sabato 31 marzo 2012

Leggendo poesie d’amore

 

Sera dolce di una primavera iniziata da poco: l’aria appena tiepida ha sentore di magnolie e di giacinti, spezie e profumi si mescolano in un effluvio che sa di vita, che sa di nuovo. I peschi hanno affascinanti livree rose, sembrano ballerine in vaporosi tutù, i pruni sono come spose vestite di bianco. Il tramonto ha una dolcezza infinita, sembra non voler mai morire, si dilunga in un crepuscolo che si tinge di lunghe righe tracciate a pastello, di nuvole dipinte con una spugna e gli acquerelli.

Leggo poesie d’amore, seduto sulla sedia da giardino bianca sottratta alla polvere dell’inverno, al suo letargo che mi sembra essere stato lunghissimo, come il mio. La luce si riversa avida sulle pagine, pare quasi voler leggere anch’essa, finché in tempo, fino a che il sole non precipiterà completamente oltre le colline…

Tenui ombre impallidite
oscillano nel luogo
deserto e qualche fiore ne sospira.
I ricordi mi tangono; il passato
abita qui ancora; il luogo intorno
compone un regno pieno di bisbigli…
1

Quante belle parole, quanti settenari, quanti endecasillabi: come biglie iridescenti e levigate, lucide, polite, rilucenti come vetro. Quartina dopo quartina, sonetto dopo sonetto, rima dopo rima avanzo come dentro un labirinto e indosso i panni del poeta: le sue emozioni sono le mie, i suoi passi sono i miei passi. Ci sono donne che ho amato, donne che ho perduto. Ci sono errori e rimpianti, ci sono i languori e la calda fiamma dei sensi, gli abbandoni dei baci, le romanticherie che mi fanno sentire tanto bene.

Vagammo tutto il pomeriggio in cerca
d'un luogo a fare di due vite una.
Rumorosa la vita, adulta, ostile,
minacciava la nostra giovanezza.
Ma qui giunti ove ancor cantano i grilli,
quanto silenzio sotto questa luna.
2

Sono in armonia con la sera, con quella barchetta di luna che si è levata a oriente tra Giove e Venere e sembra sorridere alle migliaia di amanti che levano gli occhi al cielo teneramente abbracciati. Luna, luna, che non sei neanche mezza, tu sei la mia sola compagnia stasera e assecondi questa brezza leggera che soffia odorosa predisponendo l’animo ai ricordi e alla nostalgia.

Da nulla che ero mi facesti dono
d'essere uno che ti guardava:
e te guardando nella mente me ammiro
e tanto mi piace essere te
che il distacco poco mi duole.
3

Il buio è ormai calato, fatico a leggere alla luce che viene dalla strada. Nella pozza gialla dei lampioni una coppia sta ancora all’abicì dell’amore: sono ragazzi che esplorano il mondo, le risatine nervose di lei, la spavalderia timida di lui… Eravamo così anche noi, tanti anni fa…

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1 Aldo Capasso, Stupore, perché mai

2 Umberto Saba, Ultime cose

3 Libero De Libero, Da nulla che ero

 

KARL SPITZWEG, “READING THE BREVIARY THE EVENING”

sabato 17 marzo 2012

Lettera non spedita (V)

 

Cum ventitabas quo puella ducebat...
CATULLO, Carme VIII   

Carissima P.,
           se ti penso ancora non è per caso, non è certo quello che io credevo essere un'illusione, quel sogno di Gozzano nutrito di rimpianto. Non è per caso che nella mente mi risuonano quelle parole nuove dette tanti anni fa ormai e che tuttavia non pèrdono il loro valore, semmai sono valorizzate dal trascorrere degli anni. E quella tempesta  di dubbi e di emozioni, quel vortice di passioni e di timori che forse troppo frettolosamente noi chiamammo amore mi sollevarono qualcosa dentro, non so, quasi una leva, un interruttore, e da ragazzo fui uomo nel dolore di averti persa.

Quante sere da allora ho passato a rimirare le stelle e la luna in ricordo di quella sera di settembre mai dimenticata. E il ricordo associava alle stelle e alla luna il tuo viso, il tuo corpo, la sabbia umida, le luci dei pescherecci al largo, l'aria frizzante... Eri tu la donna giusta, ora lo posso dire, ora che tutti me l'hanno detto senza scrupolo di ferirmi. Eri tu la mia rosa non colta. L'ho capito da solo quando apparivi improvvisa nei miei sogni, evocata da un pensiero inconscio. Eri tu, separata  da me da una barriera trasparente e insormontabile. Eri tu e dicevi "Vieni a vivere da me, abito sul lago". Eri tu che mi parlavi, tu che mi baciavi. E al risveglio non c'eri più.

