sabato 24 novembre 2012

La bella primavera

 

La primavera tanto attesa era cominciata: nel sole tornavano a volare le rondini, le gemme si gonfiavano sui rami nudi, le viole impreziosivano i prati.

Andrea guardò dalla finestra la via assolata scostando le tendine, la strada palpitava di vita: gli autobus arancioni si incrociavano alle fermate, le casalinghe tornavano con la sporta della spesa, le automobili alimentavano il fiume del traffico.

L’orologio segnava le undici e un quarto. Andrea quel giorno era solo negli uffici del Presidio, non aveva voglia di raggiungere la mensa per trovare del riso scotto e una cotoletta di pollo impanata.  Così decise di uscire a prendere da mangiare. Attraversò la strada larga e moderna ed entrò da Magnabosco. Il negozio era ad un piano inferiore alla strada: per accedervi bisognava scendere una corta scala rivestita di porfido. Oltre l’ingresso si innalzavano gli scaffali: sul primo, in bell’ordine, i liquori e in particolare le grappe aromatizzate con la pera, i mirtilli, le prugne e le albicocche, che attiravano l’attenzione dei clienti. Sulla destra c’era il banco frigorifero con i latticini e i surgelati, sullo scaffale in centro c’erano i prodotti da forno.

Andrea frequentava il negozio di Magnabosco più per il banco dei salumi e dei formaggi che per il fatto che fosse così vicino. Si poneva davanti alla bassa vetrina e osservava attentamente i prodotti esposti prima di scegliere ciò che solleticava maggiormente il suo appetito. C’era la mortadella di Bologna, con il pepe e i pistacchi, simile a una rosea luna butterata di crateri bianchi; c’era lo speck, esteriormente simile ad un tronco, all’interno rosso come un rubino, e poi salame ungherese, salame di Varzi, prosciutto di Praga, San Daniele, coppa, persino la bresaola, quella salsiccia piccante che i tedeschi chiamano “Salami” e gli immancabili kaminwurz tirolesi. E poi i formaggi, forme intere, spicchi, quarti: fontina, emmenthal, sbrinz, taleggi, Asiago, camembert.

«Cosa prende oggi?» chiese il signor Magnabosco, un omone di oltre 150 chili sempre rubicondo e allegro che il grembiule blu sembrava contenere a fatica, tutto l’opposto di sua moglie, una donnina timida ed esile.

Andrea domandò della stagionatura dello speck e si mostrò soddisfatto: Magnabosco gliene affettò un etto e lo depose in un pane nero che aveva precedentemente tagliato a metà con un lungo coltello affilato. Andrea si avvicinò al banco frigorifero e prese un vasetto di yogurt ai frutti di bosco e una birra Weihenstephan. Prese l’incarto che l’uomo gli porgeva e pagò.

Era quasi mezzogiorno. Andrea aspettò che scoccassero le dodici, poi chiuse l’ufficio dall’interno e si sedette con il sacchetto di Magnabosco. Scartò il panino, liberandolo dalla leggera carta rosa che lo racchiudeva, accese la radio e cominciò a mangiare guardando dalla finestra la vita nella strada: alcune ragazze attendevano l’autobus, il filare di pioppi lucidi per le gemme, il muro giallo e scolorito dell’ippodromo. La primavera gli aveva sempre messo allegria: sentiva l’euforia della rinascita. E quest’anno ancora di più: tra una settimana si sarebbe congedato.

 

FOTOGRAFIA © CIRCOLO UNIFICATO ESERCITO MERANO

sabato 17 novembre 2012

L’urso Knut

 

Doppo aviri indagato sulla morte del purpo Paul, il celebre indovino del Mondiale, Montalbano aviva oramà una fama internazionale di sbirro dei casi strambi assà. Soprattutto in Germania.

Aieri se ne stava assittato nel sò ufficio a farsi una penni... a ragiunari sulle carte che avrebbi dovuto firmari quanno gli parve che fosse addumata una bumma. Satò sulla seggia e vidi Catarella entrari praticamente appuiato all’anta della porta che ancora sbatacchiava. “Ah dottori dottori, ci sta al tilefono il signor Bestiabella che la cerca per un urso”.  Bestiabella? E chi era mai? “Passamelo, Catarella, grazie”. “Subito, dottori”.

Era il portavoce del ministro degli Esteri tedesco, Guido Westervelle, un figlio di immigrati siciliani, che gli spiegò più in dialetto che in italiano, che era morto l’urso Knut, il peluche bianco dello zoo di Berlino idolatrato dai bambini e po’ messo in disparte quann’era crisciuto. “Sospettiamo sia morto di malinconia” gli disse Hans Mannino – questo era il nome del portavoce. “Prendo il primo volo per Berlino” disse Montalbano, che sapiva che accusì avrebbi avuto di sicuro una sciarratina con Livia, la sò zita che doviva arrivari il giorno appresso da Genova.

Hans Mannino raccattò Montalbano all’aeroporto di Tegel e lo condusse allo Zoo su una veloce Mercedes nera. Il commissario si vrigognò non poco al pensiero della Tipo scassata che guidava a Vigàta. