sabato 20 agosto 2016

Ozio d’agosto

 

Giovedì d'agosto Siedo su questa veranda, al tavolo di resina, senza nulla da fare, senza appuntamenti pressanti che mi chiamino, senza incombenze a cui pensare. Siedo semplicemente, le gambe allungate, il corpo abbandonato a una comodità spensierata. Posso dire che sono finalmente rilassato, che lo stress lavorativo si è dissolto come una coltre di neve al sole, che le batterie si stanno ricaricando.

È meraviglioso questo ozio d’agosto: ha il sapore antico delle estati di una volta, quelle dei tempi delle scuole elementari e medie, quelle dei tempi del liceo anche, in misura minore. Ha il sapore di quando non c’erano i telefonini e neppure i computer, di quando i social network consistevano nello scendere in piazza a parlare con gli amici. Ma ad agosto, molti erano al mare o in montagna, e la piazza era deserta. E allora era proprio questo ozio a dilagare, soprattutto nei lunghi pomeriggi, soprattutto quando non c’erano le Olimpiadi o i mondiali di atletica o gli europei di nuoto in televisione. Un ozio dolce e spesso, un po’ come l’aria umida che quasi si può tagliare a fette e nasconde sotto un velo di foschia le colline. Una noia che si riveste di una mielosa apatia.

Così siedo su questa veranda, al tavolo di resina bianca, e guardo le donne tornare dal mercato con le borse piene di frutta e di verdura, di formaggi, i sacchettini leggeri con le magliette comprate al banco tutto a 10 euro. Parlano tra loro, ridono, si raccontano le cose. Con lentezza, con il passo languido di agosto a percorrere il lato in ombra della strada. I bambini vociano, giocano, si allontanano correndo finché un richiamo non li riporta indietro - sembra che abbiano un invisibile elastico che li trattenga.

È mezzogiorno passato ormai. E un suono noto interrompe il mio ozio come la sveglia che taglia il collo ai sogni. Il campanellino di Whatsapp che organizzerà il mio pomeriggio...

 

Merry

MARGARET MERRY, “AN ANDALUCIAN PATIO”

sabato 13 agosto 2016

Una storia americana

 

Il treno tagliava come una lama la prateria ghiacciata che un sole di me­tallo velava con una sottile bruma al punto da sembrare anch'esso una sfera di ghiaccio. Seduta sulla comoda poltrona di prima classe foderata di velluto rosso, Cadiz guardò fuori e si strinse ancora di più nell'ampio cappotto nero. Nono­stante il riscaldamento interno del vagone, sentiva il gelo penetrarle nelle ossa. La ragazza stava ripensando alla sera prima, così inusuale nella sua vita, come la tessera di un puzzle che non si incastri con le altre.

In un bar di Vancouver aveva incontrato per puro caso - casuale l'ora, casuale la scelta del bar, casuale la sua presenza - Mickey. “Mickey, come Mickey Mouse” si era presentato quel ragazzo dagli occhi di ghiaccio che sembrava uscito da un film d'avventure.

“Ma perché Cadiz? È il tuo vero nome?”. Cadiz non aveva voluto spiegar­gli la triste storia del suo nome, le sere perdute a vendere nel Nevada la sua esuberante gioventù; la fuga da casa, da quella tranquilla casa di Oskaloosa, nello Iowa, si era trasformata in prostituzione d'alto bordo: bei vestiti, gioielli, profumi, una Chevrolet... Era stato un cliente avanti negli anni a chiamarla così perché gli ricordava le estati spagnole della sua gioventù, le corride dove incontrava Hemingway, le ragazze della solare città di Cadice.

Il suo vero nome era Lynn, Lynn Vozinsky. Non era riuscita a dirglielo subito. Mickey era qualche cosa di diverso, con lui Cadiz l'aveva fatto per amore. Non riusciva a capacitarsi che potesse esistere ancora l'amore nel mondo e che Mickey potesse infondergliene così tanto nel cuore. Era dai suoi sedici anni che non si innamorava: al ballo della scuola aveva baciato Sonny Parker, il bello del college. Sei mesi. Sei mesi prima di lasciare Oskaloosa e i suoi campi di grano.

Cadiz guardava dal finestrino: Vancouver era ormai lontana, già si intravedeva Seattle prona nella baia. Un'inestinguibile sete d'amore aveva preso Ca­diz, non l'amore fisico, il sesso che era il suo lavoro e che aveva ormai a noia: l'amore vero, quello che vince anche i cuori dei saggi e li trascina nella passione. Cadiz voleva davvero vivere una storia alla “Via col vento“: quante volte aveva sognato e pianto al posto di Vivien Leigh.

