra sarebbe una pazzia, solo fra tre anni le possibilità di vittoria per l’Italia potrebbero essere dell’80 per cento”.

Insomma, per l’Italia l’ideale sarebbe stato mettersi alla finestra e rimanere neutrale come la Spagna del Generalissimo Franco. Invece alle 16.30 del 10 giugno 1940 il Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano comunica all’ambasciatore francese, convocato a Palazzo Chigi, che “l’Italia si considera in stato di guerra con la Francia a partire da domani 11 giugno”. E in serata Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia proclama con la solita enfasi e le studiate pause all’Italia e al mondo: “Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l'esistenza medesima del popolo italiano” per concludere, con parole che risuonano amare e dolorose a noi che conosciamo gli eventi seguiti a quella follia: “La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo!, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo”.

Molti decenni sono passati da quella giornata e Italia e Francia sono ora paesi amici, che cooperano all’interno dell’Unione Europea. Hanno anche costituito una brigata mista di alpini della Taurinense e chasseurs des Alpes della 27a divisione. Ma quella “pugnalata alla schiena” che il regime piazzò su un paese dominato dall’invasore nazista, con l’esercito in rotta e un governo fantoccio già pronto a guidarlo per conto dell’oppressore, forse non sarà sanata che dai secoli. Quei 14 giorni di guerra resteranno per sempre una viltà inspiegabile. Io, che amo giocare con i “se” della storia", mi sono talvolta chiesto che cosa sarebbe successo se quel 10 giugno quel balcone fosse rimasto chiuso, se l’Italia fosse rimasta neutrale. Magari sarebbe finita allo stesso modo e inevitabile era per i rapporti di forza la discesa in campo con il Reich. Magari avremmo risparmiato migliaia e migliaia di vite, cancellando gli orrori dei bombardamenti, le carneficine della ritirata di Russia e di Cefalonia, le stragi perpetrate ovunque dalle SS. Ma la storia è quella che è stata e purtroppo non si può farla con i “se”.


Guerra

sabato 3 giugno 2017

Dell’ispirazione

“Fra un cane che cerca di passare per una porta socchiusa con un osso in bocca, e uno scienziato o uno scrittore che cercano un’idea, non c’è differenza: prova e riprova, l’osso passa dalla porta e l’idea viene”: così Robert Musil inquadrava l’ispirazione, ovvero quel fervore creativo, quel motivo interno alla mente che ci consente di creare un’opera, una poesia, un romanzo, un dipinto. Anche un tema, perché no? Mi vedo ancora sui banchi del liceo con il gomito ben saldo, la testa appoggiata al palmo, lo sguardo nel vuoto in cerca di un modo per svolgere il compito assegnato. Non c’è niente da fare: deve venire da sé. Al massimo aiuta scrivere qualcosa, per poi scoprire che altro volevamo scrivere e intraprendere finalmente il cammino giusto.

La scrittrice americana Amy Tan si chiede: “Chissà da dove nasce l’ispirazione. Forse deriva dalla disperazione. Forse dal caso dell’universo, dalla gentilezza delle muse”. Già, la Musa è il simbolo dell’ispirazione, ogni poeta la invoca perché lo ispiri. Certo, non più le nove Muse originali, quelle nate da nove notti d’amore di Zeus con Mnemosine: Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Urania, Polinnia e Calliope, rispettivamente patrone di storici, musicisti, commediografi, scrittori tragici, danzatori, poeti d’amore, astronomi, autori di canti sacri e poeti epici. Ognuno oggi ha la sua Musa, che sia  una figura femminile o una persona cara, che sia la stessa poesia in sé. Femmina la Musa, e dunque volubile: non si presenta a comando, giunge solo quando vuole, quando è lei, appunto, a ispirare. “E d'un tratto capii che il pensare è per gli stupidi, mentre i cervelluti si affidano all'ispirazione, e a quello che il buon Bog manda loro. La musica mi venne in aiuto. C'era una finestra aperta con uno stereo, e seppi subito che cosa fare” dice Alex De Lange, protagonista di Arancia meccanica di Stanley Kubrick, ed è proprio così: non c’è pensiero ma solo una folgorazione improvvisa. Samuel Butler annotava nei suoi Quaderni: “L'ispirazione non è mai vera se è riconosciuta come ispirazione del momento. La vera ispirazione sorprende sempre una persona”. Sei rimasto lì tre quarti d’ora a pensare e poi, zac! in dieci minuti scrivi tutto quello che devi. Come disse il romanziere statunitense Henry Miller, “Direi che succede tutto negli attimi di calma, di silenzio, mentre cammini o ti radi o giochi a qualcosa, persino mentre parli con qualcuno che non ti suscita grande interesse. Lavori tutto il tempo, la tua mente lavora, a quel problema nel retro del tuo cervello”.

E non si può fare niente per favorirla? Non so, come si prende un aperitivo per stuzzicare l’appetito? Mah, ci si può provare, senza garanzie di risultato. Ecco cosa scrive nelle sue lezioni di cinema la regista francese Agnès Varda: “L'ispirazione non si cattura. Quando la si vuole catturare, è andata via. Non bisogna neanche sperare di fare opere poetiche, non bisogna neanche sperare di fare opere straordinarie. In effetti, bisogna lavorare. Bisogna lavorare su ciò che è in disordine, su impressioni inafferrabili, su cose impalpabili”. Insomma, solo l’abitudine a scrivere favorisce in qualche modo l’avvento dell’ispirazione.


