sabato 20 gennaio 2018

Fitzgeraldiana


Una sera di giugno, travolto da un'auto, moriva John J. Fisher. Era una sera resa fresca da un forte vento che spazzava dal cielo luminose nuvole violette e faceva cadere i cappelli dalle teste degli uomini e scompigliava i capelli delle donne.

John J. Fisher era nato a Missoula, nel Montana, e là aveva vissuto per ventitré anni, in una casa di legno nei pressi del fiume Blackfoot, aiutando il padre a tenere i conti e i rapporti con i fornitori dell'industria di conserve e frequentando l'Università di Stato. Due mesi dopo la laurea e la grande festa data in suo onore con balli, belle ragazze e fiumi di bourbon, si era trasferito in treno a New York e là, grazie a un sapiente giro di amicizie, trovò un appartamento in affitto nella Quarantaquattresima Strada e lo adattò in modo che gli facesse anche da ufficio per la sua professione di avvocato.

John era aitante e sapeva fare presa su chiunque con la sua simpatia e i suoi modi garbati ed eleganti: già una settimana dopo il suo arrivo a New York metteva così piede in una festa nella Cinquantaseiesima Strada, invitato dall'uomo che gli aveva affittato l'appartamento, Archie Porter, un ricco proprietario che aveva incrementato il suo patrimonio rilevando per poche migliaia di dollari gli immobili di gente sull'orlo del fallimento all'epoca della Grande Depressione. Archie aveva una sensibilità particolare nel contrattare il prezzo d'acquisto e un'abilità incredibile nello stimare, o meglio nel sottostimare senza sopralluoghi il valore degli immobili.

Alle otto Archie Porter arrivò con la sua lussuosa automobile nella Quarantaquattresima Strada e vide subito John J. Fisher venirgli incontro e aprire la portiera. John indossava uno smoking forse troppo corto e Archie lo guardò a lungo con aria divertita finché il giovanotto del Montana non sbottò in un "Allora, andiamo?" che risuonò più dolce che indispettito.
La festa era in un alto palazzo dalle finestre illuminate: c'era un ampio salone con statue in stile rococò e un'orchestrina jazz che suonava in un angolo, su un palco addobbato con gonfi tendaggi color pesca. Nel mezzo della sala, addossato al muro, spiccava il buffet, con il rinfresco e le bottiglie di whisky e di champagne, i bicchieri ancora vuoti e le bocce per il punch, piene di un liquido rosso. In breve la sala si popolò di volti sconosciuti per John ma che Archie Porter riconosceva e si affrettava a riverire presentando anche il giovane avvocato di Missoula. Si diede il via alle danze e furono stappate le bottiglie e riempiti i bicchieri.
All'improvviso una graziosa figura sorprese John: una giovane donna dai lunghi capelli biondi fasciata da un abito nero. La ragazza lasciò una scia di profumo passando davanti ai due uomini per servirsi al buffet. John chiese: "Archie, la conosci quella sirena?". "È la figlia di Anderson, il padrone delle ferramenta: si chiama Annie, Se vuoi, te la presento..." Mezz'ora dopo Annie e John ballavano al centro della sala, i volti accesi dal jazz e dal vino, ed erano la coppia più ammirata di danzatori.

"Lei è molto bella" disse John e il suo sguardo rivelava tutta l'ammirazione che nutriva per Annie, era il segnale più vistoso e impossibile da celare del suo innamoramento. Annie si schermiva, pur essendo ben consapevole della sua bellezza sin dai tempi del college, quando torme di adolescenti le ronzavano attorno come api sul fiore più bello e più ricco di nettare. La sua voce calda era dolcissima: "Venga a trovarmi qualche volta: sto a Manhattan, Pearl Street, proprio a due passi dalla Fraunces Tavern", disse salendo sulla Cord che l'avrebbe condotta via. Salutò ancora con la mano mentre l'auto partiva.
John J, Fisher rimase lì sul bordo della strada, la guardava svanire all'interno dell'auto che rimpiccioliva sempre più avanzando sulla Cinquantaseiesima Strada. "Sono felice" pensò, "Sono felice e innamorato". Non si accorse neppure di morire quando una Ford T nera guidata da un ubriaco lo travolse. "Sono felice" continuava a pensare...


1991


Dupre

KAREN DUPRÉ, “AVEC MOI IV”


sabato 13 gennaio 2018

La mattina, sul balcone


La mattina, quando mi alzo, amo uscire sul balcone e rimanere lì a lungo a osservare la gente, il traffico, le nuvole che cambiano forma e colore nel cielo dell'alba.

Questa mattina, ad esempio, pioveva. Sono uscito sotto un cielo grigio che andava schiarendosi già verso sud, dove l'azzurro a grandi passi si faceva strada lasciando bioccoli di nuvole. Il cielo si rifletteva nelle pozzanghere che riempivano la strada, i cirri sembravano fuggire verso il prato. La gente se ne andava frettolosa verso la stazione sotto gli ombrelli. C'era una ragazza che ne aveva uno meraviglioso, con un grosso fiore rosso stampato. I fari delle automobili si disperdevano in linee gialle sul cellofan bagnato dell'asfalto. Fantastico! Un'aria frizzantina si diffondeva tutto intorno nell'aprile fiorito. La respiravo a pieni polmoni.

Poi, come ogni mattina, quando mi sono stancato di osservare il mondo dal balcone, sono salito sulla balaustra e ho spiccato il volo, mi sono librato a lungo sulla strada, sono andato a curiosare alla stazione. Be', che c'è di strano? Perché quelle facce? Sono un piccione...


2009


cote-d-azur

PABLO PICASSO, “COTE D’AZUR", 1957