sabato 28 gennaio 2012

Il ricordo di lei

 

Il caldo entrava dalla porta della sacrestia con le prime ombre della sera. I rumori della strada giungevano come ovattati e si mescolavano alle preghiere della funzione. Don Mario aveva cominciato da poco a celebrare la messa prefestiva delle venti e lanciava occhiate ammonitrici ai ritardatari. Era il 3 luglio, sì, il 3 luglio 1982, una data che è impossibile per me dimenticare. Tra gli archi della navata apparve improvviso: il ricordo di lei.

Prima no, prima era solo un informe acuto dolore, il dolore di averla la­sciata, un addio adolescente che sembrava essere più grande di quello che in realtà era. Prima erano solo le lacrime versate a Venezia con i suoi occhi bruni dentro i miei e i vaporetti che tagliavano l'acqua come il mio cuore, era la pro­messa di ritornare, era il desiderio di un cuore nuovo, blindato, elastico, di quelli che non si possono ferire e che se cadono rimbalzano via indenni.

Adesso, qualche ora dopo, era il ricordo, il piacevole ricordo di lei venato di nostalgia. Mi alzai un po' a fatica poiché mi doleva la schiena dalla sera prima, l'ultima sera con lei, quando al luna-park eravamo saliti sull'ottovolante. Aveva insistito tanto che la accompagnassi anch'io, così schivo per quel genere di divertimenti e non riuscii a dirle di no e l'accontentai. Forse era questo il mio dolore: tutto quello che faceva lei mi andava bene e non sapevo mai dire di no... che strano amore, però... Ricordo i suoi capelli nel vento, sfiora­vano il mio viso e io li baciavo, profumavano di shampoo e di gioventù.

Uscito, attraversai la strada. Il semaforo diventò verde mentre il sole lentamente si coricava tra le case giocando a rimpiattino con le fronde degli alberi. Chiazze di nuvole infiammate sopra le colline, nuvole come quelle che incendiavano il cielo sopra la chiesa la volta che lei mi tenne il muso tutta la sera e, non so ancora oggi perché, scoppiò a piangere davanti alle Poste e poi corse via.

Quando arrivai a casa misi un disco dei Pink Floyd e mi sdraiai. Lei era ancora lì, dietro le tende, sotto il tavolo, sul muro... Bastava chiudere gli occhi e la vedevo, la vedevo come la sera prima, un po' triste e pensierosa, appoggiata a me per non cadere (o per affetto?) perché le girava la testa dopo aver voluto provare il brivido del bob al luna-park. La vedevo come quella mattina, piangeva perché partivo e io, andando via, morivo un po'. La vedevo come in quei giorni di spiaggia, i pomeriggi lunghi che non sai più cosa inventare e lei aveva sempre qualche cosa di nuovo da fare.

Stavo passando un periodo importante ma non me ne rendevo conto. I giorni si susseguivano uguali e ogni giorno nella testa avevo sempre lei. Stavo trasformando la mia casa in un tempio dedicato a lei: lasciavo tutto come quando l'avevo conosciuta, mettevo in mostra le sue foto e i suoi regali. Un giorno ascoltai per caso la canzone di Battisti "Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi..." e qual­cosa scattò dentro me nel sentire una storia così simile alla mia. Fu così che cominciai a smobilitare i ricordi.

Ma dentro, dentro non ci riuscii: ogni giorno improvvisa mi veniva in mente lei, sbucava da un banalissimo pensiero o da situazioni che solo avessero un piccolissimo nesso con la nostra storia. Riuscivo a dimenticarla solo quando l'Italia giocava le partite del Mundial spagnolo; battemmo Brasile, Polonia e Germania e fummo campioni ma subito dopo il fischio finale mi prendeva un'irrefrenabile malinconia: desideravo moltissimo essere con lei a gioire, a sventolare il tricolore nelle strade, per una volta fieri di essere italiani.

Poi l'estate svanì nelle piogge di settembre e sbiadì lentamente anche il ricordo di lei. L'ho incontrata a Milano: è ancora più bella ed è ormai una donna, una donna di gran classe. Io non sono più il ragazzo che ero e anche lei se n'è accorta, ha sentito quel tono di disillusione che cadeva come un velo su di noi. Abbiamo ricordato i bei tempi, "E così quest'estate dove sei stata?", "E il lavoro come va?". Sembravamo due estranei, in quel bar della Galleria.

1985

 

CROCI, “FIVE SPOT”

sabato 14 gennaio 2012

Il coraggio

 

Un grande ospedale pubblico di una città di provincia. Reparto di radioterapia e medicina nucleare. Dipinto di un bel verde vivo, con vedute panoramiche della città appese alle pareti. Siedo in una delle oasi di poltroncine, verdi brillanti anche queste, un colore da evidenziatore. Attendo e osservo il viavai di gente che passa e va: c’è chi scende da qui perché arriva prima al parcheggio, c’è chi invece è in reparto per donare sangue, c’è chi cerca sperduto la porta giusta e domanda all’inserviente, al medico, all’infermiera che passa dove sia la sede per la MOC o la PET.

È una zona di dolore, certo, ma anche di coraggio: la forza di chi vuole lottare e combattere, vincere la battaglia con tutte le sue energie, con i sacrifici necessari, con lo scotto dei malesseri da mettere in conto e dei medicinali da assumere. Ma questa è la guerra e qui bisogna pugnare: il corridoio dal soffitto basso rivestito di pannelli isolanti diventa allora quasi una scena da film di spionaggio: i valorosi decrittatori di Enigma, i laboratori dove Q mette a punto i marchingegni che consentiranno a James Bond di cavarsela in ogni occasione.

Così appare anche il carattere di quella donna sui sessant’anni con i capelli sale e pepe cortissimi e marito al seguito che regge borsa, cappotto, cartellette. Hanno la dignità del dolore, la compostezza di chi è deciso a non recriminare contro il destino, il fato, Dio, il caos primigenio o il naturale ordine delle cose. Lottatori decisi a prevalere, a fargliela vedere loro. Ripasseranno per la chemioterapia, parleranno al veleno perché diventi farmaco, i piedi piantati per terra. E soffriranno, e staranno male – lei starà male, fisicamente, lui soffrirà come un cane per non potere far altro che consolare la donna che ama, confortarla per quanto può, sentendosi inerme, inabilitato a spaccare il mondo come vorrebbe.

Li guardo salire in ascensore, vanno verso l’accettazione per qualche disbrigo burocratico. Ammiro il coraggio di chi si aggrappa così forte alla vita. E penso alle notizie appena lette sul giornale: adolescenti in coma etilico, sottosegretari che si fanno corrompere, calciatori già ricchi che si vendono le partite… No, molto meglio quei due: almeno loro, nel dolore, vivono…

 

GABRIELLE MUNTER, “NOT FEELING WELL”