2011


Criste

DIPINTO DI MIHAI CRISTE


sabato 27 maggio 2017

Notte di luglio

 

La notte di luglio se ne andava via sotto un cielo di stelle, il mare continuava a cullare la sua inquietudine onda su onda, minuto dopo minuto. Venivamo dal chiasso della discoteca, avevamo ballato a lungo e la musica dei Novecento ci restava nelle orecchie come un mantra: “I'm movin' on, my love play until a new day comes back glad to see me movin' on, my love pray that you won't lose me. I'm movin' on… I'm movin' on”. Avevamo acceso un falò con qualche legnetto strappato alla marea e una copia del Gazzettino abbandonata su una sdraio. Ci sembrava che anche i nostri sogni ardessero in quel modo, che quel sentimento festoso che provavamo l’uno per l’altra divampasse allegro su quella spiaggia di notte.

Vivevamo il momento: forse quell’essere consapevoli del carpe diem, quel nostro essere consci che avevamo soltanto il presente e non il futuro, era ciò che ci riempiva di ebbrezza. Non avevamo niente da chiedere l’uno all’altra, non avevamo pretese, ci appartenevamo soltanto per poco, per il brevissimo spazio di qualche giorno e notte di luglio, ed era giocoforza vivere ogni cosa intensamente, allo spasimo. Amarci aveva una sorta di densità: non dovevamo pensare alla malinconia dell’addio, all’amarezza dell’abbandono, ma dovevamo concentrarci soltanto su quello che facevamo, per farlo nostro, per trasformarlo irrimediabilmente e istantaneamente in ricordo.

Restavamo sdraiati a guardare le stelle, mentre la brezza portava spruzzi e le faville volavano alte e rosse nel buio. Eravamo ebbri di noi, ebbri delle parole che dicevamo, insensate, inutili, vuote, eppure così necessarie per non disperarci, per non salutarci lì, una volta per sempre. Il futuro non esisteva, era una nebulosa troppo grande e troppo lontana da raggiungere, non potevamo di certo preoccuparcene.

Poi luglio finì…

 

IMMAGINE © LITTLEPAWZ/TUMBLR

sabato 20 maggio 2017

Altri libri

 

Anni fa Stefano Bartezzaghi, cultore dei giochi di parole e dell’enigmistica, aveva proposto un divertissement letterario: inventare trame di libri modificando appena il loro titolo. Per esempio, “Il castello” di Kafka diventa “Il mastello”: l’agrimensore K deve prendere possesso del suo nuovo ufficio, ma nessuno gli dice dove deve andare, finisce per innamorarsi di una simbolica lavandaia che stende i panni in cortile. Il libro in cui Bartezzaghi proponeva questi giochi si intitolava “Sfiga all’OK Corral”.

Io ho immaginato “Giulietta e Romeno”, una coppia multirazziale che vive le sue difficili vicende quotidiane nella Verona leghista dei nostri giorni: Giulietta è una precaria che si barcamena tra il call center e la pizzeria dove lavora come cameriera nei turni serali; è innamorata di Dorinel, un muratore di Timisoara emigrato in Italia, noto a tutti come il “Romeno”. L’amore è contrastato dalla famiglia di lei, che la vorrebbe sposata a un giovane del posto, magari con un bel lavoro in banca. Anche la famiglia di lui non vede di buon occhio il matrimonio, lo vorrebbe sposato a una ragazza romena con il costume tradizionale. La tragedia avviene quando la copia è aggredita da un gruppo di naziskin: Giulietta stuprata, Dorinel ucciso a botte. Per il dolore Giulietta si uccide gettandosi dagli spalti dell’Arena.

Il gioco ha migliaia di possibilità, lasciate alla fantasia e all’immaginazione. Certo, sarebbe meglio che vi fosse una certa attinenza con il libro originale. Qualche altro esempio:

IL BULINO DEL PO: Monumentale storia di una famiglia di orafi incisori della Bassa Padana che attraversa un secolo di vita italiana. (Riccardo Bacchelli, Il mulino del Po)

IL PRETE BULLO: Vita di un “prete da strada” alle prese con gli emarginati e gli sfruttatori: guida una motocicletta potente indossando un giubbotto di pelle nera. Tenero con i deboli e arrogante con i potenti. (Goffredo Parise, Il prete bello)

LA COGNIZIONE DEL COLORE: Un artista sudamericano - ma forse brianzolo - quasi impazzisce perché comprende l’intensità del colore di quella terra sudamericana  - ma che forse è la Brianza. (Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore)

NOVIZIA DI UN SEQUESTRO: Un’efferata banda di sequestratori accoglie una giovane donna e la svezza al crimine. (Gabriel Garcia Marquez, Notizia di un sequestro)

SETE A TEBE: Tebe, assediata, rimane senz’acqua, preda delle epidemie dilaganti. Le ultime ore della città prima della resa. Una tragedia. (Eschilo, Sette a Tebe)

2009

 

Gris

JUAN GRIS, “IL LIBRO APERTO”

sabato 13 maggio 2017

L’importanza della felicità

 

“La felicità non guarisce, ma protegge contro il cadere ammalati” disse il sociologo Ruut Veenhoven dell’Università Erasmus di Rotterdam, forte di uno studio pubblicato nel settembre 2008 sul “Journal of Happiness Studies“. Analizzando trenta ricerche svolte in tutto il mondo su periodi temporali tra uno e sessant’anni, Veenhoven ritenne che gli effetti della felicità siano paragonabili, come incidenza, al fatto se si sia o no fumatori.

