sabato 30 giugno 2018

Un ragazzo, una ragazza


L'intraprendenza con cui aveva abbordato la ragazza stupì in primo luogo lui stesso: non se ne sarebbe creduto capace. Invece, abbandonato ogni timore, messa da parte ogni remora, si era buttato a capofitto in quell’impresa che poco tempo prima aveva giudicato disperata.

Ora erano seduti su una panchina nell’esigua veranda che si affacciava sulla strada, dove un viavai di gente diretta verso il lido era pressoché continuo. Il ragazzo sedeva composto, intimorito quasi dal fascino che sprigionava dalla ragazza come un’essenza che stordisce tutto il corpo, non solo le narici. La ragazza reggeva tra le mani un libro di narrativa italiana del Novecento, che aveva chiuso infilandovi un segnalibro in pelle cremisi per conversare con il giovane che - in modo timido e impacciato, secondo lei - le aveva rivolto la parola. Fu proprio quella goffa timidezza che l’aveva incuriosita; fu solo per quello che l’aveva invitato a sedersi, o almeno così in un primo momento le era sembrato. Ora che il ragazzo aveva cominciato a parlare di sé e di cose che, pur sembrando di poco conto, avevano una certa profondità, però la ragazza si sentiva attratta da lui, dal suo modo di parlare, come se il ragazzo - o la sua mente - emanassero un fluido. Ne percepiva tutto l’intimo tormento, con l’immensa dote del suo intuito femminile, riusciva a capirlo, a comprenderne le ragioni e le sofferenze e si sentì come investita da una missione: consolarlo, guarirlo, salvarlo. Ma da cosa ancora non sapeva: sapeva solo di dovergli stare vicino, di parlargli, di raccontarsi sinceramente come lui ora si stava raccontando, senza pudori.

Il sole era velato da una cappa plumbea d’afa ma lì all’ombra dei pini soffiava una brezza leggera. La ragazza si era ripromessa di fare compere quel pomeriggio, di girare nei negozi. Aveva adocchiato una maglietta turchese e un bikini coloratissimo sotto i portici del centro. Si disse che era più importante restare a sentire quel ragazzo.

Fu lei a invitarlo per la sera, intuendo che forse lui non ci sarebbe riuscito: propose al ragazzo di recarsi al cinema all’aperto, dove c’era in programma un film americano. Il ragazzo avrebbe voluto dissimulare la gioia che provava per quell’invito, per quel poter restare ancora con la ra­gazza, ma non vi riuscì e lei lo comprese benissimo.

Il cinema K. era nei pressi della chiesa, all’altra estremità della cittadina, dove si aprivano il vasto parco pubblico e, oltre i villini di più recente costruzione, la campagna. I due ragazzi avevano appuntamento per le otto e mezza davanti al giardino dove si erano incontrati: lui arrivò in anticipo e si guardava attorno ansiosamente quando lei, con un leggero ritardo, arrivò. Vestita di rosso, la sua bellezza fiammeggiava - pensò il ragazzo - sfolgorava come un tramonto d’estate. Guardò il cielo a Occidente e non poté fare a meno di paragonare la bellezza del cielo a quella di lei. Non se n’era ancora reso conto, ma quello che provava non era altro che amore.

Attraversarono i negozi del centro dove le luci si accendevano con i loro aloni crepuscolari e giunsero al cinema: si sistemarono sulle poltrone di ferro verniciate di blu e attesero in silenzio l’inizio della proiezione. Una luna piena e burrosa si stava levando oltre il telone, i lampioni si spensero e iniziò il film. Era la storia di un omicidio e di un processo in cui l’accusato era un innocente.

I ragazzi stavano pensando a cosa dire, a cosa avrebbero fatto una volta usciti dal cinema. Lui si chiedeva se metterle un braccio attorno alle spalle avesse rovinato tutto, esitò a lungo, poi si decise a compiere il gesto. La ragazza si strinse a lui.

Finito il film, uscirono nelle strade ancora affollate di gente, mentre i negozi chiudevano. La sera era diventata fresca e piacevole, perché una leggera brezza soffiava dal mare. Senza quasi accorgersene i due ragazzi si erano ritrovati mano nella mano nell’ampio piazzale davanti alla spiaggia. Gli ombrelloni chiusi e incappucciati erano in fila come soldatini di piombo, i riflessi argentei della luna coloravano le onde. Al largo tremolavano due luci, forse una chiatta o un peschereccio, più in là le luci della costa formavano una col­lana luminosa. Grilli cantavano nella pineta, da dove giungeva un balsamico odore di resina. Il ragazzo confessò che scriveva poesie ed era la prima per­sona a cui lo diceva. Ora lo sapeva che era amore: proprio da questo rivelarsi lo aveva capito, da questo desiderio di non avere segreti per la ragazza. Lei lo guardò in silenzio, poi disse che avrebbe tanto voluto leggerle. Poteva quasi toccare l’anima del ragazzo. Avvicinò le labbra a quelle di lui e si baciarono.


1994

sabato 23 giugno 2018

Un rettangolino di plastica


Milano, 26 luglio 2674

I lavori di scavo nella "zona verde" della città vecchia - così chiamata per il ritrovamento di numerosi manufatti dipinti con tale colore - continuano a riservare sorprese. Il professor John Tagliaferro dell'Università di Pavia 2 ha comunicato al quotidiano "Electronic Evening Courier" di avere rinvenuto un oggetto ancora sconosciuto, leggermente corrotto ma ancora in buone condizioni grazie a una bolla d'aria che lo ha imprigionato in un angolo riparato dalle intemperie: si tratta di un rettangolino di plastica bianco da un lato con delle scritte nell'antico alto italiano, la lingua dialettale usata prima dell'adozione dell'inglese globalizzato, e con un'immagine non riconoscibile, forse due persone, su sfondo rosso dall'altro. Il professor Tagliaferro e la sua assistente, la promettente Mary Elizabeth Pudeddu, ritengono si trattasse di qualche genere di tagliando: infatti hanno decifrato il numero 10, che fa presupporre un corrispettivo nella moneta dell'epoca, l'euro, corrispondente all'odierno dollaro transnazionale. Accanto vi erano degli oggetti più comuni, spesso rinvenuti intatti, come in questo caso: alcune bottiglie verdi da un terzo di litro, che probabilmente contenevano un qualche tipo di liquido ottenebrante - ricordiamo che in quel periodo l'alcol non era stato ancora messo al bando.

NOTA: ho scritto questo breve apologo per ricordare che una ricarica telefonica gettata viene smaltita in mille anni, una bottiglia in quattromila. Pensiamoci, quando abbandoniamo un rifiuto lontano dai cestini!


2009


unnamed

sabato 9 giugno 2018

La felicità della malinconia


Il cielo era ammantato di stelle, "crivellato" come diceva una canzone, lontano una campana suonava le dieci. Anna si riscosse dai suoi pensieri a quei rintocchi quasi festosi in contrasto con il silenzio della notte. Il contatto della lana sulla pelle le dava una strana sensazione, non un prurito né un fastidio, piuttosto un tenero, caldo abbraccio.

Guardò Giovanni: distese le gambe in tutta la loro lunghezza, il ragazzo osservava la gente che rincasava nella strada. "Diamine Giovanni, abbiamo diciott'anni! Ma cosa ci facciamo seduti in questo bar come due vecchietti? Andiamo a divertirci" pensò senza riuscire a rivolgersi all'amico. Fu invece Giovanni subito dopo a dire: "Anna, ti va di andare a vedere il mare?". Lei assentì e Giovanni, imbaldanzito dalla sua risposta affermativa, disse quello che la ragazza avrebbe voluto dire qualche attimo prima: "Mi sembra di essere un pensionato a restare qui tutta la sera".

Un chiarore lontano faceva presagire la presenza della luna che nasceva dal mare, piena e grossa. I due ragazzi si incamminarono sul nastro d'asfalto che attraversava la pineta; sotto i loro piedi potevano sentire gli aghi dei pini che formavano un rado tappeto dopo la mareggiata della notte precedente. "Giovanni, perché non ti trovi una ragazza, qualcuno che possa alleviare la tua solitudine? Insomma, voglio dire: hai diciotto anni..." riuscì a dire Anna guardando negli occhi l'amico. Giovanni rimase silenzioso solo un attimo, che egli però giudicò troppo lungo, poi rispose: "Non so, forse aspetto che sia l'amore a venire da me, sai, il classico colpo di fulmine. O forse è proprio questa condizione che mi piace: la solitudine, la malinconia..."