Una speranza. Scese dal treno con una speranza, certa che le avrebbe permesso di continuare a vivere. “Chiamami Lynn: è il mio nome ed è solo per te“, così aveva salutato Mickey e in cuor suo sapeva che un giorno o l'altro si sarebbero incontrati di nuovo.

19 ottobre 1990

 

Sally Storch

SALLY STORCH, “NIGHT STORIES”

sabato 6 agosto 2016

Toponomastica di Venezia

 

La toponomastica veneziana è unica al mondo, data la conformazione della città. Calle, corte, fondamenta, salizzada, rio, rio terà nella bellissima città della Serenissima fanno le veci di quelli che altrove sono chiamati viali, vie, vicoli, larghi, piazze e piazzali. Non è di questo che si intende parlare, ma della denominazione di alcune strade cittadine. In una località così ricca di storia la toponomastica si perde nel medioevo e nel rinascimento, quando lo splendore veneziano fu all’apice. Vi erano famiglie importanti, ed ecco allora Calle Gondulmer, Calle Colomba, Rio dei Gozzi, Ramo Calle del Pin. Vi erano bravi artigiani che spesso lavoravano nel medesimo sestiere, ed ecco Corte delle Ancore, Calle dei Fabbri, Calle del Cappeller (il cappellaio), Calle del Pistor (il prestinaio), Calle del Parrucchier. Vi erano antiche e frequentate locande, ed ecco allora Calle del Carro, Corte della Cerva, Corte della Anguria, Calle del Leon Bianco. Ma vediamo qualcosa di più originale:

CALLE DEL VENTO – È un imbuto vicino al mare nella zona del porto, dove il vento la fa da padrone. Ci abitava il poeta Diego Valeri, che dedicò alla calle questa poesia: “Qui c'è sempre un poco di vento / a tutte le ore di ogni stagione: / un soffio almeno, un respiro. / Qui, da trent'anni, sto io, ci vivo./ E giorno dopo giorno scrivo / il mio nome sul vento”.

CALLE LARGA DEI PROVERBI – Prende nome da due proverbi che anticamente, almeno fino al 1840, si potevano leggere sulle cornici di due balconi: «Chi semina spine non vadi descalzo» e«Dì de ti, e poi di me dirai».

CAMPO DE LE GATE – No, non sono le gatte a dare nome a questo campo, quanto piuttosto i delegati, ovvero i Nunzi papali, che erano ospitati nel palazzo del priorato dell’Ordine di Malta. La corruzione del termine ha portato dai Legati alle Gate.  

FONDAMENTA DE LE PROCURATIE – Così come le Corti delle Procuratie, deve la sua denominazione alle case destinate alle famiglie indigenti dai Procuratori di San Marco, secondo le pie intenzioni dei testatori. Le case di Santa Maria Maggiore, dov’è la Fondamenta, provenivano dal testamento di Filippo Tron: erano ben sessanta.

FONDAMENTA E PONTE DE LE TETTE – Nessuna corruzione di termini: sono proprio le “tette”: nel 1358 venne prescritto ai capi di sestiere di individuare una zona dove concentrare le prostitute. Il luogo fu fissato due anni dopo tra un gruppo di case note come il Castelletto e Ca’ Rampani – il quartiere venne poi denominato “Carampane”, vocabolo assurto in seguito a indicare spregiativamente le meretrici. Le ragazze per invogliare la clientela stavano affacciate ai balconi e alle finestre con le «tete» bene in vista…

NARANZARIA - a Rialto. Nei magazzini sotto il palazzo dei «Camerlenghi» che fiancheggiano questa via, venivano conservate le arance e gli agrumi .

PONTE DE LA DONA ONESTA – Incerta è l’origine della denominazione di questo ponte e dell’omonima Fondamenta: secondo una versione, due uomini passarono di lì dibattendo sull’onestà delle donne e uno dei due, alquanto deluso dal genere femminile, indicò all’altro la testa di donna incassata nel muro sopra il ponte: «Sai tu quale è onesta fra tante? Quella là che tu vedi!». Un’altra versione rende invece omaggio all’onestà di una popolana, moglie di un maestro spadaio: un giovane patrizio, che aveva commissionato una daga allo spadaio, invaghitosi della donna, fece in modo di trovarsi da solo con lei e la violentò; la popolana allora, disperata, si uccise con quella stessa daga. Una terza versione, meno poetica e più sarcastica, fa derivare il nome del Ponte da una prostituta, detta la “donna onesta” perché prudente nell’esercitare il suo mestiere.

RIO TERÀ DEGLI ASSASSINI - Il rio, prima del suo interramento, era attraversato da un ponte, chiamato «degli Assassini», per la frequenza dei delitti che in tempi remoti vi venivano perpetrati. Nel 1128 il governo veneziano, per arginare il fenomeno,  ordinò che nelle strade poco sicure venissero accesi di notte i «cesendeli», le lanterne.

 

Tette