sabato 26 marzo 2016

Sogno non ricordato

 

C’erano Stephen e Julie e poi quella sciattona che viene di solito la domenica pomeriggio, che ride sguaiata come sempre e poi ancora l’immagine di come si vive laggiù, le notizie sparse racimolate in certi supplementi di quotidiani. È il sogno di stanotte, ho sognato stanotte? Perlomeno adesso non ricordo se ho sognato e tutta questa gente era nel mio sogno? Prima di tutto, prima di ogni cosa devo metabolizzare il sogno: bisogna ricordarlo perché tutto prosegua, rammentarne i personaggi e le parole, la parte recitata nel teatrino. Ma ricordo solo che mi ha svegliato il formicolio di una mano all’alba.

«Vedi, c’è una ragazza» disse l’uomo con i baffi, «una ragazza che farebbe per te». E sua moglie, quella donna grassa, aggiunse: «Insieme stareste davvero bene». E questa ragazza non l’ho vista, immaginavo una cena galante e le passeggiate domenicali avvolti nei cappotti invernali in attesa che fosse primavera. Ero felice, com’ero felice! Con velocità e con le mani libere, pattinando sul ghiaccio con le lame affilate, volteggiano i pensieri e si incasellano quasi da soli nelle parole, riempiono vestiti che vanno loro a pennello, le pieghe cadono con la grazia e l’eleganza delle pattinatrici e delle ballerine.

Sogno, sogno, non faccio che sognare. E sogno ad occhi aperti, ad occhi chiusi. Sogno di giorno, sogno di notte. Sogno altri luoghi, sogno altri momenti. E mi risveglio sempre nel presente. Non ho nulla da perdere né da trovare se lavorando sulle parole gioco tra i corpi delle attrici-statue (cosa saranno le immagini del sogno?) strenuamente continuo a suddividere il già suddiviso. Il viso dolce sorridente ammicca al niente dal piccolo cono d’ombra che vela più di quanto celi, che in fin dei conti in pratica rivela, quel viso bello e levigato, gemello di quel seno che più sotto s’erge, fortezza violata da una carezza ardentemente invocata. Quel viso che non appartiene al corpo ma che semmai spetta ad un’altra estasi, ad un romanticismo non sensuale, ad un amore platonico o tale da esaurirsi in vigore intellettuale.

Ma questo forse non era un sogno, no: era un pensiero, ma cosa non ricordo e questo è il tarlo che mi rode e che non si calmerà fino al momento in cui avrò ricordato. Cos’era? Cosa non ricordo? E perché la sua presenza era così forte da farmi male? Non riesco a ricostruire il luogo né le circostanze, né i fatti che si sono svolti, se ci siamo parlati, se ci siamo baciati e ci siamo amati, ricordo solamente quella forza irresistibile della presenza.

Sono strani questi miei commerci di sogni – gli scambi tra gli esploratori e gli indigeni: pezzi d’oro per conchiglie, argento contro cianfrusaglie. E in quelle isole senza spazio e tempo, in quelle isole dolcemente perse nella mente baratto l’oggi e l’ieri, in cambio del passato do il presente.  E sono contemporaneamente il venditore e l’acquirente. È un universo che possiedo quando immagino di avere la realtà e tra le mani ho null’altro che un sogno: ma non c’è sgomento o rimpianto al risveglio, soltanto la consapevolezza che nel sogno vivo un’altra vita.

1997

 

Schloe

DIPINTO DI CHRISTIAN SCHLOE

sabato 19 marzo 2016

Ritorno a Lignano Pineta

 

Sono tornato a Lignano Pineta, una fugace sosta di un’ora in attesa di raggiungere l’hotel prenotato a Sabbiadoro, pernottarvi e quindi ripartire per Trieste. Di certo qualche forza avrà guidato i nostri passi fino là, perché avremmo potuto sostare prima, in autostrada o sulla tre corsie che corre da Latisana a Lignano. E poi quel senso unico istituito da poco, quel fermarsi per vedere che strada prendere. Sceso per primo, ho faticato a comprendere che - proprio come Colombo - io toccavo terra, quasi per caso raggiungevo la mia India personale: quel punto. Era dove scambiammo il primo “Ciao” ed è proprio da lì che nacque tutto.

C’era un alone di magia. Non so se fossero le strade assolate, il rigoglio di maggio, la luce del primo pomeriggio. O l’aria così pulita, dove si avvertiva l’aroma della resina e un vago sentore di mare. C’era persino uno scoiattolo che si aggirava nel giardino di una seconda casa non ancora abitata.

Ho condotto Enrico, Mario e Paolo alla passeggiata a mare, ho raccontato la storia spiegando il tempo perduto, parlando di Anna. Li ho usati come un puntello per sostenere i miei ricordi. È stato piacevole guardare il mare e la spiaggia dall’alto, esporsi al sole e alla brezza.

Poi siamo entrati per un caffè all’Hotel ***: è stato completamente rinnovato, è mutata la gestione, ci sono volti nuovi e sconosciuti alla reception. Il bar ha ora un pavimento a scacchi bianchi e neri e un piano vi campeggia per le serate musicali. Ho visto anche la saletta dove guardavamo le partite dei mondiali di Spagna alla televisione.

