sabato 25 maggio 2013

La stampante 3D

 

Ho sognato una macchina capace di creare oggetti. Era una specie di juke-box in un angolo seminascosto di un bar, in quel momento deserto. In effetti poteva essere il retro: c'erano accatastate casse di acqua minerale con i vuoti da rendere e scatoloni da sei di bottiglie di vino.

Mi avvicinai alla macchina. C'era un microfono attraverso il quale il software evidentemente elaborava le istruzioni: bastava indicare il nome dell'oggetto e questo prontamente veniva stampato. Provai. Pensai di realizzare un coltello da tavola. Dissi, in inglese: «Table Knife». Niente. Neanche una lucina che lampeggiasse. Provai ancora: «Fork». Nulla. Riprovai: «Spoon». La macchina rimase immobile e silente. Ci girai attorno, esaminandola, e scorsi un'etichetta laminata sul retro. Indicava la fabbrica che l'aveva prodotta. Si trovava a Frattamaggiore, in provincia di Napoli. La lampadina, invece che sulla macchina, si accese in me: l'oggetto doveva essere chiesto in italiano. Mi avvicinai ancora al microfono e pronunciai distintamente: «Coltello da tavola». Si accese una spia, la macchina elaborò un poco e quasi subito sputò nello sportello apposito qualcosa, che cadde con rumore metallico. Lo presi: era un coltello da tavola in una qualche lega che brillava argenteo ai raggi di sole che entravano da una finestrella del retrobottega. La fattura era buona. Provai allora con «Cucchiaio» e in breve ebbi la mia posata. Così anche con «Forchetta».

Poi, per scherzo, provai con «Seno» e il mio sorriso era spartito a metà tra la boutade e la sfida che credevo di lanciare alla macchina. Stavo pensando: «E adesso cosa fai, eh? Che cosa fai, macchina?» quando nel cassettino demandato alla raccolta degli oggetti con suono attutito uscì un perfetto e rosato seno di donna, con il capezzolo di un colore più scuro. Era di silicone o di una resina simile. A quel punto volli provare con un concetto astratto, per mettere alla prova ancora una volta la macchina: «Amore». Ma resta purtroppo inevasa la mia richiesta: proprio in quel momento un tuono mi ha svegliato, un forte temporale si stava abbattendo sulla città.

Sono rimasto lì, sveglio, mentre i bagliori dei lampi di tanto in tanto illuminavano la stanza. Caro il mio Freud, vedi che effetto può fare leggere un articolo sulle stampanti 3D prima di andare a dormire...

 

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FOTOGRAFIA © AIRWOLF 3D

sabato 18 maggio 2013

Qual è colui che sognando vede

 

Qual è colui che sognando vede,
che dopo ‘l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede.
DANTE, Paradiso, XXXIII, 58-60

Tutto accadde così, all’improvviso mi ritrovai catapultato come Alice dentro lo specchio o come Dante nel mezzo del cammin di nostra vita. Ero in una selva, naturalmente, ma non di alberi e arbusti, di felci e licheni: un bosco di pilastri, di colonne ben bilanciate, decorate canonicamente con i capitelli d’acanto – cattedrale gotica, antico scriptorium di una biblioteca medievale. Ogni colonna dunque era un’idea, un perno portante per resistere al moto della luna e agli influssi delle maree. Ero nudo e mani si tendevano verso me, dita di fuoco che quando riuscivano a sfiorarmi mi lasciavano sulla pelle il loro marchio come un tatuaggio.

Eppure ero io quello che si era erto a vendicatore, ero io l’incarnazione della giustizia umana, un moderno conte di Montecristo evaso dalle pastoie della sua vita, tornato indietro per completare l’opera, punire chi c’era da punire e redimere chi c’era da redimere. Mi ero messo in caccia di tutti i pensieri molesti e li avevo schiacciati come tafani, i male accetti consigli spiaccicati sul muro, gli importuni discorsi infilzati allo spiedo. Dopo, le illusioni schiantate, i rimpianti libratisi in volo, i rimorsi mai digeriti hanno fatto meno male. Se avevo confuso l’essere con l’apparire, se avevo navigato tra lo spazio e il tempo, se mi ero perso come dadi rimescolati nei bussolotti, adesso avevo finalmente tra le mie mani il filo del destino...