Quello stato di benessere potrebbe allungare la vita tra i sette anni e mezzo e i dieci. Le persone felici sono più inclini a controllare il proprio peso e sono moderate nel bere e nel fumare: in generale sono più attente alla loro salute, molto attive, aperte al mondo, più sicure di sé. Di conseguenza, operano scelte migliori. L’infelicità cronica invece è involutiva e produce i suoi effetti alzando la pressione sanguigna e abbassando le risposte del sistema immunitario. I governi, dice Veenhoven, dovrebbero educare alla felicità: non è un caso che la Costituzione americana preveda tra i diritti “the pursuite of Happiness”, la ricerca della felicità.

Del resto i poeti e i filosofi già lo sapevano. Lo sapevano anche i guru indiani e i maestri buddhisti. Ora ci si mettono anche gli economisti, che hanno fondato una branca della loro specialità, l’«edonica»: quantificano e analizzano gli effetti dello stato di felicità che rende la vita piacevole e più ricca, non solo di denaro, spingendo al consumo. Così in più di cento paesi, la voce è inserita tra gli indicatori di crescita economica.

La felicità può essere poi condizionata dall’amicizia e dalle relazioni comunitarie, ma anche da fattori sociali come la libertà, la democrazia e le istituzioni. Come definirla? Gli esperti dicono che è il generale apprezzamento della propria vita nella sua completezza, ovvero uno stato mentale definito il migliore dalla persona interpellata.

“Vivo nell’attimo in cui sono felice” scrisse Edith Wharton in ”L'età dell’innocenza”. Questo è il fine: fare della propria esistenza un lungo periodo felice. “Don’t worry… Be happy”, come cantava Bobby McFerrin nel 1989.

2008

 

Magritte

sabato 6 maggio 2017

Il campo estivo

 

Quando tornai dalla prima licenza in “Bosin” – era la seconda in assoluto, un 48 ore – trovai il bergamasco Rovaris, compagno di camerata, che mi aspettava: «Vai al campo estivo» mi disse, «parti mercoledì, un giorno dopo gli altri. Sei capomacchina, ti è andata bene, così non dovrai sobbarcarti la fatica di montare le tende e la rete idrica». Guardavo quel ragazzo biondo e tarchiato e pensavo che ben strani messaggeri sa trovare la vita. Ero dispiaciuto sul principio, ma considerai con il passare del tempo e il consiglio della notte che in realtà si trattava di una buona occasione, era una specie di vacanza dalla caserma, un’avventura di due settimane a Ponte di Legno.

Sapevo bene che ci sarebbe stato il campo estivo – avevamo preparato le tende, le famose “Zamberletti”, montandole, controllandole e smontandole, i materassini, i “clarinetti” ovvero dei tubi per il loro montaggio, le cucine da campo, gli shelter, i vassoi da campo… ma avevo sempre pensato che non sarebbe toccato a me andarci, il mio nome non era mai stato fatto, nessuno mi aveva detto nulla. Quando fu tempo preparai il mio zaino, ritirai l’equipaggiamento al magazzino e un mattino tra il finire della primavera e l’inizio dell’estate saltai sul sedile di un camion della colonna. Faceva freddo per la stagione e al passo delle Palade avevamo in funzione il riscaldamento dell’ACM. Il sottotenente che ci guidava, sul primo di una mezza dozzina di camion, fermò a Cles e ci offrì un caffè in un bar. Fu un gesto che apprezzai molto, denotava la signorilità di quel giovane ufficiale.

Arrivammo a Ponte di Legno, precisamente in Val Sozzine, dopo l’ora del pranzo. Il campo era già funzionante, mancavano solo pochi dettagli. L’impianto idrico era garantito da rotoli e rotoli di tubi di plastica che pescavano l’acqua dal torrente – l’Oglio, in realtà, ma lì appena formatosi – e i servizi igienici erano stati scavati nella terra.

Mi trovarono un posto in una tenda, gonfiai con la pompa il mio materassino, vi stesi la coperta e il cuscinetto e vi lasciai lo zaino. Cominciarono due settimane di servizi quasi a giorni alterni: corvée cucina, guardia, corvée caserma – che poi significava semplicemente tenere pulito il campo e lo spiazzo dell’adunata particolarmente. Ebbi però il tempo di raggiungere Ponte di Legno, distante un paio di chilometri a piedi, con i miei sodali: andavamo nei bar, nelle paninoteche, cercavamo la vita nella libera uscita che poi consisteva di una birra, un panino con lo speck e il brie e le patatine al chiosco del luna park che stazionava sotto la cittadina, un giro alla UPIM il pomeriggio del sabato e della domenica e fare su e giù per i vialetti che si intersecavano intorno al ponte di legno al centro del paese. Guardavamo anche le partite degli Europei di calcio: a Merano, al Mac Rolands, avevamo visto l’Italia di Vicini pareggiare con la Germania Ovest e battere la Spagna. La sera che si giocò Italia-Danimarca montavo di guardia: faceva un freddo impensabile per giugno: mi fecero indossare il berretto norvegese e il maglione a collo alto sotto la mimetica e mi diedero una bottiglietta di plastica di cordiale che ingollai nel bel mezzo della notte quando il freddo mi parve insopportabile. Avevo la radiolina con l’auricolare ben mimetizzato sotto la falda della norvegese: segnarono Altobelli e De Agostini e l’Italia vinse 2-0 qualificandosi per la semifinale contro l’Unione Sovietica. Quando finì la partita, ascoltai musica. La partita decisiva invece la perdemmo 2-0 e la vidi comodamente seduto in un bar del centro di Ponte di Legno.

