sabato 27 aprile 2019

In questa uniforme di tuo soldato (2)


7. Merano, Caserma Battisti, Sabato 15 luglio 1988 (278 all'alba)

C'è stato temporale questa notte. Ora il cielo è azzurro e si riflette nelle pozzanghere sull'asfalto. I monti mi tentano come un'Eva dei paradisi perduti, mi fanno intravedere la libertà, quella che le gazze si portano in giro volando da un abete a un campanile romanico. Sto cominciando a conoscere questa caserma, la Cesare Battisti. Da una settimana mi hanno trasferito al Battaglione Logistico Orobica: sono assegnato alla Delegazione Presidiaria in qualità di scritturale. Vesto ogni giorno la divisa della festa: adesso quella estiva con pantaloni e camicia chiara: gli stivaletti hanno preso il posto delle pedule. Dopo due mesi ho finalmente la mia collocazione definitiva nell'ambito dell'esercito italiano. Sono contento di trovarmi qui, anche se rimpiango un po' la Bosin: qui non c'è la mensa, che hanno iniziato a ristrutturare, e si pranza e si cena in un locale di fortuna servito dalle cucine da campo. A pranzo arrivo sempre tardi, perché l'ufficio chiude alle 12 e la cosiddetta mensa apre alle 11.30. Quando mi siedo al tavolo sono già le 12.15 e mi porto sul vassoio quello che c'è: riso scotto o pasta, pollo, una bistecca, quando va bene la cotoletta appena impanata. La sera esco sempre, anche perché non ho né mai avrò servizi da svolgere, essendo il nostro ufficio, per il suo status particolare di appendice del Presidio di Bolzano, esentato dai compiti di caserma. Esco da solo, qualcuno poi trovo sempre per la città. Raramente ceno solitario. "Rainer", il "Pic-nic Grill" e la "Marinara" sono le mie mete solite. Qualche volta sperimentiamo posti nuovi.

Al momento sono alloggiato nel Minuto Mantenimento, ma appena ci sarà il congedo del 6°/87, Danilo, che è del mio paese, mi ha già trovato una branda nella sua camerata della Comando. L'ufficio si affaccia su Via Palade, proprio davanti all'ippodromo e ha una sua uscita privata. Mi hanno dato le chiavi e già fantastico sulla possibilità di uscire di soppiatto. Per arrivarci devo attraversare un bel pezzo di caserma: i depositi degli automezzi e dei cingolati, la casetta del sarto, il magazzino delle trasmissioni, le caldaie. Eccomi arrivato. La ramata verde, il cancelletto: entro nella mia nuova oasi.

8. Merano, Delegazione Presidiaria, Sabato 23 luglio 1988 (270 all'alba)

“Solo ciò che è trascorso o mutato o scomparso ci rivela il suo volto reale" c'è scritto nel racconto di Cesare Pavese che sto leggendo seduto nell'ozio del sabato estivo alla mia scrivania. Il maresciallo Ciulla è andato in città, il mio collega Ferrari è partito per la licenza ordinaria e tra un mese si congederà. Mi fa riflettere quella frase, mi fa pensare quanto mi manchi il sapore del sabato mattina adesso che sono qui. mi manca come l'aria. Era giorno di spesa il sabato: si andava al supermercato o nel grande negozio di ortofrutta. Poi c'erano da sistemare i meloni in cantina, la frutta nel locale lavanderia, le scatole di pasta e riso nella dispensa. Intanto il caffè bolliva sul gas e l'aroma si spandeva per la cucina. Mi sedevo a leggere il giornale guardando le lame di sole che entravano dalla finestra, sbocconcellavo il pane appena comprato.

Invece sono qui nella Delegazione Presidiaria, in questi freschi locali che un tempo furono il Circolo Sottufficiali, e guardo dalla finestra le ragazze con i vestiti a fiori che attendono l'autobus alla fermata. Invidio loro quella libertà di salire in città, di entrare in un negozio. Quando saliremo noi, sarà già passata l'una e i negozi saranno già chiusi. Magari con Miglio, il mio nuovo amico del Nucleo Carabinieri qui di fronte, scenderemo a Bolzano a bighellonare per il centro e a mangiare una fetta di torta nella pasticceria lungo i portici.

9. Merano, Kota Radja, Lunedì 8 agosto 1988 (254 all'alba)

Questa sera soffia vento d'Oriente: con Miglio e altri tre della camerata siamo venuti a cenare al Kota Radja, il ristorante cinese di Via Manzoni. Varcato il cancello siamo entrati in un mondo tutto nuovo. Tra le canne di bambù e il fruscio delle sete, ci gustiamo le "nuvole di drago" e la birra di Shanghai. Dal pergolato pendono lampioni di carta di riso, nel patio accogliente si aprono ombrelli di Nanchino.

Ceniamo mentre la brezza suona leggera le campane a vento e le cameriere ci insegnano a usare le bacchette ridendo appena come sanno fare solo gli orientali. Scherziamo come se fossimo degli antichi sodali stasera: Merano e le caserme sembrano così lontane mentre mangiamo pollo speziato e riso alla cantonese. Fingiamo di non sapere che oltre la porta scorre il Passirio e centinaia di militari sono a passeggio lungo il fiume e riempiono i cinema, i bar e le gelaterie.

10. Merano, Via Palade, Domenica 2 ottobre 1988 (199 all'alba)

Siamo usciti dal cancello su Via delle Palade e camminiamo lentamente verso la stazione ferroviaria di Maia Bassa. Io e Miglio, una coppia di amici ormai affiatata: lo affascinano la mia conoscenza dei classici e certi miei atteggiamenti. Io, al contempo, ammiro la sua abilità nel suonare la chitarra, la sua predilezione per la musica classica e la sua sincerità. Se i primi due elementi si traducono in qualche serata trascorsa al Teatro ad ascoltare quartetti d'archi, l'altro, la sincerità intendo, si manifesta in domande che fioriscono improvvise come un colpo di mitragliatrice. Come adesso: stiamo andando a prendere il treno per Bolzano e mi spara: "Ma tu che cosa pensi di me? Che persona credi che io sia?". Sono tre mesi che ci conosciamo e lontano da qui non so nemmeno neanche cosa faccia. Eppure glielo dico. Prima impressione, certo, ma è quella che di solito non sbaglia. Probabilmente sarà un'amicizia che non passerà Natale: a dicembre lui si congeda. Credo che non ci incontreremo più, eppure questa amicizia è intensa, concentrata, forse anche perché siamo consci di questa sua effimera durata. "L'espace d'un matin" gli dico e gli spiego che cosa significhi. Alla stazione troviamo altri ragazzi che conosciamo e il discorso che andava indagando nel nostro io si zittisce. Scendiamo guardando i campi di meli insieme agli altri. Li lasceremo al Mc Donald's di Piazza Walther o in qualche cinema. Scommetto che Miglio vuole andare a fare il filo alle cameriere della pasticceria lungo i portici. Cappuccino, Sacher e un po' di corte.

11. Merano, Haisrainer Weinstube, Piazza Duomo, Domenica 1° gennaio 1989 (108 all'alba)

L'anno nuovo è cominciato con bottiglie di spumante e fette di panettone, un'ora dopo il contrappello. Ero - straordinariamente, in quanto uno dei pochi graduati rimasti - caporale di giornata. Fuori, lampeggiava la grande scritta LAS VEGAS di un luna park nell'area dell'ippodromo. Tutto era così irreale, compresi gli auguri scambiati in camerata e i brindisi nei bicchieri di carta con vino scadente. La mia fascia rossa di caporale di giornata pendeva da uno dei pioli della branda, le luci azzurre di guerra riverberavano nella notte. "1989" mi ripetevo "1989, è l'anno dell'alba".

La festa non è ancora finita: per le strade ci sono bottiglie vuote e botti esplosi, carte colorate e stelle filanti. Noi reduci della camerata, quelli che hanno preferito la licenza di Natale a quella di Capodanno, pranziamo da Haisrainer, la taverna proprio di fianco al Duomo. Sono il più "anziano" come scaglione e il più alto in grado. Da queste cose si riesce ad apprezzare quanto tempo sia passato da quel 29 aprile. Ferrario, Bettoni, Perego, Cantoni che condividono con me questo pranzo del primo dell'anno si congederanno tra settembre e ottobre, mi considerano con un pizzico di invidia e con molto rispetto... Mangiamo pasta al sugo e spiedini alla zingara e parliamo del nuovo anno: siamo tutti più spensierati, come se avessimo attraversato una porta e fossimo entrati in una nuova stanza. Siamo oraziani coglitori di attimi.

Il gelato lo andiamo a mangiare da "Bruno". Quando ci portano il resto ci sono mille lire fior di stampa, quelle con Maria Montessori e i bambini. Ferrario prende una penna rossa, scrive la data sulla banconota e la firma. Poi ci invita tutti a siglarla. Alla fine, quando ognuno ha apposto la sua firma, la ripone come un santino nel portafogli: "Ragazzi, non sapete che ricordo mi avete regalato". Negli occhi gli si legge già il lampo di quando, tra qualche tempo, quando si sarà congedato, frugherà nel portafogli e ritroverà per caso quelle mille lire. Saremo simulacri allora, ricordi a cui la sua memoria cercherà di associare un volto. Resteremo sempre i ragazzi di oggi, 1° gennaio 1989, su quella banconota.

12. Merano, Delegazione Presidiaria, Mercoledì 11 gennaio 1989 (98 all'alba)

E ho varcato anche la fatidica soglia dei 100 giorni: il mach pi cento dei cadetti. Niente di che: una sera normale. Nella mia condizione di aggregato sono tagliato fuori dalle cene di scaglione, dai gruppi che si conservano nelle piccole caserme. Con il congedo del 1°/88 diventerò "vice", un grado di scaglione che sfiora l'onnipotenza. Già i servizi di scopa in camerata non mi toccano più. Le divise cominciano ad essere sformate, i cappellini hanno la tesa sempre più arcuata, il mio cappello è più largo e indurito grazie al trattamento con il cordiale. È prerogativa di chi ha passato i 100 giorni all'alba portarlo così.

Quell'asfissia che ho provato il primo giorno, quando i camion ci hanno condotto dalla stazione alla caserma, quel senso di soffocamento che ho sentito appena oltrepassata la sbarra a righe bianche e rosse, si è allentata notevolmente, va svanendo giorno dopo giorno. È proprio vero, come recita la cartolina che ho comprato al "Pandemonium": "Chi naja non prova libertà non apprezza”. Ora so che bene prezioso essa sia, ti rendi conto di quanto ti manchi solo quando non l'hai più: è una donna amata e perduta che desideri infinitamente.

13. Merano, Delegazione presidiaria, Mercoledì 1° febbraio 1989 (77 all'alba)

Ho fatto un sogno strano questa notte: ero in riva al mare e rientravano nel mattino i dragamine, lontane sagome scure nell'alba. Con me c'era Paola. Ci togliemmo le scarpe e lei, sbarazzina, mi trascinò nella bassa marea. Correvamo tra le pozze e la felicità ci gonfiava i cuori. Amaro è stato il risveglio quando il caporale di giornata è passato battendo manate sugli armadietti: "Giù dalle brande!" Mi ci è voluto un po' per raccapezzarmi, per capire che non mi trovavo nel comodo letto di un albergo sul mare, ma nella mia branda di militare.
Lavandomi, ho ripensato al sogno. Non era mai avvenuto nulla di simile. Ma l'inconscio è l'espressione dei nostri desideri, il sogno non fa altro che realizzarli. Strano che sia giunto solo adesso, che sia arrivato in una caserma di Merano. Un'alba d'amore per chi attende un'altra alba. A proposito, 77 giorni...


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Merano, Delegazione Presidiaria, Ottobre 1988: Al… lavoro

sabato 20 aprile 2019

In questa uniforme di tuo soldato (1)


1. Merano, Stazione ferroviaria, giovedì 12 maggio 1988 (336 all'alba)

Merano... Stazione di Merano... Meran... Meran Bahnhof... gli annunci si susseguono con il loro ritmo metallico. Tra i binari nella luce incerta del tramonto volano i lanuginosi semi dei pioppi. Nel mio sguardo triste di soldato - anzi, di "recluta alpina", come mi definiscono i caporali del CAR - si riflettono i treni che scendono verso sud, che partono volando verso la pianura, verso casa. Quando l'ultima carrozza è passata e restano le rotaie, il cuore sembra perdere un colpo e la sua canzone segue un ritmo stonato. Allora conto i giorni che mi restano da trascorrere e sono un'enormità quelle albe che dovrò vedere sorgere dove sarò destinato dopo il CAR: a Vipiteno, Silandro, Malles, Bolzano o più probabilmente ancora qui, in un'altra caserma. Li ho contati e ricontati: 336. Dovrà arrivare e passare l'estate e poi l'autunno e l'inverno, Natale, Capodanno e Pasqua e un'altra primavera finalmente comincerà sull'ultimo mese.

Intreccio le dita sul collo infilandole dietro il bavero del giubbino di jeans. Massaggio il collo indolenzito da tante marce per i cortili della caserma - ora ho imparato: nóp dué nóp dué, e so fare decentemente anche il dietrofront. E mi dolgono anche i muscoli delle gambe: oggi ci hanno fatto sbalzare nell'erba: passo del gattino, passo del leopardo, con il fucile e la maschera antigas e il dannato elmetto. Il mio amico altoatesino con cui ho legato già dal primo giorno è di poche parole: meglio così, mi lascia tempo per riflettere. In compenso parla tedesco e questo è un vantaggio perché nei bar e nei ristoranti ci trattano con riguardo. Lui spera di avvicinarsi a casa, a Bressanone. Gli andrebbe benissimo Silandro. Lasciamo la stazione con i nostri giornali e un po' di malinconia. Quando siamo arrivati c'erano nuvole gialle sulla palazzina Liberty e ci siamo fermati a mangiare patatine al chiosco del piazzale; ora splende la luna e, percorrendo la strada del ritorno, sembra giocare a rimpiattino con i lampioni. Mi sembra vuoto il mio passo, inutile, mentre scendiamo per Via Petrarca verso le caserme gialle.

2. Merano, Piazza del Teatro, domenica 22 maggio 1988 (326 all'alba)

Ieri c'è stato il giuramento. Ora aspettiamo la nostra destinazione. Ci vorrà una settimana, dicono, o forse più. Probabile che mi mandino anche in licenza venerdì prossimo. Sembra di essere nella Fortezza Bastiani: non c'è altro da fare che attendere. Ora non facciamo più istruzione, ci limitiamo a bivaccare qua e là per la caserma, a oziare sul cubo, i caporali ci danno piccoli incarichi come spolverare o pulire i pavimenti. Aspettiamo. E pensiamo. L'amore, per esempio, ora non è che un fiore secco rimasto senza linfa e senza nutrimento, pende inanimato come il becco di un tordo in un carniere. Così mi capita di camminare solo per la città, a numerare i giorni - 24 fatti, 326 da fare - e le mie malinconie: Paola, Anna, Laura. Mi rendo conto che le mie amiche non ci sono, che mi mancano, che vivono i loro giorni altrove e i loro passi percorrono vie diverse da questa: è la bella Piazza del Teatro. Sono in libera uscita per il pomeriggio della domenica.

Le montagne di pietra e cielo, chiare nel sole, fermano lo sguardo. Il Passirio scorre rumoroso tra le rocce, i pali per gli slalom delle canoe sospesi nel cielo. Sì, il sogno è molto facile anche qui ma lei non vi rientra, ne rimane esclusa proprio come il vento non riesce a scavalcare quei crinali: non è una storia ormai conclusa, è solo indifferente a questo luogo.

3. Merano, Caserma Bosin, domenica 12 giugno 1988, Corpus Domini (311 all'alba)
 
Dieci giorni fa ho avuto la mia destinazione: sono alla Caserma Leone Bosin, a Merano, un chilometro dalla Caserma Rossi dove ho svolto il CAR. Sono in forze al Reparto Comando e Trasmissioni Orobica, alla compagnia Comando, e mi hanno fatto cambiare la nappina sul cappello da verde a blu e il distintivo dell'Edolo sulla divisa con quello del reparto. Sono "alpino" ora e non più recluta, ma nelle gerarchie della caserma appartengo all'ultimo gradino, il "nipote di terza". Ci spettano molte più incombenze che agli altri. Ho già svolto due corvée cucina e una corvée caserma e questa è già la mia seconda guardia. Sono sull'altana, la piazzola coperta e sopraelevata che domina dall'alto il perimetro della caserma. Il soldato che monta di guardia con me sta pattugliando lo stesso lato da sotto: lo vedo camminare su e giù. Poi, nel secondo turno, ci daremo il cambio. Sarà notte e a me va bene così: preferisco camminare per mantenermi sveglio.

Sta calando la sera breve di giugno: gazze volano con la loro livrea bianca e nera, me le immagino sui tetti del centro, sul campanile del Duomo, sull'antica chiesa di Santo Spirito. Mi immagino le ragazze a passeggio sul Lungopassirio, le gelaterie, i tavolini dei bar, i colori dei fiori, le insegne che si accendono. E io qui, con l'arma a tracolla che mi priva della mia libertà e i caricatori che pesano nelle tasche della mimetica. Poi d'improvviso sulle colline del Tirolo si accendono i cuori di lumini, decine di fiamme che vibrano nell'oscurità. Quasi non mi accorgo quando giunge il cambio, ma riesco a pronunciare le parole di rito: "Altolà chi va là?" "Capoposto con il cambio" "Capoposto avanti per riconoscimento" "Cambio avanti". Saluto il militare che mi sostituisce sull'altana, è un compagno dei tempi del CAR, e seguo il capoposto fino al Corpo di guardia. Appoggio fucile ed elmetto e mi sdraio. Riposo il corpo e la mente sulla brandina spigolosa.

4. Ponte di Legno, Val Sozzine, domenica 19 giugno 1988 (304 all'alba)

“Un bel aprés-midi de garde a l’écurie" mi ripeto questo verso di Apollinaire da quando sono montato di guardia tra i sacchetti di sabbia del bunker. Sacchetti che abbiamo riempito sulle rive del torrente Narcanello, qui in Val Sozzine, a Ponte di Legno, dove mi hanno spedito per il campo estivo. Devo dire che non mi dispiace: essere lontani dalla caserma è un'avventura nuova, e qui nei boschi è facile nascondersi. Devo trascorrere un'ora qui dentro, ma sono comodo e guardo i motorini e le automobili passare sulla strada: ragazze e ragazzi che vanno al luna park, un chilometro più a valle. Il tenente colonnello, il maggiore, il maresciallo e un sergente stanno giocando a carte a un tavolino posto all'ombra di un larice. Certo, mi piacerebbe essere in paese, percorrere le stradine e fermarmi a bere una birra in un bar con i miei commilitoni, ma il dovere è il dovere. Meglio qui che in cucina a lavare le stoviglie metalliche e i pentoloni. E con l'arrivo del nuovo scaglione, sono salito anche di un gradino: ora sono "nipote di seconda" e ho almeno qualcuno sotto di me. Le auto che corrono veloci verso Ponte di Legno fanno vibrare l'aria: i miei pensieri scivolano via veloci e il tempo passa in fretta.

5. Autostrada del Brennero, Venerdì 1° luglio 1988 (292 all'alba)

È la sera di venerdì e sto tornando a casa in licenza, un quarantott'ore. Guardo i campi di meli scorrere via ai lati della strada, i papaveri rossi che ondeggiano alla brezza, e penso che avrei dovuto essere al mare adesso, sdraiato sulla sabbia, seduto sotto l'ombrellone a leggere un libro o a riempire cruciverba, a scambiare parole con gli amici dell'estate. Ma, riflessi nel vetro del pullman della Peroni che compie il tragitto Merano-Bergamo, vedo i miei capelli corti, la mia espressione stanca e malinconica. Ecco luglio che cosa mi porta quest'anno. E i ricordi si affollano, si dispongono in fotogrammi come una pellicola cinematografica: io e lei seduti davanti alla fontana di Piazza del Mare, le serate con gli amici al luna park della City o nei locali dove tiravamo mezzanotte prima di andare a vedere la luna in spiaggia e a spingerci sulle altalene. Tabula rasa. Il cubo, la colazione, l'adunata, la corvée, il rancio, la guardia, la libera uscita, il silenzio. I sogni si presentano così, ora: e le colline del Trentino sono corpi di donne distesi nel sole di luglio. Il mare non c'è. Le cose sono mutate come quando interviene una guerra a recidere i fili del tempo. Il pullman corre verso sud. Mi addormento...

6. Merano, Caserma Bosin, martedì 5 luglio 1988 (288 all'alba)

Δυσζήλοι γάρ τ΄είμεν επί χθόνι φώλ ανθρώπων”. Facili all'ira sopra la terra siamo noi stirpi umane: è il settimo canto dell'Odissea. È quella che ho provato stasera, quando ormai pronto per la libera uscita, il sottotenente Manfredi mi ha fatto chiamare nel suo ufficio di comando e mi ha ordinato di montare di PAO all'armeria. È la terza sera consecutiva che mi mettono di servizio: prima corvée cucina, poi mi hanno inviato al Passo del Tonale come capomacchina sull'Alfa 133 del generale. Ho dormito là e stamattina mi hanno dato un passaggio a Merano con una jeep. E ora tocca di nuovo a me. Al sottotenente Manfredi l'ho spiegato senza arrivare alle male parole, anche perché è un ufficiale che rispetto. Alla fine mi è sembrato accennare a un cenno di scusa davanti all'ineluttabilità della decisione. Mi sembrava stanco, probabilmente deve fare assegnamento su poco personale e fatica a riempire i turni. Poi è arrivata questa scocciatura del PAO alla Compagnia Trasmissioni: si dev'essere rotto un allarme, a quanto ho capito, e servono un paio di alpini per la guardia. Un paio. E uno sono io, che non sono neanche della compagnia.

Ma l'ira, la rabbia, quella è rimasta in me. E cerco di lasciarla sbollire in queste due ore in cui sono comandato a stare seduto con il fucile davanti a una grata di ferro che chiude il passo verso l'armeria. Cerco di non pensare a quel nodo di bile che mi stringe lo stomaco, che mi prende la gola e scalda i nervi. Non voglio lasciarmi dominare da questa passione che avvampa in breve e poi ti fa pentire. Sono panni che non mi sono connaturati. Poi, se Dio vuole, finisce. Consegno l'arma e vado. Sono ormai passate le nove. Non c'è neanche più tempo di uscire: se arrivo in centro, devo subito tornare. Mentre attraverso le camerate dei trasmettitori, mi sento chiamare: è Spertini, un varesino di lago che era nella mia squadra al CAR. Ci siamo sempre trovati simpatici. Mi offre da bere, del vino rosso in una tazza smaltata. È Bonarda e disegna una schiuma rosa. Restiamo a bere nella sua camerata con altri due o tre. L'ira oramai è un ricordo lontano. Sono contento di passare la sera così, in amicizia. Quando rientrano i primi che erano andati in libera uscita, saluto e torno alla Compagnia Comando, attraversando il piazzale dell'Adunata nella sera di luglio. Nel cielo brillano migliaia di stelle, approfittando della luna nuova.

