sabato 28 luglio 2018

Ringhiera sul mare


Il tuo sguardo all'improvviso si accese di una venatura maliziosa, un sottile lampo come talora ne capitano nelle sere estive di grande calura. Un luccichio lontano, un effimero scintillio come quello di una randa che si abbassi all'orizzonte nell'ultimo tramonto.

Con la mano indicasti un punto nel vago: poteva essere la punta dove andavano accendendosi le luci e il mare si oscurava cadendo in un grigio senza fondo o il pontile dove i ragazzi si attardavano a pescare i granchi con le corde e le mollette da bucato. O ancora un largo tratto della spiaggia dove gli ombrelloni incappucciati montavano la guardia ai rari bagnanti rimasti sul bagnasciuga.
Il gesto che facesti era al contempo nobile e lezioso, antico movimento di principessa, di dama di corte che lascia cadere il fazzoletto in attesa che un paggio lo raccolga con celerità. Guardai dove guardavi tu, il vasto angolo indicato dalla mano: sembrava che restasse la fosforescenza di quella movenza del braccio.

Non vidi nulla: gabbiani che planavano, pescherecci lontani immersi nell'ultima luce, casoni dai tetti di paglia, onde che portavano alla deriva oscuri intrecci di alghe, gli alti palazzi della costa dove migliaia di persone si facevano la doccia e si cospargevano di creme doposole al termine di una giornata passata in spiaggia.

Il vento che soffiava dal mare ti incollava il vestito a fiorellini di disegno provenzale sul seno e sulle gambe, ti disegnava l'incavo del ventre, ti scompigliava i capelli e mi sferzava il viso con le loro ciocche. La ringhiera verde scottava ancora per il calore raccolto durante il giorno, ma sembrava che anche dal tuo corpo emanasse quel calore, una febbre delirante e improvvisa.

“Non c'è più” dicesti e io restavo lì sbigottito indagando ancora su cosa mai avesse voluto manifestarsi ai tuoi occhi e non ai miei. Il vento continuava a soffiare, scuoteva le chiome degli oleandri come se volesse strapparli dalla terra, alzava la sabbia livellando i milioni di impronte che segnavano la spiaggia: l'indomani, i primi visitatori del mattino avrebbero trovato una lavagna liscia e fredda e avrebbero cominciato a raccogliere le conchiglie portate a riva dalla notte.

1993

Lynch
BRETT LYNCH, “LA BREZZA DELL’OCEANO”













sabato 21 luglio 2018

La luna


Ventuno luglio. Sono passati tanti anni ormai da quella notte dei televisori accesi sulla Luna. Il revival ha sempre un sapore dolce e amaro di nostalgia. La televisione manda ancora le immagini di allora nelle case italiane. Io ero davvero molto piccolo, nella mia memoria tutto è avvolto nella nebbia: ricordo solo papà che mi ha svegliato e diceva: “Guarda, l’uomo sulla Luna”. Il giorno dopo avevo la febbre e rimasi davanti alla tivù invece di uscire nel sole a giocare. E tutto il giorno la Luna era lì, con me. Non riuscivo ancora a rendermi conto dell’importanza dell’evento. Mi chiedevo perché non ci fossero i cartoni animati: Braccobaldo, Speedy Gonzales, Bugs Bunny.

Ventuno luglio, tanti anni in più. Il bar si sta svuotando lentamente, la Luna forse ha perso il suo fascino. Nella sera d’estate turisti tedeschi fanno chiasso all’aperto: hanno incolonnato bottiglie vuote di Traminer come se fossero un esercito in marcia verso il bordo del tavolo. Una ragazza alta e bruna saluta e se ne va a cercare fortuna nella sera di mare illuminata dalla luna, bassa e tonda. Chissà com’era quella notte la luna... io non me lo ricordo. Il televisore rinnova ancora la gloria di Armstrong, Aldrin e Collins; la ragazza alta e bruna forse non ci pensa nemmeno, non era neppure nata nel 1969: guarda la luna e sogna l’amore.