Da lì siamo risaliti fino all’enoteca “La Pigna”: Fragolino non ne possono più vendere, abbiamo bevuto del Tocai e di nuovo siamo tornati sui nostri passi, fino quasi al centro, al “treno” di negozi.

Camminavo per le strade di Pineta, riasfaltate e con nuovi marciapiedi con un senso vietato a metà di Raggio delle Capelonghe che allora non c’era. Camminavo sull’Arco della Luna e cantavo “Era d’estate, tanto tempo fa…”, cantavo “Es un sentimento nuevo che mi tiene alta la vita” e rivedevo quella corsa in tandem nella sera, Anna che cantava a squarciagola dietro me “Il senso del possesso che fu prealessandrino…”

“È la mia adolescenza che mi insegue in questa strada, come un fantasma” ho detto agli amici che erano con me. Mario ha chiesto “Perché non ci torni quest’estate?”. Già, perché non ci torno?

All’Arco del Libeccio, appena dietro l’Hotel ***, ho ritrovato il “Noleggio bici” dove prendemmo il tandem, dove affittavamo il risciò. “Occhio però che se passa qualche minuto ci fa pagare tutta l’ora, io lo conosco…” Quel tizio era lì, Anna no… Ho compreso allora che la mia è più che nostalgia: è una sorta di “saudade” per il passato.

 

sabato 12 marzo 2016

Avventura a Tokyo

 

La mia stanza qui a Tokyo è di dodici metri quadrati. Mi sento inscatolato. Come una sardina. Il sonno però è abbastanza tranquillo, forse perché sono praticamente imbalsamato. ‘O Faraone Vincenzamon. Il jet-lag comunque si fa sentire e mi sveglio che sono le 5 di mattina. Mi disimballo e mi vesto praticamente come una marionetta tanto i movimenti sono condizionati dalla stanza. Come sarà la vita fuori? Mi avventuro con il mio inglese migliorabile e una gran voglia di caffè. Caffè, quello vero, quello fatto con la napoletana…

Nella hall c’è un cameriere che parla un po’ di italiano, avendo lavorato qualche tempo a Milano. Gli chiedo ridendo dove posso trovare del vero caffè e con efficienza nipponica mi dice che c’è un tizio che ha un chioschetto al parco dell’Università di Tsukuba, non distante da qui. Mi indica la strada da seguire, è facile, del resto si intravedono gli alberi. Lo trovo. Pasquale Capone detto ‘O Giappunese mi racconta la sua storia. Come Colombo è emigrato dalla parte sbagliata del globo: credeva di andare in America e invece si è ritrovato qui, a Tokyo. Stessi grattacieli, lingue e scritture diverse. Ma tanto a lui che gli importa? Non conosce l’inglese e neanche il giapponese… Ma ha imparato quel tanto che basta per vendere il suo caffè. E i giapponesi apprezzano il caffè italiano. Sorseggio il liquido scuro nella tazza e mi sembra di essere in Paradiso, altro che a Tokyo. Posillipo, il Vesuvio… Ma non è solo a gestire il chioschetto: arriva anche un siciliano, Salvatore Ficarra, che si porta appresso una borsa a rotelle per la spesa, c’è dentro la granita di caffè, mi dice.

Pasquale Capone e Salvatore Ficarra sono i due lati di una stessa moneta, quella dell’italiano che si trova a suo agio ovunque nel mondo e vi porta il suo bagaglio  di umanità e di arte dell’arrangiarsi. Non mi meraviglierei di trovare altri così. Invece, salutato il siciliano, dopo il caffè e la granita, entro in un negozietto gestito da giapponesi e mi compero dei biscotti. Speravo ci fosse non dico una massaia di Portici con le sue sfogliatelle, ma almeno un parigino con dei croissant. Invece c’è un’altra napoletana, che mi si attacca al braccio e mi spinge in un negozio dove vendono kimono. Ne esamina qualcuno, con un’aria da intenditrice assolutamente fuori luogo. “Dotto’, grazie, grazie assai” dice, e intanto getta occhiate nella strada dove la polizia sta ammanettando Salvatore Ficarra. “Ma io ve lo ricambio ‘stu favore, dotto’, state sicuro”. Mi mette in mano un foglietto con un numero di telefono. Se vi trovate nei guai, chiamate qui” dice facendomi inquietare in maniera impressionante. “Quassi cosa”… Con la coda dell’occhio vedo che anche Pasquale Capone viene arrestato e un poliziotto viene verso il negozio.

