sabato 25 giugno 2016

Il marinaio immobile

 

Il cielo è quello tipico delle località del mare al primo mattino - le nuvole sospinte verso la costa, la foschia sottile che avvolge i moli come un fruscio prima di svanire nei vapori dell'alba per lasciare il posto all'aria carica di sale. Lei dorme ancora tra le lenzuola bianche, giace prona schiacciando il seno sul materasso, le gambe appena piegate, i capelli sparsi fanno pensare a un'attinia che si muova nella corrente di un fondale. Io invece, seduto al tavolino guardo dalla finestra l'alba che irrompe, il taffetà cangiante del mare, pescherecci lontani che si apprestano a rientrare.

È questo il mio Tropico, questa la mia avventura: sono il marinaio immobile che scopre la grazia nelle luci che tremolano evanescenti, nelle fiamme che guizzano sulle onde. Così, quando la notte intuisco la costa nel buio, sento la gioia venire fino a me, una felicità umile e gentile, una commozione dolce e divina che mi avviluppa al caldo, che nelle coltri dell'oscurità mi fa sentire sicuro e libero di andare, anche se so che non partirò: ne sono comunque permeato, illuminato da questa certezza. Altri andranno ad affrontare il maelstrom, a perdersi nei ghiacci delle banchise, a inseguire i loro fantasmi sulle baleniere, a sporcarsi di carbone su inaffondabili Titanic, oppure perderanno l'ago della bussola nelle tempeste magnetiche.

A me basta questo cielo paglierino che ora riflette i suoi stendardi di nuvole nella superficie del caffè, la tazza un lago dove i pensieri navigano sdruciti per approdare poi sicuri alle rive. A me basta questo presente di giorni uguali scanditi solo dallo scorrere della stagione e condividere la vita con lei che adesso naviga lontano nei sogni e che presto si sveglierà per chiedere nuovo amore. È dolce ricordare da un porto sicuro le tempeste passate.

 

Daines

DIPINTO DI SHERREE VALENTINE DAINES

sabato 18 giugno 2016

Il fruscio del vinile

 

“La voce di una giovane ragazza
cantava dolcemente queste parole”.
THOMAS PYNCHON, V.

Un vecchio disco suona i miei ricordi e mi sorprende il fruscio del vinile, l'imperfezione che mi apre gli occhi e mi dice quanto tempo sia passato - del resto non ho nemmeno più l'abitudine a estrarre il disco dalla busta, spolverarlo con l’apposita spazzolina antistatica, collocarlo sul giradischi e infine posare attento la puntina tra un microsolco e l'altro: sono impacciati i miei gesti, desueti, da fruitore di nuove tecnologie, da ascoltatore di brani in mp3 scaricati da iTunes, di canzoni digitali suonate su Spotify, ora che non ho bisogno più neppure dell’asettica custodia dei CD.

Ascoltando quella musica, mi ha subito sopraffatto il senso del mio tempo perduto: come un succo denso di ore irrimediabilmente passate, lontane, come se soltanto adesso mi fossi reso conto del trascorrere del tempo, del suo volgere continuo, eracliteo. Anche i ricordi sembrano diversi, lontani, come se li avesse vissuti un altro. Sembrano assumere addirittura una rilevanza diversa, mi sembra che sia insignificante ciò cui davo valore e viceversa più importante ciò che ignoravo perché consideravo irrilevante. I dettagli si ingigantiscono, la lente del tempo riesce a mettere finalmente a fuoco le distanze, a collocare nel loro giusto incastro le tessere di quel puzzle.

C’è quella canzone dei Matt Bianco che piaceva a lei, che ci piaceva tanto: la ascoltavamo in spiaggia sulla radio, la cantavamo sulle biciclette, la ballavamo la sera dentro i bar... Shua Doo Doo-Ah Sneaking out the back door with a grin I move along when things are going wrong la voce della corista, l’assolo delle trombe, le percussioni... Mi sembra di risentire distintamente il profumo dello shampoo alla mela con cui si lavava i capelli, riesco a immaginarmi con precisione il suo volto, i gesti consueti con cui mi invitava, la vedo riempire cruciverba con una matita verde mordicchiando il gommino, il movimento con cui si legava i capelli con il nastro… Ma il mio amore per lei – ora sì lo posso dire, ora che tanto tempo è passato e finalmente vedo chiaramente nelle cose – era un grumo di nostalgia, in esso avevo impastato la malinconia che contrassegna certe gioventù. Non poteva durare.