Esco anch’io a cercare fortuna: è un risveglio per ritrovarmi fuori dall’aria condizionata del bar a ricordarmi di un sogno che ho fatto ma rimane confuso, ogni sforzo è un’ulteriore conferma della sua inutilità. “Come va?” mi chiedo. Un po’ meglio, grazie. Mi sembra che qualcosa potrò fare o almeno tentare: colgo segni di speranza, solitudini che si uniscono non sono che dolori leniti. Il tempo si mantiene buono. Il tempo è un nostro alleato.

La luna piena si alza, sembra quasi che mi guardi e mi schernisca. Non ci sei tu stasera accanto a me e mi sto perdendo in tutto questo blu che mi circonda. La luna è il vortice in cui mi sento attirare. All’angolo c’è Pino che mi aspetta, dobbiamo fare compere stasera. In centro troviamo il nostro negozio, nascosto tra le luci della città. La commessa ha un abito nero che la fascia tutta, sembra quasi nuda. La immaginiamo già nuda io e il mio amico che stasera divide con me la tua assenza. Già, non lo conosci: Pino è l’opposto di me: parla, parla, parla sempre. Certo, forse è anche per via del suo lavoro: scrive su un giornale. Forse tu lo troveresti simpatico, ma non ti piacerebbe, lo so. Gli parlo della ragazza del bar, della storia della luna, mentre lui si prova una camicia. Mi dice che potrebbe fare per me, anche perché è molto più giovane. “Ma chi vuoi prendere in giro? “gli butto lì tra l’acido e il divertito. Pino paga la camicia e comincia a filosofare: “Il fatto è che ti manca una donna. Ma credimi: non è lei, almeno quella lei, la donna giusta per te. Hai solo bisogno di aspettare: vedrai che prima o poi la troverai”.

Prima o poi. Quel “poi” mi preoccupa un po’. Io vorrei parlargli di te, della donna giusta che mi è sfuggita di mano, delle volte che mi sentivo il cuore scoppiare quando credevo di vederti... Ma temo che Pino possa non capire, possa fraintendere la mia sincerità. Nelle mie mani senza amore stringo forte un bicchiere di birra Schneider, bruna, ha il colore dei tuoi capelli. Pino mi guarda e forse intuisce che sto pensando a te. Il cantante del piano-bar non ha pietà: canta “Tanta voglia di lei” con molto trasporto. La luna piena è salita, ora è un grosso bottone attaccato in mezzo al cielo con Armstrong, Aldrin, Collins e tutto il resto. Forse solo la luna stasera sa quanta voglia ho di te.

Luglio 1989



Moon Landing Wallpapers 3

sabato 14 luglio 2018

L’amore e l’amicizia


La spiaggia era il nostro regno, il luogo dove cementavamo l’amicizia e la spingevamo un po’ più in là, verso la strada che conduce all’amore. Lei amava parlare di questa distinzione: si chiedeva se il rapporto tra un uomo e una donna potesse basarsi solo sull’amicizia o se inevitabilmente dovesse scivolare lungo la china dell’amore. Non avevamo risposte: ci limitavamo a percorrerla quella discesa, a rotolarci piano, giorno dopo giorno di quell’estate dorata e intensa. Un’altra domanda avremmo dovuto però formulare: una volta che una bella amicizia si è trasformata in amore, può, finito l’amore, ritornare amicizia?

Restavamo sotto l’ombrellone a leggere e a risolvere cruciverba, a raccontarci, a ridere: l’amicizia appunto, ma già l’amore penetrava dagli interstizi, lo si poteva arguire da certi sguardi, da un certo sfiorarsi apparentemente casuale dei corpi, dalla dolcezza che mettevamo nel rito di spalmare la crema sulla sua schiena. E facevamo lunghe passeggiate sulla battigia, ci confessavamo segreti che non avevamo detto a nessuno: l’amicizia era già superata, il labile confine era distrutto da certi suoi sorrisi che mi ammaliavano, da certi miei sguardi che la attraevano. L’invasione era in atto, sarebbe bastato poco a completarla: un bacio come un lancio di paracadutisti, come una colonna di carri armati in rapida avanzata.

