sabato 21 maggio 2011

Un giorno di giugno del 1978


“Amati nomi, ore bruciate.” 
  LIBERO DE LIBERO

Era un giorno di giugno. Il 1978. Il pullman della scuola ci portava via per sempre da quei campi spelacchiati da tanto correre dietro a un pallone, da quella palestra dove giocavamo a pallacanestro, da quelle mezzore perdute a stringere le manopole del calciobalilla, da quei corridoi profumati di lavanda dove si aprivano le porte delle aule. L'esame di licenza media sarebbe stato l'ultimo atto per noi in quel posto. Eppure neanche ci pensavamo in quel momento, felici per aver terminato il compito, per essere finalmente pronti a iniziare tre lunghi mesi di vacanze spensierate. Si parlava dei  Mondiali d'Argentina: qualcuno diceva che "se siamo arrivati in semifinale, dobbiamo baciare i piedi a Kempes per quel gol alla Germania", "Però l'Olanda" diceva un altro "ha un gioco che fa impressione, avete visto Neeskens come tiene il campo?". E intanto paragonavamo quei grandi nomi alle nostre movenze sulla sabbia, con le scarpe da tennis di tutti i giorni e il vestito solito, i blue-jeans, la maglietta, il pullover: rincorrevamo a frotte il pallone, non lo passavamo quasi mai, l'epiteto "veneziano" era all'ordine di ogni azione. Tutto era finito, ma non ce ne rendevamo conto. Come se domani il nostro posto fosse ancora lì, come se a settembre le nostre strade fossero dirette ancora in quel luogo: invece molti sarebbero andati a lavorare, altri avrebbero intrapreso il biennio di un istituto tecnico, qualcuno si sarebbe arruolato tra i geometri e i ragionieri, pochi altri avrebbero scalato le vette del liceo scientifico e del liceo classico. E soprattutto non ci saremmo rivisti mai più, se non a distanza di anni, invecchiati, fortemente nostalgici per quei giorni che allora scivolavano via frizzanti e dolci come la gazzosa, come la Royal Crown Cola che si poteva comprare alla macchinetta della mensa.

Era già ieri quel giorno di giugno del 1978, era uno di quei momenti che costellano le nostre vite come se si piantasse uno spillo con la bandierina sul grafico dei giorni, degli anni. Aspettavamo che il pullman finalmente partisse e ci riportasse a casa, fuori altri ragazzi giocavano con un frisbee nel piazzale d'asfalto: attendevano che arrivasse il loro pullman, diretto su un altro tragitto ad altri paesi del circondario. Forse quel nostro atteggiamento non era altro che una forma di difesa: un anno dopo avrei potuto chiamarlo già carpe diem, un vivere dell'attimo per non pensare al futuro, per ignorare quel peso nel cuore che ci diceva che ancora una volta ci toccava ricominciare con altra gente e nuovi timori, con la paura di non farcela, di non riuscire a superare la prova. Io, per esempio, nei primissimi giorni di quel triennio alle medie, avevo avuto i miei problemi: una volta ero tornato indietro mentre già andavo a prendere il pullman, ai miei genitori dissi che stavo male, ma loro sapevano bene che cosa avessi. Mi consolarono, mi confortarono, e poi acconsentii quando mio padre si propose di accompagnarmi in macchina a scuola prima di andare al lavoro.

Il pullman partì. Nelle sue soste cominciavano a scendere gli amici: li si salutava così, come sempre. E non li avremmo rivisti per lunghissimi anni. Ci saremmo ritrovati soltanto uomini fatti, davanti a una tavola imbandita: invece della gazzosa, il vino dolce e amaro dei ricordi.


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Fotografia © Collegio Sant’Antonio