sabato 29 aprile 2017

Una ragazza tenue

 

È il 28 settembre del 1916. Giuseppe Ungaretti si trova a Locvizza, sul Carso, impegnato nelle battaglie di trincea della Prima Guerra Mondiale. Per sfuggire all'orrore, scrive poesie. L’ispirazione questa sera gli viene dal ricordo: i versi lo portano lontano dal campo di battaglia, dagli attendamenti, dalle gallerie scavate nella roccia. Con la memoria torna a Parigi, dove era arrivato dalla natia Alessandria d'Egitto alla fine del 1912 per seguire dei corsi al College de France e alla Sorbona e dove aveva conosciuto artisti d'avanguardia: Apollinaire, Picasso, Braque, Modigliani, De Chirico, Léger. Su una cartolina di franchigia stropicciata che aveva nel tascapane scrive: “Quando / la notte è a svanire / poco prima  /  di primavera / e di rado / qualcuno passa  / Su Parigi s'addensa / un oscuro colore / di pianto”

Ungaretti nel 1912 aveva 24 anni. In quella cerchia d'artisti c'era una ragazzina sedicenne, Marthe Roux, che si dilettava di pittura e frequentava con la sorella Louise la congrega della Closerie de Lilas, lo stesso caffè dove anni dopo sarà solito scrivere Hemingway. È una notte di fine febbraio, a Montparnasse. L'alba non è molto lontana, il cielo è cupo, nebbioso. Sotto il ponte la Senna scorre grigia, porta via i lumi riflessi nelle sue acque. Il giovane Ungaretti osserva quella ragazza taciturna, sa che Apollinaire vi ha posto gli occhi addosso e gliela contende. Il poeta aggiunge una seconda strofa: “In un canto / di ponte / contemplo / l'illimitato silenzio / di una ragazza / tenue” .

Marthe è un fiore d'alpe tenue e opaco: e lui sente il malessere della ragazza simile al proprio in quella notte da bohémien, ma non fa nulla, rimane lì sul ponte mentre la Senna scorre e si porta via i suoi pensieri: “Le nostre / malattie / si fondono / E come portati via / si rimane.

* * * * *

"Cara Marthe" le scriverà dal fronte nel 1918, "se non sono un libertino, non sono ancora arrivato all'armonia degli angeli; la nostra relazione è stata assolutamente pura, ma io volevo avervi totalmente..."

E quarant'anni dopo, nel 1958, ricorderà di nuovo la ragazza di "Nostalgia": "Ho ancora le vostre foto. Che illusione meravigliosa è stata per me".

2008

 

Cortés

DIPINTO DI EDOUARD CORTÉS

sabato 22 aprile 2017

Pasqua del 1989

 

Se Natale lo passai a casa, nel mio anno di naia, mi toccò invece di trascorrere la Pasqua a Merano: mancavano solo 24 giorni al congedo, ero la “Max” e avevo sei giorni di licenza ordinaria in serbo per la prima settimana di aprile. Nel 1989 la Pasqua cadde il 26 marzo: un giorno che nel ricordo ha la dolcezza della prima primavera e non è solo la nostalgia a renderlo così. C’erano già i fiori nelle aiuole e le classiche sculture di siepi e fiori sul Lungopassirio: il canoista, l’Atlante che regge il mondo… Un bel sole tiepido avvolgeva la città

Ero rimasto solo: i soliti compagni con cui uscivo erano tutti a casa in licenza o assegnati ai vari compiti di caserma. Poco dopo le 9 varcai il passo carraio della Caserma Cesare Battisti e salii verso il centro: Via Palade, Via Petrarca. Raggiunsi Piazza del Teatro e vagabondai poi lentamente lungo i Portici, mi affacciai nel Duomo, dove stava cominciando la messa in tedesco: rimasi ammirato per qualche minuto ad osservare il rito, poi mi avviai verso il Ponte della Posta, riattraversai il Passirio per trovarmi davanti al gotico tedesco di Santo Spirito. Fu lì, sula porta della chiesa che incontrai Marco e un suo amico. Marco lo conoscevo dalla prima corvée cucina alla Leone Bosin: eravamo dello stesso scaglione e ci trovammo a lavorare insieme quel giorno di un giugno ormai lontano quasi un anno. Anche quando fui trasferito alla Battisti, ci capitava spesso di incontrarci per la città o di fissare appuntamenti per uscire a cena.

Ascoltammo la Messa, poi, a mezzogiorno, mi invitarono ad unirmi a loro per il pranzo di Pasqua. L’amico di Marco, che avevo già incontrato in alcuni dei nostri precedenti “vagabondaggi”, aveva la macchina a Merano. Decidemmo su due piedi di salire da Mair am Ort, a Tirolo, località sopra Merano famosa per il suo castello, dove amavamo salire in seggiovia dalla stazione dietro il Duomo per giocare al minigolf o per andare a bere la “boule”, una enorme coppa da macedonia che conteneva frutta a pezzi immersa in un’intera bottiglia di moscato d’Asti.

