sabato 25 ottobre 2014

Il cielo della sera


    È una sera che il tramonto fa giallastra come l'interno di una chiesa illuminata da antiche finestre d'alabastro e lentamente si sta tramutando nel nero della notte che la luna piena sconvolgerà con una luce lattea e fredda. E chiudono i negozi, anche Giovanni chiude il suo, abbassa la saracinesca, lieto di poter tornare a casa, sale in macchina e guida nel viale alberato e tra i platani e i catarifrangenti che si alternano riconosce lontano l'ultimo cielo della sera.   

* * *

    Matilde è una ragazza e si guarda allo specchio nella stanza illuminata dalla lampada che fa tutto più giallo di come è alla luce del sole. Si aggiusta i capelli, prova acconciature nuove, tenta una coda, poi una treccia che scioglie e le restano scarmigliati i capelli e il viso un po' arrossato. Fuori c'è ancora un cielo giallo oltre le foglie che il vento leggero agita e percuote quasi come uno strumento musicale e Matilde guarda con i suoi occhi castani e pensa alle stagioni che passano e continuano a tornare. Si dice che forse è felice ma ha paura di ammetterlo, teme di rompere un incanto e rimane lì a guardare fuori, così bella così inavvicinabile e dice "Non è così" senza riuscire a staccare gli occhi dal cielo della sera.


16 novembre 1990

 

Sera

LEONID AFREMOV, “REAL SUNSET”

sabato 18 ottobre 2014

Vento di Liguria

 

Il treno correva allegro giocando a rimpiattino con il mare: ora infilava una galleria ora si mostrava al porto ed ai pitosfori. A Loano apparve come un fantasma, impalpabile eppure presente, fortemente presente: il vento della Liguria. Lì accarezzava gli ombrelloni incappucciati nell'aria ancora frizzante del primo mattino. Poi si mimetizzò con la velocità che il treno si lasciava dietro e con il mormorio del mare sugli scogli per ritornare in tutta la sua impudenza alla stazione di Albenga: le palme si agitavano nel cielo turchino con il rumore legnoso delle foglie; i viaggiatori in attesa lottavano con i fogli dei loro giornali che il vento rileggeva dispettoso. Affacciammo la testa ai finestrini e il vento baciò anche noi scompigliandoci i capelli.

E la stessa accoglienza ci riservò ad Alassio, quando lasciammo il treno: si infilava nel bar Roma, filtrava tra i gerani e i pitosfori, sfogliava il mio giornale, spazzava la passeggiata a mare. Da nord soffiava verso sud e da settentrione sospinse qualche nuvola sul mare. Per tutto il giorno fu con noi: curiosava tra le sdraio, giocava a gonfiare le nostre canottiere, imprimeva strane traiettorie al pallone. E quando la nostra gita finì, ci accompagnò alla stazione, questo dispettoso vento di Liguria.


Merano, 15 febbraio 1989

 

Liguria

FOTOGRAFIA © BARBARA PREGLIASCO/PINTEREST

sabato 11 ottobre 2014

Spritz

 

Il mezzogiorno festivo langue. Fuori un pallido sole scopre qua e là le prime foglie gialle o rosse, accende un autunno che incomincia a dorarsi. Quella luce entra dalla finestra, attraversa le tendine di mussola, diventa un velo paglierino sulla cucina di ciliegio.

Prendo un bicchiere, un tumbler basso. Tolgo dal freezer la vaschetta del ghiaccio, quella che forma delle piccole sfere che sembrano di cristallo, ne estraggo una mezza dozzina e le pongo nel bicchiere. Mi piace quel rumore, un suono secco ma al contempo argentino. Apro il frigo, stappo il Prosecco e lo verso sopra il ghiaccio per un terzo. L’Aperol manda riflessi arancioni dalla vetrinetta, quasi che mi chiamasse: ne verso per un altro terzo. Ecco, ho quasi finito: adesso termino il cocktail con acqua fredda frizzante. Ci metto anche un paio di fette d’arancia, per guarnizione ma anche per quel gusto agrumato che conferirà.

Il mio spritz è pronto. Ne gusto un sorso e improvvisamente non sono più a questo tavolo di cucina, con i carpini e i tigli che ingialliscono lentamente oltre la finestra, con il pallido sole di ottobre che fatica a cancellare le nuvole. Sono a Venezia, e davanti a me si staglia immensa Santa Maria della Salute. Posso sentire anche l’odore della laguna, mentre i riflessi lasciati da una gondola di passaggio nel Canal Grande mi abbacinano. Se mi alzassi, con pochi passi sarei a San Marco o al Ponte dei Sospiri.