E invece ero lì tra le colonne, in fuga da qualcosa, da qualcuno. La torma di scagnozzi spuntava dalla terra, dal pavimento di granito, dalle grate. Vedevo soltanto quelle loro braccia, le zampe, gli artigli. Vedevo il balenare delle fiamme, lo sentivo riverberare sulla mia pelle, sulle pareti, sulle scaffalature, sui confessionali, sulle arcate di pietra. Correvo, correvo a perdifiato. Doveva essere sterminato quel bosco di colonne, forse infinito, immerso in una luce fioca fin dove si poteva gettare lo sguardo, poi soltanto una cupa oscurità. Da una delle navate laterali uscì un frate rubizzo e opulento: “La diritta via!” urlò con voce squillante e intanto indicava una porticina dalla quale penetrava una luce ben più vivida. Decisi di fidarmi e la infilai... Subito si trasformò in una finestra, dalla quale entrava il sole dell’alba. Ero sveglio.

 

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FOTOGRAFIA © NATIONAL RAILWAY

sabato 11 maggio 2013

Confabulation

 

Lame di fuoco nel mattino, l'alba stagnante sulle colline ad oriente, l'aria fresca entra dal finestrino a ricordare la velocità, il serpente grigio dell'autostrada, i Tir sonnacchiosi...

Venezia con i suoi ori, maliarda ed equivoca come la definì Thomas Mann, San Marco. Ho un appuntamento con Ursula e sono in ritardo. Eccola: bionda, magra, attraente, elegante. Sono le venti ormai, andiamo a cena in un ristorante di Salizzada San Lio e poi via per le calli, ammaliati dal fascino grave di questa città, un po' sperduti un po' eccitati.
«Buona notte, Leonardo»
«Buona notte, Ursula»

La mattina entra dai vetri, il sole limpido dell'estate mi sveglia. Oggi ho da fotografare dei dipinti alla Scuola di San Rocco per un libro d'arte. È meglio che mi sbrighi, altrimenti il lavoro si accumula. Vaporetto, scie d'oro di motoscafi. San Tomà, Campo San Rocco. Presento l'autorizzazione poi regolo l'illuminazione. "Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia” e la “Crocifissione” del Tintoretto, "Cristo portacroce" di Tiziano : dodici pose ciascuno e il lavoro è finito.

Una luce davanti agli occhi, irresistibile. Mi costringe a guardare, mi strappa dalla sala. Le palpebre sbattono, gli occhi si aprono. Una voce cavernosa, con accento meridionale, dice: «Si sta riprendendo». Immagini sbiadite e sfuocate entrano nella mia mente come fotografie sovraesposte. Poi distinguo una donna, china su di me. Sussurra tra le lacrime «Roberto». Vicino a lei una ragazza, lo sguardo assorto, uomini in camice bianco... sono medici, lo capisco quando mi accorgo di avere un tubo infilato nel naso e un altro nel braccio. Sguardi ansiosi delle due donne su di me. È una camera d'ospedale. Sono in una camera d'ospedale. In un letto d'ospedale. Ma perché? Che cosa mi è successo? Stavo fotografando dipinti manieristi a San Rocco, poi non ricordo altro. Che sia caduto per le scale? Ma dove sono? In che ospedale? Provo a parlare, ma il tubo in gola me lo impedisce. Mi porgono una lavagnetta bianca e un pennarello. Scrivo: Dove sono? La donna risponde: «In ospedale». Questo l'avevo intuito. Scrivo ancora: Quale? È ancora la donna, sui cinquant'anni, bella nonostante la tensione: «Quello di Reggio Emilia».Reggio Emilia... Scrivo: Cosa ci faccio a Reggio Emilia? «Ma non ricordi, Roberto?» Mi ha chiamato Roberto... Scrivo: Ma io sono Leonardo. Sguardi attoniti, stupiti, interrogativi. Le due donne guardano il dottore. Non ci capisco più niente. Finalmente il medico mi fa togliere il tubo... «Ora espiri». Tossisco.