Una domenica montai invece di guardia tra i sacchetti di sabbia del bunker posto all’ingresso, sacchetti che avevamo riempito sulle rive dell’Oglio. Trascorsi un'ora lì dentro, guardando i motorini e le automobili passare sulla strada: ragazze e ragazzi che andavano al luna park. Il tenente colonnello, il maggiore, il maresciallo Petruccelli e il sergente Acito giocavano a carte a un tavolino posto all'ombra di un larice. Certo, mi sarebbe piaciuto essere in paese, percorrere le stradine e fermarmi a bere una birra in un bar con i miei commilitoni, ma il dovere era il dovere. Meglio lì che in cucina a lavare le stoviglie metalliche e i pentoloni. Inoltre con l'arrivo del nuovo scaglione, ero salito anche di un gradino: ora ero "nipote di seconda" e avevo almeno qualcuno sotto di me. Le auto che correvano veloci verso Ponte di Legno facevano vibrare l'aria: i miei pensieri scivolavano via veloci e il tempo passò in fretta.

 

Campo estivo

FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 29 aprile 2017

Una ragazza tenue

 

È il 28 settembre del 1916. Giuseppe Ungaretti si trova a Locvizza, sul Carso, impegnato nelle battaglie di trincea della Prima Guerra Mondiale. Per sfuggire all'orrore, scrive poesie. L’ispirazione questa sera gli viene dal ricordo: i versi lo portano lontano dal campo di battaglia, dagli attendamenti, dalle gallerie scavate nella roccia. Con la memoria torna a Parigi, dove era arrivato dalla natia Alessandria d'Egitto alla fine del 1912 per seguire dei corsi al College de France e alla Sorbona e dove aveva conosciuto artisti d'avanguardia: Apollinaire, Picasso, Braque, Modigliani, De Chirico, Léger. Su una cartolina di franchigia stropicciata che aveva nel tascapane scrive: “Quando / la notte è a svanire / poco prima  /  di primavera / e di rado / qualcuno passa  / Su Parigi s'addensa / un oscuro colore / di pianto”

Ungaretti nel 1912 aveva 24 anni. In quella cerchia d'artisti c'era una ragazzina sedicenne, Marthe Roux, che si dilettava di pittura e frequentava con la sorella Louise la congrega della Closerie de Lilas, lo stesso caffè dove anni dopo sarà solito scrivere Hemingway. È una notte di fine febbraio, a Montparnasse. L'alba non è molto lontana, il cielo è cupo, nebbioso. Sotto il ponte la Senna scorre grigia, porta via i lumi riflessi nelle sue acque. Il giovane Ungaretti osserva quella ragazza taciturna, sa che Apollinaire vi ha posto gli occhi addosso e gliela contende. Il poeta aggiunge una seconda strofa: “In un canto / di ponte / contemplo / l'illimitato silenzio / di una ragazza / tenue” .

Marthe è un fiore d'alpe tenue e opaco: e lui sente il malessere della ragazza simile al proprio in quella notte da bohémien, ma non fa nulla, rimane lì sul ponte mentre la Senna scorre e si porta via i suoi pensieri: “Le nostre / malattie / si fondono / E come portati via / si rimane.

* * * * *

"Cara Marthe" le scriverà dal fronte nel 1918, "se non sono un libertino, non sono ancora arrivato all'armonia degli angeli; la nostra relazione è stata assolutamente pura, ma io volevo avervi totalmente..."

E quarant'anni dopo, nel 1958, ricorderà di nuovo la ragazza di "Nostalgia": "Ho ancora le vostre foto. Che illusione meravigliosa è stata per me".

2008

 

Cortés

DIPINTO DI EDOUARD CORTÉS

sabato 22 aprile 2017

Pasqua del 1989

 

Se Natale lo passai a casa, nel mio anno di naia, mi toccò invece di trascorrere la Pasqua a Merano: mancavano solo 24 giorni al congedo, ero la “Max” e avevo sei giorni di licenza ordinaria in serbo per la prima settimana di aprile. Nel 1989 la Pasqua cadde il 26 marzo: un giorno che nel ricordo ha la dolcezza della prima primavera e non è solo la nostalgia a renderlo così. C’erano già i fiori nelle aiuole e le classiche sculture di siepi e fiori sul Lungopassirio: il canoista, l’Atlante che regge il mondo… Un bel sole tiepido avvolgeva la città