E sono a Cittadella, all’interno della cerchia muraria, seduto a un tavolino della piazza a guardare la gente che infila le stradelle e si dirige verso il Duomo bianco o verso le mura merlate. Sono a Lazise, sul pavimento a scacchi banchi e neri e il Garda azzurro sembra fermo sotto gli ulivi ma in realtà so benissimo che il vento lo muove come quei turisti che fanno kitesurfing testimoniano. Sono a Verona, in Piazza delle Erbe, a Padova, a Treviso, sono a Conegliano...

Driiiiin! Il timer del forno segnala che le lasagne sono cotte, ben gratinate. Dalla finestra entra un pallido sole d’autunno che accende i carpini e i tigli. Dello spritz resta solo un sorso, che butto giù. È ora di mettersi a tavola, i sogni e le memorie si sciolgono lentamente come il ghiaccio nel bicchiere.

 

Spritz

sabato 4 ottobre 2014

Ragazza seduta in treno


La ragazza siede pensierosa. Ha il muso che ricorda un topolino, ma non è brutta, anzi. Indossa un tailleur nero alla moda. Le gambe sono fasciate da collant scuri. La mise si adatta bene al biondo dei capelli, evidentemente non naturale.

Ha le gambe accavallate. Sta pensando che il suo seno è troppo grosso, imbarazzante quasi. E ricorda quasi con rabbia i giorni in cui si guardava allo specchio e pregava che le sue piccole mammelle crescessero. Ora invece, quando si guarda allo specchio, nota ogni giorno di più - o almeno così a lei sembra - che il suo seno fatica a reggersi da solo, che un po’ cade. E non ha ancora trent’anni. È per questo che ama strizzarlo in un reggiseno, sentirlo compresso e al sicuro, come un gioiello in una cassaforte. Quando cambia posizione alle gambe, una macchia rossa compare dove la gamba sinistra poggiava sulla destra, qualche centimetro sopra il ginocchio. Sembra non accorgersene. Ora tiene le gambe parallele, strette strette, e le ginocchia sporgono in fuori come promontori gemelli, ne hanno quasi l’aspetto roccioso nella grana dei collant, che le ditte produttrici chiamano “denari”.

Adesso sta pensando alla sabbia, al fastidio che dà quando si incolla alla pelle, quando penetra sotto il costume e si incolla al corpo come una specie di malta, s’infila nelle pieghe. E si figura il sollievo di una doccia, la mano saponata guantata di crine che lava via le impurità, il getto che dall’alto massaggia il suo corpo, i capelli imbevuti, il collo che ne riceve beneficio, i muscoli della schiena che si tirano e la fanno sentire bene.

Torna ad accavallare le gambe: la sinistra poggia sulla destra, nel movimento la gonna corta è risalita un po’ sulle cosce; con un rapido gesto delle mani la risistema. Il pensiero che stava seguendo si è perso, come in un gomitolo che abbia molti capi, tutti dello stesso colore.

Così adesso sta pensando a certi sguardi pieni di concupiscenza che gli uomini le rivolgono: alcuni  sono molesti come mosconi nei caldi pomeriggi d’estate, ti si appiccicano come una seconda pelle, una tutina elasticizzata; altri sono carezzevoli e dolci come un vento primaverile, fanno piacere come la mano di un amante che scivola leggera sul viso, che lentamente si impossessa di tutto il corpo. Ha sempre apprezzato di essere guardata così, come una dea, come un’incarnazione di Afrodite. Non come un oggetto di sesso.
Con una mano si tocca le labbra, soprappensiero. Solo adesso si accorge del panorama che scorre dietro il finestrino impolverato: vi presta attenzione per un po’, vede fabbriche, magazzini di periferia, alberi che si susseguono, binari e poi case, passaggi a livello, un campo da golf, strade percorse da automobili.

Torna a seguire i suoi pensieri. Si sente sicura con il suo seno ingombrante ben represso nel reggiseno nero di una misura inferiore.

 

1998

 

76798af27489d007bd882134e675d0f0

EDWARD HOPPER, “COMPARTMENT C, CAR 293”