sabato 30 maggio 2015

Un mare lontano

 
Forse sul ponte di una nave che va in America. Forse, ma non adesso, non in una crociera troppo organizzata. Sul ponte di una nave che va in America ne­gli anni Venti, e il sogno di vedere spuntare la Statua della Libertà. Sul ponte di una nave tra dame vestite di bianco con l’ombrellino e la noia di una lunga traversata. Sentire il transatlantico fendere l’Oceano, dividere in due cielo e mare come nelle poesie di Juan Ramón Jiménez. E come lui inseguire l’amore o la sua ombra con l’ansia di non riuscire a raggiungerlo, come il bambino cui resti la coda della lucertola tra le dita mentre questa corre via al sicuro. E poi sbarcare in una città dove desideri e paure si intarsiano, anzi di più, si intrecciano strettamente come la trama e l’ordito di un tessuto tanto che non riesci neppure a distinguere dove finisca l’una e cominci l’altro.

Ma ora cala la sera e la luce si affievolisce fino a restare il lontano globo di un lampione stradale e il giardino nell’ombra diviene una dar­sena. Mi godo il fresco nella sera d’estate sul balcone ascoltando la radio e oltre le piante mi immagino di scorgere il mare. Mi sembra quasi di sentire lo sciabordio delle onde. Ma è un mare lontano anche nel tempo, è un mare di memorie perdute eppure ancora così vive: è un’immensa distesa che scintilla di riflessi d’argento e mi dice che le occasioni perdute non ritornano e che questa è la legge più dura del mondo. Baci non dati e parole taciute, rimpianti e nostalgie che ardono in petto, pozze d’acqua distese nel deserto e quando scendi per bere ti accorgi che è un miraggio e che con un po’ d’acume lo potevi intuire, potevi capire… Oppure davanti a me si estende la campagna di una piccola città del Midwest americano, lontano i serbatoi dell’acqua e il treno che passa, i rumori e le note che provengono da un ballo campestre mentre la luna si alza lentamente al ritmo dolce della steel guitar. È una scena di film o telefilm, di quelle con cui abbevero il mio “American Dream”: potrebbe essere la cittadina di “Footloose” o quella in cui vivono allegri i ragazzi di “Happy Days”.

Perché mai i miei sogni sono così irrealizzabili? Perché mai se riguardano un luogo, comunque si rivolgono ad un tempo ormai passato o avviluppato nelle pagine del cinema o della letteratura? Che la nostalgia che provo sia quella per un periodo trascorso e non per un luogo lontano? Infatti non è quel luogo a mancarmi, ma l’atmosfera di quel luogo. Se anche vi tornassi, non troverei quello che cerco, lo so benissimo.

Luglio 1995

 


FOTOGRAFIA © THE ENCHANTED STORYBOOK






sabato 23 maggio 2015

Quel vestito stampato

 

Devo ammettere di averci pensato anch’io qualche volta: il tema di una poesia di Andrew Motion è che fine abbia fatto un vestito indossato tanto tempo prima dalla donna amata – un vestito che diventa un feticcio, che passa a simboleggiare l’amore com’era nel suo nascere, nel suo primissimo albore fatto di tenerezze e gesti romantici. L’aver scelto una tovaglia che ne richiama colore e disegno è per il poeta inglese un segno dell’antico amore, un risveglio della fiamma mai sopita.

Motion scrive nella sua biografia per il British Council: “Voglio che i miei versi siano chiari come acqua. Nessun linguaggio ornato, solo qualche ovvio accorgimento. Voglio che i lettori possano vedere tutto il percorso attraverso lo specchio della palude. Voglio che sentano di trovarsi in un mondo che pensano di conoscere, e che diventa poi straniero, più carico, più turbato di quello che credevano”.

Bene, Sir Andrew Motion, ci sei riuscito: ho ripensato a quel vestito azzurro riempito di lei, a come si ricopriva della luce d’estate… Sarà diventato stracci per pulire i vetri o è finito nel sacco giallo della Caritas o forse è passato di mano, dopo essere finito in qualche mercatino?

 

2012

 

The Mad Hairdresser study

JACK VETTRIANO, “THE MAD HAIRDRESSER”, STUDY

sabato 16 maggio 2015

Una normalissima foto ricordo

 

Una normalissima foto ricordo, di quelle che tutti noi abbiamo ben incollate nei nostri album oppure dimenticate alla rinfusa in un cassetto o in una vecchia scatola da scarpe, legate con un elastico che si secca.

Un bambino ritratto tra i giochi, forse dei gonfiabili o delle moderne altalene, su una spiaggia; dietro scintilla il mare. E poi c’è il tempo, grande protagonista di ogni fotografia: quel tempo che ferma l’attimo per sempre, che lo ingabbia in quel rettangolo – ora digitale, ma un tempo solidamente cartaceo – nel quale rimane cristallizzato, immobile come un insetto intrappolato in una goccia d’ambra.

E con il tempo arriva il ricordo, la memoria di un altro bambino che in un altro tempo giocava sulla spiaggia con paletta e secchiello, che costruiva una pista di sabbia per farci correre le biglie con il viso di celebri corridori dai nomi oggi ormai persi nella leggenda. Il tempo, già fermo nello scatto.

Febbraio 2011

 

Biglie

FOTOGRAFIA © SITOGRAFICO

sabato 9 maggio 2015

La felicità

 

Ci sono certe mattine di martedì, quando sono a Milano, in cui mi capita di attraversare il Parco Sempione e uscire dal Castello Sforzesco dalla Porta del Filarete: fuori c’è la grande fontana che eleva al cielo i suoi getti; dietro, il sole si leva sui palazzi ottocenteschi di Via Dante, dipingendo riflessi iridescenti sull’acqua.

In quel momento io mi sento felice, senza un perché. Immotivata felicità e forse per questo ancora più apprezzata. Per il resto, io non credo alla costituzione americana che mette il diritto alla felicità tra i suoi requisiti fondamentali. Si può provare a essere felici ma niente e nessuno può garantire la felicità. La vita ha i suoi colpi, il destino sa essere crudele.

Se Gesualdo Bufalino scrisse che “la felicità esiste, ne ho sentito parlare”, io posso dire che esiste perché so di averla provata, di provarla, anche se non può essere uno stato continuativo. Dobbiamo soltanto coglierla, quando si presenta, come un bel frutto dorato sull’albero dei giorni…

 

Febbraio 2011

 

Filarete

FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 2 maggio 2015

Una sera di pioggia

 

Eravamo seduti in macchina in una sera di pioggia, fermi sotto casa sua. Le gocce cadevano sul parabrezza, si raccoglievano in rigagnoli, disegnavano vene nelle quali fluivano le luci gialle della città. Di tanto in tanto, un’auto passava nella strada illuminando per qualche istante i nostri visi persi nella semioscurità dell’abitacolo. Era primavera e sui vetri cadevano petali dai pruni ornamentali del viale, l’acqua che scrosciava fitta li incollava sui vetri.

La musica di Sade che usciva dal cd si armonizzava bene a quella situazione: “Ti ho dato tutto l’amore che avevo, ti ho dato tutto l’amore che potevo”. Lei mi stava parlando del tempo: pianificava il suo futuro, lo costruiva mettendo insieme gli elementi come se fossero carte e stesse realizzando un castello – la differenza è che non sarebbe stato fragile anzi, solidissimo, con tutte le sue certezze che spesso andavano a cozzare con i miei ghiribizzi di sognatore, con le mie visioni di poeta.

Era un futuro senza di me, l’avevo compreso da tempo: non ero certo uno sprovveduto né un ingenuo, sapevo leggere tra le righe, collegare i segnali, farli combaciare. Che l'amore finisca, dunque, pensavo che si sgretoli... “Continuo a volare, sto cadendo” stava ripetendo ossessiva Sade, la pioggia aggiungeva spazzole jazz a quella musica. Cercavo di misurare le parole, di sostenere una conversazione dignitosa, senza tradire quel groppo in gola che sentivo. Non ferirmi, non ferirmi, pensavo. Lasciamoci così. Meglio il silenzio, meglio il vuoto.

Quando lo disse, quando sputò quel rospo che – anche lei – aveva in gola, mi sentii meglio. “Credo che dovremmo chiuderla qui” era il succo di quell’argomentato discorso, com’era sua abitudine aveva seguito uno schema, facile che si fosse esercitata a casa, che avesse stilato anche un prospettino con tutti i punti, scritti con la sua calligrafia ordinata, senza una sbavatura.

Sollevò il suo volto biondo e sottile e mi guardò seria e compunta. Rimasi zitto e la guardai. Una lacrima le rigò la guancia. La abbracciai. Era tutto finito, ma l’amore ancora in qualche parte del cuore pompava il suo sangue. Era difficile parlare, era difficile persino staccarsi da quell’abbraccio, l’ultimo. “Piove meno, ora. Sali, che è tardi. Tua madre sta in pensiero”. Mi sfiorò le labbra con le dita, poi aprì la portiera e scese nella strada. La pioggia si mescolò alle sue lacrime.

 

Pioggia

FOTOGRAFIA © THE STARLITE CAFE