Entrammo nel locale caratteristico, con i suoi muri rivestiti di legno e le tovaglie a quadri: pranzammo con canederli e poi con un carré di maiale con i crauti, annaffiati da una generosa caraffa di vino bianco. La città si stendeva ai nostri piedi, il fiume scintillava perdendosi tra i vasti appezzamenti. Sentivamo nell’aria la libertà ormai vicina, quel pomeriggio di Pasqua. Finimmo ancora una volta a bere la “boule” e lasciammo che il giorno si sciogliesse, quella prima domenica con l’ora legale che portava più in là il tramonto sulle montagne azzurre.

Presto sarebbe cambiata la nostra vita, lo sapevamo benissimo. Presto quell’anno di naia sarebbe finito diritto nel baule dei ricordi. Ma intanto eravamo là, a rovesciare il liquido dorato nelle coppe, a inforcare pezzi di mela verde e fragole e il momento aveva la malinconica dolcezza delle cose sospese tra passato e avvenire.

 

Tirolo

sabato 15 aprile 2017

Lo stupore

 

“E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto”.


È il Vangelo di Luca (24,12): si parla di Pietro, che è andato a verificare il racconto delle pie donne, preso per vaneggiamento dai discepoli. Il discepolo di Gesù ha trovato il sepolcro vuoto e le bende lasciate a terra. Torna a casa pieno di stupore.

Stupore. È quello che va sempre più mancando ai nostri tempi, in cui lo scientismo tecnologico tende a diffondersi come una piovra e vorrebbe misurare il mondo fin nei suoi più piccoli micron e vorrebbe spiegare tutto sulla base del visibile, annientando la poesia del mistero. Forse solo i bambini si lasciano cogliere dallo stupore. Ma poi crescono e sono già scafati a dieci anni. Le storie di bullismo nelle scuole ne sono la testimonianza più evidente.

E allora, persa l’ingenuità un po’ naif degli antichi, ecco che per stupirsi occorrono i paradisi artificiali, i rave, le folli corse in auto. Più che lo stupore, la disperazione delle vite vuote.

 

24 marzo 2008, Lunedì dell’Angelo

 

Burnand

EUGÈNE BURNARD, “PIETRO E GIOVANNI COORONO AL SEPOLCRO”

sabato 8 aprile 2017

Il diavolo in corpo

 

A metà dicembre del 1920, in una fredda giornata parigina, Picasso e Brancusi seguivano il feretro bianco di un amico, morto ventenne di febbre tifoidea. Jean Cocteau invece non ne ebbe la forza, chiuso nella disperazione, lui che aveva vegliato il ragazzo e che al suo capezzale nella clinica di Rue Piccinni si era sentito dire “Udite una cosa terribile: fra tre giorni sarò fucilato dai soldati di Dio”.

Quel ventenne era Raymond Radiguet, autore di un romanzo, “Il diavolo in corpo”, scritto a soli diciotto anni e pubblicato da Grasset con un battage pubblicitario assolutamente nuovo per l’epoca. L’opera, parzialmente autobiografica, ebbe un successo clamoroso, anche grazie alle narrazioni scabrose: racconta infatti di un amore anticonformista tra un adolescente e una donna il cui marito è al fronte, durante la Prima guerra mondiale. Radiguet è conscio della delicatezza del tema: “Devo aspettarmi dei rimproveri” così comincia “Ma che posso farci? È colpa mia se compii dodici anni qualche mese prima che la guerra fosse dichiarata? (…) Era destino che mi comportassi come un bambino in un’avventura che avrebbe messo in difficoltà persino un adulto?” E l’inquietudine, lo smarrimento, la rivolta morale di quei giovani diventano parte della storia; Radiguet ne parla con sincerità disarmante, con uno stile puro e incantevole, con una lucidità inaspettata in un ragazzo: “La mia lungimiranza era solo una forma più pericolosa della mia ingenuità. Mi giudicavo meno ingenuo, ma lo ero sotto un’altra forma, poiché nessuna età sfugge all’ingenuità. Nemmeno la vecchiaia. Questa presunta lungimiranza mi annebbiava tutto, mi faceva dubitare di Marthe. O meglio, dubitavo di me stesso, perché non mi ritenevo degno di lei”.

Non si sa chi abbia il “diavolo in corpo”, se sia l’irruente ragazzo o la donna infelice di un matrimonio che non voleva, più probabilmente entrambi: “Per la prima volta, mi sentiva pronunciare la parola «morale». Quella parola capitò a meraviglia, giacché anche lei, così poco cattiva, doveva pur attraversare crisi di coscienza, come me, sulla moralità del nostro amore”. Alla fine il protagonista troverà nel “richiamo all’ordine” la soluzione al tabù della differenza d’età e alla riprovazione dell’amare la donna di un soldato in guerra: “L’ordine, alla lunga si dispone spontaneamente attorno alle cose” si legge nelle righe finali del romanzo, concluso da una tragedia ma vivificato dalla speranza.

2009

 

Le diable au corps
1947
Real. : Claude Autant-Lara
Gérard PHILIPE

Collection Christophel

UNA SCENA DA “LE DIABLE AU CORPS” DI AUTANT-LARA, 1947