Quanto ho amato quegli anni perduti quanto ho amato quei dischi di plastica – ci sembravano brutte le canzoni, invece se ascolti quelle di adesso, le confronti ed erano proprio belle. Quanto ho amato quei giorni in cui si badava ad apparire piuttosto che ad essere e invece io ero anticonformista anche più di ora. E li ho amati, quegli anni, perché ho amato lei. E chissà dove è adesso e che cosa farà la ragazza che avevo ribattezzato «Miss Shua Doo Doo-Ah»…

Tolgo il vinile con gesti insicuri e lo ripongo nella sua custodia riponendovi anche i miei ricordi.

 

LP

FOTOGRAFIA © AUDIOKLASSIKS

sabato 11 giugno 2016

La punizione

 

Solitamente chi sbaglia e viene scoperto, paga. Chi commette un illecito, chi parcheggia in divieto di sosta, chi va contro una norma o un regolamento imposto dallo stato o da qualsiasi comunità. Anch’io ho pagato le mie multe, ho subito i miei castighi. Ma, della mia vita, ricordo queste due occasioni in cui la meritata punizione non arrivò.

La prima: avevo 17 anni, frequentavo la seconda liceo classico e quel mattino tutta la scuola partecipò nei locali della Borsa a una conferenza su Luigi Pirandello. Noiosa assai, barbosa, pallosa. Fuori la città pulsava nel sole di primavera, il cielo era azzurro, i negozi erano aperti e invitanti. Dopo l’intervallo, presi e me ne andai raccogliendo per strada anche un ragazzo di prima liceo. Pur non essendoci lezione, tecnicamente bigiammo, anzi “impiccammo”, come si diceva a Bergamo: erano le 11 e la conferenza sarebbe durata fino alle 12.45, l’ora in cui mi fiondavo in stazione per prendere il treno dell’una; nessuno si sarebbe accorto che mancavo. Prendemmo la vicina funicolare e salimmo in Città Alta, girovagammo per i vicoli medievali, comprammo una focaccia ciascuno e ci sedemmo a mangiarla sulle Mura guardando in basso il formicaio della città muoversi nel sole di maggio. Scendemmo per tempo e all’una, salutato il mio occasionale Pinocchio (dovevo essere io Lucignolo, se l’idea era stata mia), presi il treno e rincasai. Il giorno seguente la professoressa di latino e greco, appena entrata e sistemata sulla cattedra, mi chiamò - era diventata rossa, sintomo inconfondibile che segnalava la sua collera, anche se teneva un tono di voce perfettamente normale. «Ti è piaciuta la conferenza su Pirandello?». Raccolsi tutto il mio candore, rimasi perfettamente calmo e risposi «Sì», senza neppure arrossire. La prof disse «Bene» e lo disse in un modo in cui mi fece capire di sapere perfettamente cosa avevo fatto. La storia finì lì e non fui sospeso, come avevo temuto. Non bigiai più...

