sabato 8 ottobre 2011

Il 30 settembre

 

Era il 30 settembre. Avevo appena compiuto ventun anni, lei stava per compiere i venti. Mi aveva telefonato qualche giorno prima: grande fu la sorpresa quando mi passarono la cornetta e mi dissero “È Marta…” Voleva sapere come stessi, riallacciare i rapporti dopo l’estate, la prima che non avessimo trascorso insieme da sette anni. Aveva lasciato nell’aria l’idea di un incontro, un appuntamento che vibrava come un punto di domanda, senza specificare una data, una modalità.

Avrei dovuto avvisarla, fissare in anticipo – l’esperienza è un biglietto della lotteria scaduto che vale milioni ma che non è possibile in alcun modo riscuotere. Avrei dovuto, ma la gioventù coniuga l’incoscienza e la stupidità: così partii in treno, raggiunsi Milano e le telefonai da una cabina di Porta Garibaldi. Non era seccata, forse un po’ stupita. Certamente pensava che lasciassi passare qualche giorno, che non mi precipitassi dal sabato al lunedì. Ero impaziente di vederla, questo fu il mio errore principale, non sapere resistere all’ansia del desiderio, al dolce logorio dell’attesa. Insomma, alla fine mi disse che mi sarebbe venuta a prendere alle dieci all’uscita della metropolitana a Gioia. E lì cominciai a fantasticare su quel gioco di parole, a presagire, a pronosticare su gioia e felicità.

Arrivò un po’ in ritardo, scendendo dalla Mini bianca che le avevo visto guidare al mare. Indossava uno spolverino chiaro che la faceva un po’ signora ma straordinariamente donna con i collant e le scarpe con il tacco. In quel momento era bella come non lo era stata mai – era una dea discesa dall’Olimpo a condividere l’ambrosia con me. Salii in macchina e mi condusse nella piazza dove si affacciava la sua casa, un edificio di inizio secolo intonacato di giallo. Parcheggiò davanti a un ristorante e attraverso un andito scuro raggiungemmo il suo appartamento, al primo piano. Mi fece accomodare in soggiorno: c’erano due poltrone e un divano di pelle color rame posati su un tappeto orientale, i mobili erano lavorati in stile antico: su uno scaffale c’era uno stereo con qualche musicassetta, alle pareti dei quadri. Il suo labrador dormiva sul pavimento.

Dalla finestra aperta entravano i rumori della città: traffico e macchinari. La veduta era da quadro di Sironi: opifici e ciminiere, il sole pallido aumentava la sensazione. Mi parlò di come aveva passato l’estate con i suoi nuovi misteriosi amici: la Grecia e le bevute di ouzo, le brioches comprate all’alba nei panifici di Riccione. Io le dissi di Lignano, di come la compagnia si fosse sciolta e riformata attorno ad un nucleo nuovo, con ragazze belghe e ragazzini italiani. Tutto sembrava strano, diverso da come me l’ero immaginato. Mi ero pentito di essere stato così precipitoso, di essermi mostrato vulnerabile, preso da quell’orgasmo di incontrarla. Sedevo lì e pensavo già di andarmene. Quando mi chiese di restare a pranzo, declinai l’invito adducendo un impegno improrogabile che non avevo. In una parola fuggii.

Con la Mini bianca mi accompagnò alla stazione. La guardavo attenta nella guida, le osservavo le gambe svelte schiacciare frizione, acceleratore e freno e scoprirsi sempre più nella foga. A un incrocio tagliò la strada a un’altra vettura e quasi inchiodò: la donna la volante la apostrofò “Scema!”. Mi sembrò che la magia che si era andata ricreando con quel po’ di erotismo delle sue gambe velate dai collant si fosse improvvisamente infranta su quell’epiteto, al pari di una lucente bolla di sapone che tocca un oggetto e svanisce, o di un palloncino colorato sfuggito dalla mano di un bambino che esplode su un ramo spinoso.

Ci salutammo davanti alla stazione, frettolosamente. Non c’era parcheggio e il mio treno sarebbe partito di lì a pochi minuti. Ci scambiammo i soliti baci sulle guance, poi lei salì in auto e partii. La guardai ancora muoversi nel traffico, vidi la Mini scomparire nel fiume di veicoli che scorreva in Via Vitruvio ed entrai in Centrale.

Non la vidi più.

 

DIPINTO DI JACK VETTRIANO

sabato 1 ottobre 2011

Il pranzo scolastico

 

Sto leggendo un libro che promette “lezioni di scrittura creativa”. Uno dei capitoli invita a cimentarsi in un racconto sul “pranzo scolastico”. Naturalmente, essendo il libro scritto da un’americana, fa riferimento alla tradizione statunitense di portarsi il pranzo da casa: un panino con burro d’arachidi oppure con mortadella, senape e insalata o ancora con marmellata di ciliegie. Come Charlie Brown, quando siede su una panchina guardando la ragazzina dai capelli rossi e smaniando per lei: un morso, un sospiro, un morso, un po’ di autocommiserazione, un morso, un altro sospiro, finché non arrivano Linus o Lucy a chiudere la striscia con una battuta.