Ero rimasto solo: i soliti compagni con cui uscivo erano tutti a casa in licenza o assegnati ai vari compiti di caserma. Poco dopo le 9 varcai il passo carraio della Caserma Cesare Battisti e salii verso il centro: Via Palade, Via Petrarca. Raggiunsi Piazza del Teatro e vagabondai poi lentamente lungo i Portici, mi affacciai nel Duomo, dove stava cominciando la messa in tedesco: rimasi ammirato per qualche minuto ad osservare il rito, poi mi avviai verso il Ponte della Posta, riattraversai il Passirio per trovarmi davanti al gotico tedesco di Santo Spirito. Fu lì, sula porta della chiesa che incontrai Marco e un suo amico. Marco lo conoscevo dalla prima corvée cucina alla Leone Bosin: eravamo dello stesso scaglione e ci trovammo a lavorare insieme quel giorno di un giugno ormai lontano quasi un anno. Anche quando fui trasferito alla Battisti, ci capitava spesso di incontrarci per la città o di fissare appuntamenti per uscire a cena.

Ascoltammo la Messa, poi, a mezzogiorno, mi invitarono ad unirmi a loro per il pranzo di Pasqua. L’amico di Marco, che avevo già incontrato in alcuni dei nostri precedenti “vagabondaggi”, aveva la macchina a Merano. Decidemmo su due piedi di salire da Mair am Ort, a Tirolo, località sopra Merano famosa per il suo castello, dove amavamo salire in seggiovia dalla stazione dietro il Duomo per giocare al minigolf o per andare a bere la “boule”, una enorme coppa da macedonia che conteneva frutta a pezzi immersa in un’intera bottiglia di moscato d’Asti.

Entrammo nel locale caratteristico, con i suoi muri rivestiti di legno e le tovaglie a quadri: pranzammo con canederli e poi con un carré di maiale con i crauti, annaffiati da una generosa caraffa di vino bianco. La città si stendeva ai nostri piedi, il fiume scintillava perdendosi tra i vasti appezzamenti. Sentivamo nell’aria la libertà ormai vicina, quel pomeriggio di Pasqua. Finimmo ancora una volta a bere la “boule” e lasciammo che il giorno si sciogliesse, quella prima domenica con l’ora legale che portava più in là il tramonto sulle montagne azzurre.

Presto sarebbe cambiata la nostra vita, lo sapevamo benissimo. Presto quell’anno di naia sarebbe finito diritto nel baule dei ricordi. Ma intanto eravamo là, a rovesciare il liquido dorato nelle coppe, a inforcare pezzi di mela verde e fragole e il momento aveva la malinconica dolcezza delle cose sospese tra passato e avvenire.

 

Tirolo

sabato 15 aprile 2017

Lo stupore

 

“E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto”.


È il Vangelo di Luca (24,12): si parla di Pietro, che è andato a verificare il racconto delle pie donne, preso per vaneggiamento dai discepoli. Il discepolo di Gesù ha trovato il sepolcro vuoto e le bende lasciate a terra. Torna a casa pieno di stupore.

Stupore. È quello che va sempre più mancando ai nostri tempi, in cui lo scientismo tecnologico tende a diffondersi come una piovra e vorrebbe misurare il mondo fin nei suoi più piccoli micron e vorrebbe spiegare tutto sulla base del visibile, annientando la poesia del mistero. Forse solo i bambini si lasciano cogliere dallo stupore. Ma poi crescono e sono già scafati a dieci anni. Le storie di bullismo nelle scuole ne sono la testimonianza più evidente.

E allora, persa l’ingenuità un po’ naif degli antichi, ecco che per stupirsi occorrono i paradisi artificiali, i rave, le folli corse in auto. Più che lo stupore, la disperazione delle vite vuote.

 

24 marzo 2008, Lunedì dell’Angelo

 

Burnand

EUGÈNE BURNARD, “PIETRO E GIOVANNI COORONO AL SEPOLCRO”

sabato 8 aprile 2017

Il diavolo in corpo

 

A metà dicembre del 1920, in una fredda giornata parigina, Picasso e Brancusi seguivano il feretro bianco di un amico, morto ventenne di febbre tifoidea. Jean Cocteau invece non ne ebbe la forza, chiuso nella disperazione, lui che aveva vegliato il ragazzo e che al suo capezzale nella clinica di Rue Piccinni si era sentito dire “Udite una cosa terribile: fra tre giorni sarò fucilato dai soldati di Dio”.

Quel ventenne era Raymond Radiguet, autore di un romanzo, “Il diavolo in corpo”, scritto a soli diciotto anni e pubblicato da Grasset con un battage pubblicitario assolutamente nuovo per l’epoca. L’opera, parzialmente autobiografica, ebbe un successo clamoroso, anche grazie alle narrazioni scabrose: racconta infatti di un amore anticonformista tra un adolescente e una donna il cui marito è al fronte, durante la Prima guerra mondiale. Radiguet è conscio della delicatezza del tema: “Devo aspettarmi dei rimproveri” così comincia “Ma che posso farci? È colpa mia se compii dodici anni qualche mese prima che la guerra fosse dichiarata? (…) Era destino che mi comportassi come un bambino in un’avventura che avrebbe messo in difficoltà persino un adulto?” E l’inquietudine, lo smarrimento, la rivolta morale di quei giovani diventano parte della storia; Radiguet ne parla con sincerità disarmante, con uno stile puro e incantevole, con una lucidità inaspettata in un ragazzo: “La mia lungimiranza era solo una forma più pericolosa della mia ingenuità. Mi giudicavo meno ingenuo, ma lo ero sotto un’altra forma, poiché nessuna età sfugge all’ingenuità. Nemmeno la vecchiaia. Questa presunta lungimiranza mi annebbiava tutto, mi faceva dubitare di Marthe. O meglio, dubitavo di me stesso, perché non mi ritenevo degno di lei”.