Ero a Venezia. Ora sono a Reggio Emilia. Fotografavo dipinti, ora sono in un letto d'ospedale. Mi chiamo Leonardo e qui tutti mi chiamano Roberto, anche l'infermiera. Il medico con la voce cavernosa sta parlando con le donne: «L'incidente, il coma, devono avere provocato un'amnesia forse solo temporale, conseguente al trauma. L'incidente. Ora riesco a parlare: «Quale incidente» chiedo con una voce arrochita che riconosco però subito come mia. «L'incidente... Il Tir, non ricordi, Roberto?»: a parlare è la ragazza, ha un viso familiare, noto che ha una mano fasciata e un vistoso cerotto dietro l'orecchio.

Il Tir... ora un ricordo come un flash  mi attraversa la mente. Il Tir bulgaro davanti a noi, le luci rosse improvvise degli stop, bagliori di fiamma, azzurri lividi, rossi cremisi a macchie, schianti di tuoni, sterza, sterza, gira il volante e quel nome che ho gridato, il nome della mia ragazza che dormiva sul sedile di fianco... Andavamo a Roma, ho gridato per svegliarla, ho gridato «Anna!»

«Anna!»
«Roberto!»
Ci abbracciamo. Temevo di perderla nello schianto. Si alza, mi mostra  un foglio di giornale, il Resto del Carlino di lunedì 12 agosto 1985. Il titolo dice: Auto contro Tir sulla A1: due feriti, uno grave. Leggo avidamente l'articoletto: "All'improvviso il Tir ha rallentato e ha frenato bruscamente per evitare una Volkswagen Golf che aveva tamponato leggermente un furgoncino. La Mercedes guidata da Roberto Guidotti, 28 anni, da Milano, ha urtato violentemente l'autotreno bulgaro. Il Guidotti è stato ricoverato all'ospedale cittadino ed è in coma farmacologico. La ragazza che viaggiava con lui, Anna Bessi, 24 anni, da Bergamo, è rimasta ferita solo lievemente e i medici l'hanno dichiarata guaribile in dieci giorni".

Riordino i pensieri, poi dico: «Dunque è stato così, mamma?»
«Sì, Roberto», e piangendo di gioia mi stringe in un abbraccio.
E Ursula? Solo un falso ricordo, una confabulation… Solo un sogno farmacologico...

 

Highway Lights 1

FOTOGRAFIA © MIKE MUSICK

sabato 4 maggio 2013

Milano

 

Vado per la strada con le mani in tasca guardando tra la gente e lascio liberi i pensieri. Una ragazza ancheggia mollemente sul pavé, occhi di ghiaccio e un amore dentro al cuore tormentato di nostalgia. Il sole è nascosto dietro qual­che nuvola, alle Poste gente in coda agli sportelli. Pesce fresco al cartoccio all'Osteria del Monastero. Una signora anziana porta al guinzaglio il suo cane, compagno fedele di giorni un po’ lunghi; dive e campioni appesi all'edicola.

Un furgone si ferma per farmi passare, ringrazio l'autista con un cenno della mano; il semaforo sembra impazzito e un vigile cerca di trovare il ritmo giusto ai colori mentre i tram sferragliano senza problemi sulle loro rotaie d'argento. La metropoli palpita e non si ferma un momento, rallenta solo di notte ma il suo cuore batte sempre. Ragazze passeggiano con i libri di scuola sotto il braccio e una storia d'amore chiusa dentro al pensiero. E chissà dove sarà il silenzio, laghi montani e pini dorati, spiagge deserte e il mormorio del mare...

Il metrò ingoia la gente e riparte veloce nella sua tana di cemento armato, corre nei corridoi artificiali come una talpa inseguita. Scendo in Centrale e mi lascio tentare dagli stucchi e dai mosaici dei pavimenti; le scale mobili portano su, sempre più su. Un po’ di nascosto arriva il mio treno, salgo e mi metto a sognare per cancellare la vista squallida della periferia. Poi la campagna ritorna davanti ai miei occhi, campi gialli di grano e boschi attraversati da ruscelli. A poco a poco l'aria si fa più pulita e lontano si trova il silenzio rotto soltanto dalla canzone del treno che lascia la città e culla i miei sogni di mare.

 

1984

 

milano piazza del duomo