“Va bene, accetto la sfida, cara signora Anne che insegni scrittura creativa”. Anche perché la scorsa domenica sono ritornato in quella scuola media, anzi di più, proprio in quella mensa – in realtà la chiamavamo refettorio – e ci ho anche pranzato con una decina di compagni di classe di allora, rinverdendo i ricordi poiché alcuni di loro tornavano lì per la prima volta dopo 33 anni! Tutto cambiato naturalmente: le spartane sedie di laminato plastico finto legno si sono trasformate in sedili di resina verde brillante, le pareti giallo pallido sono ora dipinte per un gran tratto di arancione, è spuntato “l’angolo del self per i ragazzi”, l’austerità antica degli Anni Settanta si è stemperata nella folle girandola dei Duemila. Resistono imperterriti però, come dei fossili di quel tempo, i bicchieri della Duralex, quelli economici e quasi infrangibili: invece che con l’acqua di rubinetto che veniva servita in bottiglioni da due litri, li abbiamo riempiti con Barbera, Chardonnay e acqua minerale da bottiglie in PET. Eh, questi capelli diradati o ingrigiti, queste pancette, queste rughe qualche diritto ce lo daranno…

E lì seduti, mentre pranzavamo e mangiavamo gli affettati, i salatini e i tomini dell’antipasto, le lasagne e il risotto con i funghi del bis di primi, la cima ripiena con contorno di patate arrosto e infine la torta, ci siamo abbandonati anche ai ricordi del pranzo scolastico. La prima cosa: tutti indistintamente odiavamo i bastoncini di pesce – ce li davano il venerdì – tanto da non essere più in grado non solo di mangiarli, ma neppure di sopportarne la vista, da avere l’istinto di sparare al capitano quando appare in televisione per pubblicizzarli. Seconda cosa: tutti apprezzavamo quella che allora chiamavamo “pizza”, ma che in realtà era un panzerotto, o meglio un sofficino – che tra parentesi per ironia della sorte è un prodotto della stessa ditta – che ci veniva servito il giovedì. Il lunedì invariabilmente c’era l’affettato: cinque fette di salame di tipo Milano oppure tre di prosciutto cotto o cinque di coppa o ancora quattro o cinque di tacchino; il martedì era il turno della bistecca di manzo; il mercoledì ci veniva servito il pollo; il sabato, grazie a Dio, tornavamo a casa alle 12. C’era anche qualcosa di contorno: verdure lesse o patate. E c’era naturalmente anche un primo: pasta al sugo, risotto allo zafferano, qualche volta un’altra cosa che tutti abbiamo scoperto di odiare visceralmente: la polenta con un ragù piuttosto oleoso. Per finire un frutto di stagione: una pera, una mela, un’arancia, un paio di mandarini oppure un cachi – io lo so perché odio il cachi, perché ero costretto a mangiarlo allora.

Non erano previsti menù particolari per celiaci, vegetariani o musulmani: della celiachia in quel periodo neanche se ne parlava, i vegetariani erano stravaganti hippies e i musulmani neppure esistevano in Italia; le stranezze maggiori erano un compagno di classe che aveva la madre ebrea e un altro con origini istriane, se proprio c’era qualcuno delicato di stomaco gli portavano la pasta in bianco. Piuttosto, ciò che regnava in quel refettorio – lo chiamo ancora così, anche perché lo gestivano i frati – era una grande disciplina: per ogni mancanza si veniva puniti rimanendo per qualche minuto a guardare il muro. Rovesciavi distrattamente l’acqua sulla tovaglia: al muro! Facevi cadere la forchetta sul pavimento: al muro! Non finivi la tua michetta: al muro! Disturbavi: al muro! Il servizio militare, a noi che lo abbiamo provato, è sembrato meno duro del collegio, e potete credermi se vi dico che è vero. Io ero e sono molto disciplinato, tanto che non ho scontato neppure un giorno di punizione tra gli alpini del Reparto Comando e Trasmissioni Orobica. Invece lì, in quel refettorio, qualche volta il muro l’ho guardato…

Uscendo, abbiamo visto altri “totem”: le lunghe vasche con i rubinetti dove ci si lavava le mani prima di entrare – e ce n’era bisogno, visto che passavamo la ricreazione a giocare a pallone o a rincorrerci nei “quattro cantoni” – e il magazzino dove per cento o duecento lire si poteva acquistare una bottiglia di Royal Crown Cola o di gazzosa o di aranciata. Siamo stati anche a gironzolare per i corridoi e per le aule e ci sembrava che da un momento all’altro dovesse arrivare il compagno mandato in cucina con il cesto per la merenda. Chissà, forse oggi ci sarebbe stata la focaccia dolce o il panino con il salame o con la Nutella, o magari il cubetto di cotognata… Se c’era la tavoletta di cioccolato, qualcuno sarebbe poi passato a raccogliere la stagnola per i ciechi.

 

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FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA