sabato 27 ottobre 2012

Scrivere


Qui davanti al monitor illuminato del mio portatile Acer Aspire 3610, su questo foglio bianco simulato da Microsoft Works sullo schermo, scelto il carattere Trebuchet corpo 12, mi accingo a scrivere. Seduto alla sedia di cucina, avvolto dal calore dei mobili di ciliegio e del termosifone dietro le mie spalle, davanti a me la finestra velata dalle tendine, il ticchettio della sveglia svizzera appesa al muro, le 15 e 55 quasi di questo mercoledì di gennaio, sto per scrivere.

Messe le cose in chiaro, accarezzato con lo sguardo il vaso di vetro che contiene quei fiori finti di tipo etnico comprati all'IKEA e qualche rametto di lavanda che ho essiccato a settembre e legato con un sottile nastro verde - il vaso ha una vistosa crepa verso la base, è per quello che ci ho messo i fiori di legno e la lavanda: non può contenere l'acqua - ho in animo di scrivere.

Guardo gli acquarelli sulla parete bianca: rappresentano anch'essi fiori: un ramo di strelitzia, un altro di fucsia, delle margherite gialle, mi piacciono perché contrastano con la tempera del muro. Sulla sinistra, sulla cucina, accanto al lavello, sotto le mensole dove giacciono le spezie, ordinate come soldatini, e i vasi con lo zucchero, il sale e il caffè oltre a ninnoli portatimi da svariate parti del mondo - il vaso tunisino, la brocca turca a forma dromedario, la teiera inglese, la tazza di Alicudi - ecco il contenitore con le forbici e gli arnesi da cucina, il ceppo con i coltelli, la biscottiera e il vaso di cristallo con i rami di Dracena. Dopo questa descrizione un po' alla Robbe-Grillet, sono pronto a scrivere.

Ma non ho niente da dire, non so cosa scrivere...


14 gennaio 2009


computer-typing-writing-job

FOTOGRAFIA © JAKUB KRECHOVICZ

sabato 20 ottobre 2012

Anime

 

Il tramonto colorava di arancione e giallo il cielo sulla pineta, al lato opposto del mare. E il mare ora non accecava più, privato dei suoi riflessi, sembrava più scuro, il suo grigio era da lago di montagna. Le barche sulla riva risaltavano maggiormente, sembravano aver preso importanza ora che il sole se n’era andato dalla scena e usciva dietro le quinte dei pini. Seduti sulla staccionata dipinta d’azzurro gustavamo in silenzio l’infinita dolcezza di quel momento e il silenzio era parte fondamentale di esso.

Quando scese, la notte di stelle ardeva silenziosa in armonia con il frinire dei grilli. La mia mano incontrò la sua e la strinse: in quell’istante fummo una cosa sola, due anelli saldati l’uno nell’altro. Attraverso il tatto, attraverso la leggera pressione della mia mano sulla sua sentivo, come se fosse la mia, il palpitare della sua vita e la sua infinita purezza. Non c’era altro mondo, altro universo all’infuori di noi e delle stelle, ogni altra cosa scompariva di fronte alla dolcezza della notte.  Fu solo la consapevolezza di un istante, che sembrò immenso, in cui le nostre due vite si unirono in un unico cerchio chiuso.

In quel magico tempo ci interrogammo muti: la sua risposta fu un silenzio. Non replicò nulla alla domanda che io le avevo posto. Anche la mia domanda era un silenzio, un tacito intuirsi e capirsi. Eppure lei comprese la mia domanda, io compresi la sua risposta. E la purezza che traboccava da me, inespressa a parole ma urlata dal silenzio, si concentrò nel suo grido silenzioso di gioia. Non avremmo mai più avuto bisogno di parole per comprendere i nostri sentimenti.

Attraverso la mano di lei, che stringevo nella mia, l’amore era in me come un fiore tatuato permanentemente sulla mia anima. E tu che mi leggi, se adesso con qualche miracoloso stratagemma o marchingegno potessi guardarvi, ve lo troveresti ancora. 

1994

 

FOTOGRAFIA © ANTHONY MICHAEL POYNTON

sabato 6 ottobre 2012

Ballare bene

 

“A balàa bègn se fàa la murusa” diceva mio zio, quando le sere d’estate giocavamo a scopone scientifico e toccava a me calare sul tavolo una carta perché non potevo effettuare una presa. Mi vedeva indeciso e immancabilmente ogni volta saltava fuori quella frase. Cercavo di mettere una carta di scarso valore, un quattro, un cinque, il due o il tre se erano già stati conquistati quelli di quadri. In qualche occasione, quando mi sentivo ispirato, stupivo spazzando con l’asso o buttavo un sette. Ma il più delle volte mi toccava abbozzare e “ballare”.

Quando lo zio mi diceva che “a ballare bene ci si fidanza” – quello significa la frase in dialetto milanese – ero un ragazzo di sedici-diciassette anni e mi vedevo sulla pista di qualche discoteca a ballare vestito come John Travolta: “La febbre del sabato sera” era solo di qualche anno prima, avevo visto “Il tempo delle mele” in un cinema di Bergamo e “Stayin’ alive”, “Flashdance” e “Footloose” stavano per uscire. Danzavo con una bella ragazza, di quelle che magari avevo incontrato durante il giorno o quelle che avevo conosciuto al mare. Il gioco, inevitabilmente, proseguiva: gli altri prendevano o a loro volta “ballavano”, ma io continuavo a distrarmi, a piroettare, a flirtare con le mie immaginarie compagne di danza…

“Tocca a te…” spesso mi dicevano e allora osservavo il gioco ed eseguivo la mia mossa… Se mi toccava “ballare” ancora allora sì che erano guai!

 

FOTOGRAFIA © ALLMOVIE / PARAMOUNT