Non si sa chi abbia il “diavolo in corpo”, se sia l’irruente ragazzo o la donna infelice di un matrimonio che non voleva, più probabilmente entrambi: “Per la prima volta, mi sentiva pronunciare la parola «morale». Quella parola capitò a meraviglia, giacché anche lei, così poco cattiva, doveva pur attraversare crisi di coscienza, come me, sulla moralità del nostro amore”. Alla fine il protagonista troverà nel “richiamo all’ordine” la soluzione al tabù della differenza d’età e alla riprovazione dell’amare la donna di un soldato in guerra: “L’ordine, alla lunga si dispone spontaneamente attorno alle cose” si legge nelle righe finali del romanzo, concluso da una tragedia ma vivificato dalla speranza.

2009

 

Le diable au corps
1947
Real. : Claude Autant-Lara
Gérard PHILIPE

Collection Christophel

UNA SCENA DA “LE DIABLE AU CORPS” DI AUTANT-LARA, 1947

sabato 25 marzo 2017

Il furto della Gioconda

 

La notte tra domenica 20 e lunedì 21 agosto 1911, il dipinto più famoso del mondo, la Gioconda di Leonardo da Vinci  venne rubato dal Louvre di Parigi. Il furto del secolo. A prelevare il pannello di pioppo di 77 cm x 53 e a nasconderlo sotto il cappotto prima di eclissarsi nella notte parigina fu tale Vincenzo Peruggia, un decoratore e imbianchino italiano emigrato in Francia dalla provincia di Varese. Secondo alcune fonti, si era nascosto in un armadio per le scope durante l’orario di apertura ed era poi sgattaiolato fuori; secondo altre si presentò alle 7 del mattino vestito con l’uniforme bianca degli inservienti del museo, che il 21 era chiuso. Comunque sia, il compito gli fu facilitato dall’aver lavorato alla messa in opera della teca che custodiva il dipinto, posto allora nel Salon Carré, e dall’aver conosciuto in tal modo le abitudini delle guardie: uscì mentre una di esse era andata a farsi riempire un secchio d’acqua e se ne andò in taxi. Il mattino del 22 agosto il pittore Louis Béroud si presentò presto al Louvre per eseguire uno schizzo preparatorio per l’opera che intendeva dipingere, Mona Lisa au Louvre, e trovò il muro vuoto. Chiese allora ai guardiani, che gli dissero che forse era nell’atelier fotografico. Non c’era…

Iniziarono immediatamente le indagini della polizia parigina. Prima di arrivare a Vincenzo Peruggia, molti furono i sospettati: persino il poeta Guillaume Apollinaire, che fu arrestato e passò qualche giorno in prigione, e Pablo Picasso, tirato in ballo da Apollinaire, che venne a lungo interrogato dalla Gendarmerie: i due avevano manifestato l’intenzione di svuotare i musei distruggendo le opere in essi esposti per sostituirle con le proprie. Era una boutade da artisti megalomani, nulla più. E ancora le autorità francesi seguirono un’altra pista; pensarono anche che si trattasse di un affronto dei boches, gli odiatissimi tedeschi. Non era vero, naturalmente. Il Louvre rimase chiuso per un’intera settimana per agevolare le indagini: quando riapri, al posto dell’illustre Monna Lisa era appeso un ritratto eseguito da Raffaello Sanzio, quello del letterato Baldassarre Castiglione..

La polizia parigina finalmente bussò anche alla porta di Vincenzo Peruggia: la Gioconda era nascosta sotto il letto, ma nessuno pensò di perquisire l’appartamento, si accontentarono dell’alibi – naturalmente falso – fornito dall’imbianchino. Rimase lì per quasi due anni, fino a quando Peruggia si trasferì a Firenze. E lì il ladro divenne impaziente, contattò il proprietario di una galleria d’arte, Adolfo Geri, e gli disse che voleva restituire il dipinto alla sua patria, l’Italia. Si diceva un convinto patriota e pensava che un’opera di tal fatta dovesse essere esposta in un museo italiano. Ma un fatale errore era alla base delle sue convinzioni: la Gioconda fu dipinta in Francia e non, come credeva lui e come credono tuttora molti italiani, sottratta a un museo durante le spoliazioni effettuate dalle truppe di Napoleone. Geri mise in contatto Peruggia con il direttore degli Uffizi, Giovanni Poggi. L’incontro avvenne all’Hotel Tripoli, in Via de’ Cerretani: Peruggia chiese 500.000 lire per le spese sostenute, Poggi chiese invece di poter autenticare l’opera. Nel frattempo, l’imbianchino andò a spasso per Firenze: fu lì che la polizia, allertata da Geri e Poggi, lo arrestò.

Il processo non andò poi tanto male per Vincenzo Peruggia: lo dichiararono “mentalmente minorato” e fu condannato a una pena di un anno e quindici giorni di prigione, poi ridotta di cinque mesi. Ma attirò le simpatie di molti, che vedevano nel suo furto un gesto romantico: lui stesso alimentò quell’immagine dichiarando di aver trascorso due anni meravigliosi guardando la Gioconda appesa sopra il tavolo della cucina.

Il dipinto invece cominciò il suo pellegrinaggio per tornare al Louvre: rimase esposto agli Uffizi, poi a Roma, a Palazzo Farnese, ambasciata di Francia, e alla Galleria Borghese in occasione del Natale 1913. Poi fu messo su un treno e inviato a Modane, dove le autorità francesi ne ripresero possesso. Fece tappa a Bordeaux e a Tolosa; il presidente della Repubblica in persona, insieme ai rappresentanti del governo, lo accolse nel Salon Carrè: Monna Lisa era finalmente tornata a casa.

 

Mona_Lisa_stolen-1911 (1)

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FOTOGRAFIE © MUSEO DEL LOUVRE

sabato 11 marzo 2017

Viaggio intorno alla mia camera

 

Un viaggio dove non si va da nessuna parte, o meglio dove rimanendo fermi si vola dappertutto, si evade dalla prigione della propria vita ispezionando il proprio io come se fosse un mondo… È “Viaggio intorno alla mia camera”, un esile volumetto di un centinaio di pagine scritto tra il 1790 e il 1794 da Xavier de Maistre, fratello minore del più celebre Joseph, filosofo e diplomatico savoiardo, che darà alle stampe il testo nel 1795.

E dunque Xavier de Maistre, ventiseienne aiutante maggiore di battaglione, del reggimento di fanteria La Marina, poco prima del carnevale del 1790 ha una vertenza d’onore a Torino con l’ufficiale Patono de Meyran con il quale va a duello, vincendolo. Il duello gli costa però una punizione: viene confinato agli arresti domiciliari nella sua stanza alla cittadella militare del capoluogo piemontese. Xavier, che qualche anno prima, pochi mesi dopo il lancio del primo aerostato da parte dei fratelli Montgolfier, aveva sperimentato l’ebbrezza del volo compiendo un’ascensione di duemila metri in mongolfiera, trova la libertà nella dicotomia tra anima e corpo: lascia il proprio corpo nella stanza e dà libero sfogo all’immaginazione con quella che Saint-Beuve definì una “grazia sorridente” e che altro non è se non l’afflato della poesia, la consapevolezza che la sensibilità può spalancare le porte di un mondo incantato nel quale trovare la felicità a dispetto delle contingenze materiali.

De Maistre ripercorre, anticipando Robbe-Grillet, tutti gli oggetti della stanza – la poltrona, il letto, stampe e quadri, lo specchio, la scrivania, la sedia – usandoli come trampolino per l’evasione fittizia verso quel paese fantastico che diverrà la terra della libertà, tanto che, allo scoccare dei 42 giorni, così dirà: “Incantevole paese dell’immaginazione, che l’Essere benefico per eccellenza ha concesso agli uomini per consolarli della realtà, ti debbo lasciare. – Oggi stesso, certe persone da cui dipendo hanno la pretesa di ridarmi la libertà: – come se me l’avessero tolta! come se avessero potere di rubarmela un solo istante, e d’impedirmi di percorrere a mio piacimento il vasto spazio sempre aperto, dinanzi a me! – Mi hanno vietato una città, un punto; ma mi hanno lasciato l’universo intero; l’immensità e l’eternità sono ai miei ordini”.

2009

 

Kersting

GEORG FRIEDRICH KERSTING, “UOMO CHE LEGGE ALLA LUCE DI UNA LAMPADA”

sabato 4 marzo 2017

Un mare quieto

 

Seduto sulla postazione rialzata del bagnino, Giovanni continuava a guardare il mare: una distesa di piccole onde che, portate dal leggero grecale, accarezzavano la spiaggia. In realtà, lo sguardo di Giovanni era fisso sul mare, come se i suoi occhi in quel momento fossero un impiccio per i suoi pensieri, che invece vagavano con un ritmo simile a quello delle onde. Il punto era quell’amore che aveva finalmente trovato – o che aveva trovato lui, si diceva spesso meravigliato: non si capacitava, non corrispondeva a quell’idea di amore che si era fatto in tanti anni, non credeva fosse possibile innamorarsi così. Eppure, in quel rapporto spensierato e spontaneo, si muoveva a suo agio, sentiva di incastrarsi perfettamente con Anna: riflettendo, pensò alle tessere di un puzzle o a certi intarsi in legno che diventano praticamente inseparabili.

Quella semplicità, quella giocosa complicità non l’aveva provata neppure con il primo amore, troppo elucubrato, troppo cerebrale forse, intento a interpretare la novità, a cogliere i segnali di quello che poteva sembrare un sogno – in effetti era come un’avventura, aveva significato per lui conoscere anche se stesso oltre che i meccanismi dell’amore, un po’ come fanno gli esploratori o i viaggiatori che si spostano in una città sconosciuta dove si parla una lingua che non si padroneggia. L’incomprensione e l’inesperienza portarono a troncare quel rapporto che lo ferì forse oltremodo. Non trovò strano arrivare poi disilluso, prevenuto, a qualche successivo tentativo: non riusciva a valutare il sentimento, non era in grado di dargli un nome più preciso, più definito. In breve, non era più riuscito a innamorarsi compiutamente, a lasciarsi andare.

Si stava rassegnando ormai, quando si era imbattuto in Anna, in quella che lui aveva definito “donna dall’esuberante timidezza” ben sapendo che lei avrebbe risposto che “la aveva fotografata esattamente”. Quell’empatia toglieva ogni velo, era il segreto della tranquillità che provavano entrambi, uno stato di serenità che li faceva stare bene.

“Il nostro amore” si disse rialzandosi e spolverandosi con le mani la sabbia dai blue-jeans, “è un mare quieto”.

 

sabato 25 febbraio 2017

Presso l’Adda

 

A Imbersago, Brianza lecchese, nel piazzale dove ci si imbarca sul traghetto di disegno leonardesco che attraversa il fiume Adda, c’è una lapide sul muro con incisa una poesia di Salvatore Quasimodo, quella che comincia così: “Striscia l'Adda al tuo fianco nel meriggio / e segui l'ombra a rovescio del cielo.  / Qui, dove curve pecore risalgono / con il capo affondato dentro l'erba,  / saltava l'acqua a taglio della ruota, / e s'udiva la mola del frantoio  / e il tonfo dell'uliva nella vasca”. Una scelta davvero azzeccata: ci si mette lì un po’ di profilo e, leggendola, si possono tradurre quelle parole in immagini, come se fosse un film. Ecco il cielo riflettersi nell’acqua e le nuvole che fanno a gara con i germani nello sguazzare; ecco i boschi della sponda dove ancora raramente capita di incontrare le greggi, soprattutto d’inverno, e di notare i loro bioccoli lanosi appesi a qualche spina di roveto. Se non c’è la mola del frantoio, è possibile trovare qualche manufatto per lo scolo delle acque; di certo per tutta la bella stagione c’è il sambuco, dapprima odoroso con i suoi fiori bianchi, poi adornato delle sue belle bacche scure; le canne palustri agitano al vento le loro chiome, riempiendo vasti tratti in prossimità della riva.

Adesso è normale apprezzare questa tranquillità, questo scenario di pace: quando Quasimodo scrisse questa poesia, la guerra era ancora un freschissimo ricordo, probabilmente si era conclusa da poco. Ma da qualche parte, presso l’Adda, il poeta siciliano trova risposte alle sue domande: la vita a primavera riemerge, le piante rinverdiscono, porgono il loro saluto alla terra in un emblema della lotta dell’umano al disumano, così diverso dall’«erba maligna» che «tra tombe di macerie solleva il suo fiore». E in questa rigogliosa natura anche il poeta adesso ritrova la sua certezza, mentre con la mano fa schermo agli occhi, abbacinati dai riflessi dell’Adda.

 

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FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 18 febbraio 2017

Anima e corpo

 

“Dopo il pranzo Nataša, pregata dal principe Andrej, andò al clavicembalo e si mise a cantare. Il principe Andrej stava ritto a una finestra, parlando con le signore, e tendeva l’orecchio a lei. A mezzo di una di quelle frasi musicali, il principe Andrej ammutolì, e sentì, sorpreso, che in gola gli saliva il pianto, cosa di cui non si sarebbe creduto capace. Posò lo sguardo su Nataša che cantava, e nell’intimo dell’essere gli avvenne qualcosa di nuovo e di felice. Si sentiva felice e, nello stesso tempo, si sentiva triste. Non aveva, assolutamente, nessuna ragione di piangere, eppure stava sul punto di rompere a piangere. Di che cosa? Dell’amore d’un tempo? Della piccola principessa? Delle delusioni patite?… Delle speranze nell’avvenire?… Sì e no. Più d’ogni altra cosa, quello di cui gli veniva voglia di piangere, era (nell’improvvisa, viva coscienza che gliela svelava) la tremenda contraddizione fra un che d’infinito, di sublime e d’indefinibile, che c’era in lui, e un che di angusto e di corporeo, che costituiva l’essere suo, e anche l’essere di lei. Questa contraddizione lo struggeva e lo faceva esultare mentre lei veniva cantando”.

È un brano di Guerra e pace di Lev Tolstoj, esattamente dal capitolo XIX della terza parte del secondo libro: nel classico modo di raccontare tolstojano i personaggi si scaldano e si accendono di qualcosa che trascende le vicende umane. Così il principe Andrej Bolkonskij, ferito ad Austerlitz e colpito poco tempo prima dalla morte di parto della moglie Lisa, ha una rivelazione in una serata mondana a casa dei Rostov, mentre la bella Nataša canta accompagnandosi al clavicembalo. Felicità e tristezza fuse insieme, un’emozione fortissima che gli impedirà poi di dormire e che ancora non è in grado di chiamare amore per Nataša. Ma quella sera il principe Andrej prova qualcosa che tutti noi probabilmente abbiamo provato – che sia stato l’amore o una sera in riva al mare o una notte in un rifugio montano a guardare le stelle – e cioè la sensazione di avere un qualcosa che travalica il nostro corpo, chiamiamolo anima oppure essere o ancora spirito. Quella sensazione che ci fa capire di come l’infinito possa raccogliersi nel piccolo, di come sia vera l’affermazione delle Upanishad che “l’anima tua è l’intero mondo”.

 

2011

 

andrei

UNA SCENA DA “GUERRA E PACE”, 2016 © BBC