Già, la felicità della malinconia, pensò Anna e provò un brivido, forse un'invidia inconfessata per il coraggio con cui Giovanni metteva in pratica la sua filosofia. Lei invece aveva incontrato Luca, stavano insieme da due anni ormai; tutto sembrava bellissimo nei primi tempi ma poi un vago malessere aveva intriso la loro storia, che si trascinava ormai solo per inerzia, solo perché nessuno dei due voleva ammetterne il fallimento.

"A diciott'anni non si è maturi" disse Anna "si fanno tante cose per istinto o per emulazione e tante volte si sbaglia e si sbatte il muso contro un muro". Confidandosi erano giunti alla spiaggia. Ora potevano vedere la luna, anzi due lune e quella riflessa nel mare era ancora più bella di quella vera. Due lune grosse e luminose, due perle arabe di rara bellezza. Di tanto in tanto un'onda scompigliava la luna riflessa, che in breve si riformava tonda e perfetta.

In quel momento Anna sentì che con Luca era tutto finito: non l'aveva mai portata a vedere la luna e quello spettacolo meraviglioso l'aveva riempita d'amore, tanto amore inespresso che aveva tenuto dentro e che ora spingeva per uscire. "Baciami, Giovanni" sussurrò in un filo di voce. Un po' perplesso il ragazzo obiettò "E Luca?". "Con Luca è tutto finito: per lui conta di più la pallacanestro, io sono solo un diversivo. E poi non c'è un filo di romanticismo in tutti quei muscoli".

Giovanni esitava. Fu Anna ad appoggiare le sue labbra su quelle di lui. Giovanni la strinse a sé, sentì la durezza dei seni acerbi, ripensò a quanto gli aveva detto prima Anna: "A diciott'anni non si è maturi: si fanno tante cose per istinto". La luna si stava alzando piano piano. Giovanni si sedette per terra e Anna gli posò la testa sul petto: accarezzandole i capelli pensò alla malinconia.


1990


EDVARD MUNCH, “SOMMERNACHT AM STRAND”

sabato 2 giugno 2018

Il filo del passato


Ci siamo ritrovati per caso in questa gita della Biblioteca che ci porterà alle meraviglie di Venezia, a un museo che ci mostrerà i colori del Manierismo. Ci siamo scorti e salutati nel parcheggio, dove abbiamo lasciato le nostre auto e ritrovato il filo del passato. Quanto tempo? Quanti anni? Lo abbiamo riannodato subito e siamo saliti sul pullman, verso il fondo, come ci è sempre piaciuto, occupando una coppia di sedili sul lato sinistro, perché a me è sempre piaciuto guardare le auto in sorpasso e a lei appoggiarsi alla mia spalla e assopirsi.

Ora no. Non siamo più gli studenti che andavano in gita. Ora abbiamo tanti giorni e tante cose da raccontarci e parliamo fitto fitto mentre il pullman percorre la A4 Serenissima e si lascia dietro frutteti e case coloniche, zone industriali e grandi magazzini, anche un aeroporto.
L'autista ha messo un CD di successi degli Anni '80, neanche l'avessimo corrotto, e la nostra musica ci riavvicina ancora di più. Annamaria si lascia andare: mi confida dei problemi che ha avuto, il divorzio, il figlio autistico, il suo studio di architettura che non va troppo bene. Come allora trova in me un ascoltatore paziente. Come allora non ho niente da dirle, ma basta la mia attenzione a consolarla.

Le racconto di quante volte ho percorso questa strada, del mio grande amore liquefattosi senza un perché. Lei coglie con femminile sagacia il mio tormento, mi posa una mano sul ginocchio, lo stringe appena e quel gesto di amicizia è un collante che riesce a riparare la mia voce incrinata. «Ti ricordi di quando ci sbaciucchiavamo di nascosto dai professori su sedili come questi?» mi chiede. Altroché se ricordo: fuori il tramonto incendiava l'autostrada, poi scendeva il buio e noi annegavamo in quella dolcezza. Quanto tempo. Quanti anni...

Annamaria mi guarda con gli occhi accesi e un lampo furbo nello sguardo: «Dai, che il responsabile della Biblioteca non ci guarda...» mi dice, e posa le sue labbra sulle mie...

Il filo è stato riallacciato con un nodo ben stretto.


JACK VETTRIANO, “AE FOND KISS”