Accadde una sera nella pineta resa fresca da una mareggiata: un brivido la scosse e la tirai a me per riscaldarla. Le nostre bocche erano vicine, le labbra si unirono come calamite di polo opposto. Il tempo sembrò fermarsi: la luna ferma nel cielo rendeva immobile ogni cosa, solo il rumore cattivo del mare si sentiva lontano, monotono, uniforme nel suo sciabordare. Restammo a lungo abbracciati, ormai la città era caduta, l’assedio terminato.

E l’amore fu, amore intenso e vivace che nasceva dalla precedente frequentazione come amici e poggiava su quelle basi, si innalzava su quelle fondamenta che ritenevamo essere granito, basalto, marmo indeformabile e indistruttibile. Ahimè, erano pinnacoli di sabbia, come quelli dei castelli che i ragazzini costruivano in spiaggia. Sabbia friabile, instabile, pronta a lasciarsi erodere dal vento, a farsi trascinare via dalle onde. Il tempo passò, l’autunno e l’inverno subentrarono all’estate e tutto crollò. E lì la domanda che non ci eravamo posti emerse in tutta la sua drammaticità: l’amicizia sopravvive all’amore? Io dissi di sì, ma l’amore forse era ancora in me. Lei disse di no, e dentro certamente le prevaleva il rancore, la rabbia dolorosa che le donne deluse sono in grado di innalzare a punizione. Giungemmo a un compromesso: non dimenticare tutto ciò che di bello c’era stato nella nostra amicizia. E quello alla fine sopravvisse: il ricordo di istanti felici.


2010






sabato 7 luglio 2018

Signora


Con il cappotto nero da signora e i collant scuri che velano le belle gambe affusolate, Alessandra è in ritardo per il regionale delle otto e diciotto per Milano. Non corre – una signora non corre mai – ma affretta il passo sul lungo viale che porta alla stazione. Il semaforo è rosso già da un pezzo, le sbarre del passaggio a livello sono abbassate. Ne aveva sentito lo scampanellare quando stava chiudendo la portiera dell’auto.

Ha accompagnato i figli a scuola: il maggiore alle elementari, il piccolo all’asilo. Quando è arrivata alla stazione, naturalmente non è riuscita a trovare parcheggio. Sempre così. I posti migliori se li accaparrano quelli che prendono i primi treni del mattino. Ѐ riuscita a lasciare la Ford Mondeo a un chilometro dalla stazione, nello spiazzo davanti a un gruppo di villette: c’era il cartello “Riservato ai condomini”, ma in quel momento la sua priorità era riuscire a salire su quel maledetto regionale delle otto e diciotto. E mancavano solo cinque minuti...

Tornavo dall’edicola con i miei giornali quando l’ho incrociata. Ciao. Ciao. I suoi capelli nel passo affrettato erano diventati una medusa rossa che si agitava al vento freddo d’inverno, i tacchi a stiletto delle sue scarpe producevano un ritmico suono sull’asfalto consunto del marciapiedi, il treno si annunciava in arrivo con un fischio prolungato.

Mi sono voltato per vedere se Alessandra sarebbe riuscita a salire sul treno per Milano. Nel ricordo era ancora la ragazza con i blue-jeans slavati e le scarpe da tennis, con la maglietta estiva a maniche corte e la chitarra classica, si cantava tutti insieme attorno al fuoco o in un pomeriggio lungo di domenica. Si parlava di cinema e di letteratura su un vecchio treno dalle panche di legno. Si scherzava certe sere in pizzeria, con la luna intinta nei bicchieri di birra. Ma si sa che il ricordo è una lente deformante: ingigantisce a dismisura i dettagli della nostalgia, alimenta leggende e speranze, fa di illusioni sogni e di sogni realtà...

Alessandra è salita sul regionale delle otto e diciotto appena in tempo, subito dopo si sono chiuse le porte automatiche. Non aveva a tracolla la chitarra, ma una borsa da manager.

2010


DIPINTO DI ANDRE KOHN