Ahimè, è troppo corta la coperta del ricordo, non vale a scaldarmi tutto e la tua voce come di sirena risuona troppo lontana  nello spazio e nel tempo, è un biglietto lasciato nell'arca di Giulietta, un augurio, un disperato bisogno d'amore. Sono passati troppi anni ormai: temo di confonderti con il sogno, con una figura idealizzata che da sempre mi porto dentro, ma non posso fare a meno di guardarti, comunque tu sia, perché non ti voglio dimenticare. E quando ti guardo il cuore batte ancora di più, gonfio di rimpianto perché non ti posso avere davvero vicina, perché rimani e rimarrai la rosa non colta.

 

JOHN FREDERICK PETO, “TABLETOP STILL LIFE. A LETTER FROM NEW YORK”

sabato 10 marzo 2012

La gazza

 

L’altro giorno è passato da casa S. con i soliti baffi tristi e la giacca verde che gli ho regalato dieci anni fa. Il suo passo sofferente da malato di schiena cronico, affaticato dal troppo vangare, rastrellare e sarchiare, potare e seminare… Eravamo in giardino a parlare del più e del meno, delle solite cose, quando ha allargato lo sguardo come fa sempre quasi per abbracciare la natura, i boschi che ama, le cascine sperdute.

Ha visto il nido della gazza sul carpino. Ora che i rami sono ancora nudi rimane scoperto, esposto a circa tre quarti della pianta, un cuneo inserito sulla forcella di un ramo. «Ha il tetto, vedi?» mi ha detto S. indicando con il suo dito tozzo e calloso, «è un nido di gazza». «Se me lo dicevi prima…» ha quasi sospirato, come se gli avessi recato un affronto imperdonabile. Poi ha infilato una serie di verbi – più che il Giulio Cesare del “veni, vidi, vici” sembrava un indigeno di qualche tribù primitiva: «Venivo, la catturavo, la mettevo in gabbia, la vendevo». eccolo lì il solito motore, il denaro. Sacrificare la libertà di un magnifico animale per un paio di banconote. E per fare cosa poi? Bersele al bar, comprarci un pieno di benzina?

Come potevo spiegargli che vedere le gazze entrare tra le foglie verdi nel pieno dell’estate mi riempie di gioia, che il loro volo bianco e nero nel cielo mi riconcilia con la vita e mi fa pensare alla libertà, all’infinito potere della fantasia, alla bellezza del creato? Come potevo dirgli che il loro riso beffardo mi ricorda la poesia di Quasimodo: “già l'airone s'avanza verso l'acqua / e fiuta lento il fango tra le spine, / ride la gazza, nera sugli aranci”. Non avrebbe capito.

Speriamo che la gazza torni a fare il nido sui carpini, Tanto io a S. non glielo dico…

 

WILHELM VON WRIGHT, “PICA PICA”

sabato 3 marzo 2012

Al bar della signora Rosy

 

Al bar della signora Rosy quella sera offrivo io: mancavano pochi giorni alla mia partenza. La primavera stava esplodendo con il fragore dei fiori colorati che riempivano le aiole. Fuori era buio ma c’era movimento: la Kurhaus, riaperta dopo lunghi mesi di restauro, era affollata; le coppiette gustavano il tepore, la voglia ritrovata di restare fuori dopo il letargo dei fumosi locali obbligato dai rigori del gelo e dalle intemperie.

Ma lì dentro, nel bar, sembrava ancora inverno: il ghiaccio dell’addio era sceso tra noi; non li avrei più rivisti, chissà per quanto tempo, i miei amici con i quali avevo condiviso ore e giorni memorabili. Danilo si fingeva fatalista ma, sotto la scorza, così dura all’apparenza, si lasciava andare al sentimentalismo. O forse era il liquore che iridesceva nel bicchiere sotto le luci.

Carlo invece mi ricordava un comportamento noto, il mio, quando ad andarsene era stato Silvio, partì un mattino d’inverno con il cappotto blu e la sciarpa alla Verdi di quelle sere del teatro; a quanti concerti d’archi, a quanti recital avevamo assistito insieme. Carlo taceva, commosso, si dominava per non lasciare che una lacrima gli colasse per il viso. Anch’io avevo fatto così.

Fabrizio rideva, provava a sdrammatizzare, ma dietro gli occhiali i suoi occhi dardeggiavano meno vispi, i suoi lazzi colpivano come fioretti foderati e lui ne era conscio.

Donato non sapeva che fare, si perdeva nel giornale, guardava la gente passare nella strada, la signora Rosy che lavava i bicchieri, osservava le etichette dei liquori: quella situazione lo imbarazzava.

Non c’erano altri avventori quella sera nel bar; per rompere quella crosta ghiacciata pagai e proposi di uscire: vedere gente, scherzare, ci avrebbe aiutati, ci avrebbe fatto dimenticare perché quella sera offrivo io.

(2 dicembre 1993)

 

MANEL ANORO, “BAR VERDE”