  CAR
Merano, Caserma Rossi, CAR, Maggio 1988

Sono il secondo da sinistra in piedi. L’amico altoatesino Christian Ritsch è l’ultimo a destra, Massimo Spertini è al centro, seduto.

sabato 13 aprile 2019

Terrazza sul mare

Le dita di Paola scompaiono nell’onda castano chiara dei capelli profumati di shampoo alla mela e di balsamo - quella lucentezza è anch’essa una sorta di profumo - e come i denti di un rastrello li solcano lasciandoli morbidi e leggeri. Poi scoprono l’orecchio, piccolo, ben disegnato, caratteristica che definisce bene anche i suoi seni. Così facendo rivela l’orecchino che riflette le luci della sera. Il suo sguardo è sicuro, lo è sempre stato, è sempre stata lei a comandare.

Non la troverò mai scossa dal pianto, come la ragazza che addossata a un muro singhiozzava con il viso arrossato. Parlava al telefono e piangeva. Le ho chiesto se andasse tutto bene, se avesse bisogno di aiuto. Ma era solo l’amore… Era l’amore che la faceva lacrimare, che la rivelava fragile agli occhi della gente. Paola no. Paola non piange. Paola è la samaritana che ti prodiga cure, è la bambina curiosa che vuole vederti dentro, come un giorno aveva aperto la sua bambola, come rovesciava i sassi per osservare il brulichio di insetti, il lombrico scoperto che si rinserrava nella terra smossa, lo scarafaggio che correva via veloce sulle zampette esili. È la bambina che prende in mano la chiocciola e attende paziente che tiri fuori le antenne dal guscio per poi darle una foglia di insalata come premio.

Ora Paola è seduta sul grande tappeto, la gonna è risalita e le lascia scoperte le gambe. Stringe al petto un mazzo di rose chiare, cerca un vaso per mettercele, quelle rose carnose e lucenti. Infine lo trova, un vaso di cristallo lavorato a onde: vi pone le rose con un gesto aggraziato e tenero, a metà tra la ballerina e la madre.

Il mare è un frantumarsi e ricomporsi di riflessi, un grande caleidoscopio monocromo: lo si vede oltre il balcone, lontano, nell’azzurro pomeriggio. Qualche vela bianca, qualche wind-surf vi galleggia come una mezza dozzina di farfalle. Poche barche, lasciate sulla spiaggia sembrano gusci vuoti di chiocciole.

Tra poco sarà il tramonto e già il mare cambia di colore, tingendosi di un grigio ardesia. Paola mi dice che ama quest’ora, quando tutto diviene rarefatto. La guardo e studio quel suo modo di parlare, come si pongono le labbra, come la luce plana nei suoi occhi scuri, come il respiro le muove il seno nella canottiera leggera.

So già che un giorno se ne andrà via e mi porterò nella memoria l’eco dei suoi passi, quelli che adesso vibrano elastici sulla passerella di legno, e quel calore dolce sulle labbra dove marchierà l’addio l’ultimo bacio... So che sussulterò nel ritrovare in un cassetto il nastro per legare i capelli o le conchiglie che raccoglie subito dopo l’alba o la matita verde con la gomma mordicchiata nel risolvere un cruciverba.

Ma ora ci apparteniamo, su questa terrazza, dove lei, sorpresa una goccia tra i petali della gardenia, mi fa partecipe di quel mondo riflesso a rovescio: è come sbirciare l’universo da uno spioncino. “In una goccia pensa quante cose possono stare” mi dice, “pensa che l’infinito può racchiudersi in così poco”. La abbraccio forte e mi sento anch’io universo infinito guardando il mondo riflesso nei suoi occhi.

2009


FOTOGRAFIA © GEORGE MEIS