Assunta Capone è una cozza. No, non intendo dire che è brutta. Può piacere. È una cozza perché si avvinghia e non mi molla. Riesco a infilarmi in un taxi e mi faccio condurre all’hotel. Ma… il tassista è Salvatore Ficarra. “Dottore” mi fa”, non si preoccupi, sono dei servizi segreti: è da quando è arrivato in Giappone che la sorveglio. Mi sono infiltrato nella gang e con l’aiuto della polizia nipponica siamo riusciti a sventare un complotto ordito ai danni della sua persona”. Prosegue: “Lei deve sapere che Assunta e Pasquale Capone sono…” ma si zittisce all’improvviso perché Assunta è riuscita a infilarsi anche dentro il taxi. E non so più di chi fidarmi, può anche darsi che il sedicente Ficarra sia ricercato dalla polizia di mezzo mondo e pure dal commissario Montalbano (in effetti, ora che ci penso, non mi ha mostrato nessun tesserino). E in tutto questo bailamme si sono fatte le dieci e ho appuntamento alle 11 a Yushima, sul Kasuga Dori. Cosa faccio? Chiedo al tassista-latitante di portarmi là? Oppure dovrei scendere? E ‘sta pazza me la porto dietro come garanzia? Gesummaria, che dilemma! Prendo dallo zainetto la Sig-Sauer che porto ben mimetizzata tra le mappe e i succhi di frutta, ha il silenziatore già innestato. Sparo prima ad Assunta, poi a Ficarra. Non se ne accorgono nemmeno.

Sono le 11. Sono a Yushima, sul Kasuga Dori. È l’ora del mio appuntamento. Ecco  l’uomo che mi attende. Indossa come sempre il suo gessato e gli occhialini con la montatura d’oro. Hiroshi Kawasaki, è il potente capo di “Entropia”, una setta segreta affiliata alla Yakuza. Deve darmi il nome del mio prossimo “contatto” da eliminare. Come quando clicchi con il tasto destro su Cestino e poi su “Svuota”. Questo è il mio lavoro. Quel nome che Kawasaki ha scritto su un foglietto che poi ha bruciato nel posacenere è quello di un noto manager giapponese. Sta a Chiba, una cinquantina di km da Tokyo…

“Adesso basta, ragazzi. Ragazzi, per favore! Un minimo di dignità!”

Buongiorno. Lascia che ti spieghi, caro lettore: io sono il “deus ex machina”, l’espediente che permette di portare avanti una storia. “Deus” nel vero senso della parola. Perché questo è il Paradiso, è bello ma spesso ci si annoia, e allora i ragazzi si inventano giochi di ruolo per divertirsi un po’ e passare il tempo. È per questo che non muoiono mai. Dunque. San Salvatore, San Vincenzo, Sant’Assunta e San Pasquale si sono inventati questo giochetto ambientato a Tokyo. Ah, vi lascio indovinare chi ha scelto per sé il ruolo del capo di Entropia…

23-28 febbraio 2010

 

(rielaborato dal gioco collettivo di scrittura realizzato per Enakapata)

 

Tokyo

FOTOGRAFIA © RED BUBBLE

sabato 5 marzo 2016

Il primo sabato del mese

 

Il primo sabato del mese scendevamo a Bolzano. Soltanto il primo sabato del mese infatti per antica tradizione i negozi rimanevano aperti anche al pomeriggio. Ci andavamo in macchina, con la Golf di Miglio o con l’Alfetta blu di Rossi. Percorrevamo la vecchia statale che attraversa Sinigo, Postal, Gargazzone, Vilpiano, Terlano, Settequerce e San Maurizio seguendo in pratica il percorso della ferrovia che si intreccia ai campi di mele e all’Adige. Discorrevamo scendendo - di solito eravamo in tre o quattro, raramente in due - ed erano i soliti discorsi sul futuro, sulla nostra situazione attuale così provvisoria ma altrettanto contingente.

Parcheggiavamo dalle parti della stazione e da lì attraverso il viale alberato raggiungevamo Piazza Walther con il suo duomo dal tetto di scandole colorate. Eravamo bohemiens in libera uscita - anche metaforicamente: avevamo poco più di vent’anni e l’esuberanza della gioventù che ci pulsava nelle vene lasciava che le emozioni sgorgassero vive, che divampasse come un incendio quella libertà (ci sembrava paradossale allora chiamarla libertà, ci sentivamo reclusi, ci sembrava che ci mancasse l’aria).

Percorrevamo i portici guardando le vetrine, nelle quali vedevamo spesso riflessi anche i nostri sogni: ognuno si fermava più a lungo dove lo chiamava l’anima, chi davanti al negozio di articoli musicali, chi alle librerie, chi di fronte alle cartolerie piene di pastelli colorati e di carte da lettera, chi davanti ai pesi e agli attrezzi di un fornito negozio di articoli sportivi. Ma tutti eravamo poi concordi nel raggiungere una pasticceria di Via Portici dove avevamo fatto amicizia con una cameriera e tra un’occhiata sdolcinata, un po’ di corte e quattro chiacchiere sorseggiavamo il cappuccino o la cioccolata e mangiavamo le paste o una fetta di Sacher o di   strüdel.

Quando scendeva la sera attraversavamo Vicolo delle Erbe e Via Argentieri e riprendevamo la strada per la stazione. Salivamo in macchina con la malinconia dolce del desiderio appagato e tornavamo a Merano, per cenare in qualche Weinstube e poi andare al cinema affidando i pensieri a una delle nuovissime prime visioni.

 

portici

FOTOGRAFIA © MARIO FORNASIER