Sei anni dopo non ero più un adolescente ma un ragazzo di 23 anni. Ero un soldato semplice dell’esercito italiano da un paio di mesi appena, un alpino - anche se secondo i gradi di caserma ero al posto più basso, “nipote di terza”. Mi trovavo al campo estivo di Ponte di Legno, nei boschi della Val Sozzine, alle pendici dell’Adamello. Quel giorno, erano i primi di luglio del 1988, l’intero campo era in fermento per l’arrivo di Giovanni Paolo II, che avrebbe celebrato messa in quota. Sarebbe atterrato con l’elicottero in un prato non lontano da noi e ci era stato tassativamente ordinato di non salire fino al punto di arrivo. Ma io quel giorno non avevo servizio - ed era un caso raro, perché ai “nipoti di terza” venivano affibbiati quasi ogni giorno. E a perdermi, come nel caso della conferenza di Pirandello, fu la noia, associata a una curiosità di vedere da vicino il pontefice polacco, che ho sempre stimato moltissimo. Così salii  lungo il pendio tenendomi chino tra l’erba alta. Non ero solo: arrivato al prato, scoprii che altri quattro o cinque alpini avevano avuto la mia stessa idea. L’elicottero con il papa atterrò, ma non riuscii a vederlo, perché spuntò il maggiore C. con la sua barba da ufficiale e qualche bicchierino già in corpo. Fuggimmo veloci, ci precipitammo lungo la discesa a rotta di collo. All’adunata della sera, il maggiore puntò la sua faccia paonazza verso la truppa radunata nello spiazzo tra i larici dove era stato collocato il pennone con la bandiera. «Avevo detto di non salire dove sarebbe atterrato l’elicottero!» disse con un’ombra di accento piemontese, «ma qualcuno non ha ascoltato le mie parole. Perciò i seguenti stiano puniti, 3 giorni di consegna semplice» e snocciolò i nomi di quelli che erano con me. Non il mio. Mi feci piccolo piccolo per quanto possibile, nascosi ancora di più il viso sotto la tesa del berretto da stupidi. Ma tutto finì lì né certo nessuno dei miei commilitoni fece la spia. Mi domandai perché nella lunga e fredda notte di guardia: forse, conclusi, essendo io da meno di un mese in quella caserma, il mio nome al maggiore C. non era ancora noto. Rigai dritto da lì in avanti, come avevo fatto a scuola dopo quella conferenza su Pirandello. Conclusi il mio anno di militare senza aver mai preso neppure un giorno di consegna.

E da allora ho fatto mio un motto dai Proverbi della Bibbia: «La punizione degli stupidi è la stupidità».

 

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sabato 4 giugno 2016

Le lettere d’amore

 

Le lettere, d’amore o meno, non si scrivono più: la tecnologia le ha cancellate dalla faccia della terra sostituendole con le asettiche e-mail e anche peggio con gli SMS prima e con i messaggi in chat o su Whatsapp dopo, facendo piombare il linguaggio in un abisso di k usate al posto del ch e di abbreviazioni numeriche o stenografiche spesso incomprensibili peggio di un cifrario.

Scriveva Pessoa nelle vesti del suo alter ego Álvaro de Campos: “Le lettere d’amore, se c’è l’amore, devono essere ridicole. Ma dopotutto solo coloro che non hanno mai scritto lettere d’amore sono ridicoli”. Certo, possono essere ridicole perché fuori contesto o perché, lette al di fuori della coppia cui sono riservate, diventano materiale per voyeur, o ancora perché contengono segreti che non devono essere rivelati. Ma in realtà - come Pessoa alias Álvaro de Campos sa bene, tanto da definire ridicoli coloro che non ne hanno mai scritte, un atto d’amore non può mai essere ridicolo.

In una scatola di cartone nell’armadio, con altri cimeli sopravvissuti miracolosamente al tempo (conchiglie, ciottoli levigati, monete, boccette di sabbia, biglietti del cinema, braccialetti, collanine, un suo nastro per legare i capelli) ho un bel plico di lettere d’amore scambiate nel corso degli Anni Ottanta con la mia ragazza di allora, che viveva in un’altra città – purtroppo non pensai all’epoca di tenere copia delle mie e neppure ricordo quali “capolavori” romantici le scrissi e posso soltanto desumere da qualche mia frase stralciata e riscritta da lei.

Quando apro quella scatola, quando tolgo le lettere dalle buste, mi sento catapultato in un’altra epoca, come se quel piccolo scrigno di cartone fosse una macchina del tempo: l’odore della carta, dell’inchiostro della biro con cui lei mi scriveva, dei profumi dolciastri e femminili con cui talora le spruzzava, sono l’essenza del tempo perduto, di un passato che non tornerà. Leggo di noi, come eravamo e come non siamo più, ma anche di band musicali che ricordo e che vedo ancora ingrassate e invecchiate bazzicare i programmi televisivi di memorie, di politici ormai consegnati alla storia o ghigliottinati dalle forche caudine di Mani Pulite.

Ne scorro ancora qualcuna, poi le metto via, le lego di nuovo con la fettuccia rossa di raso e le consegno a un altro momentaneo oblio rimuginando che Pessoa travestito da Álvaro de Campos in fondo aveva ragione…

 

Lettere

FOTOGRAFIA © FRENCH LARKSPUR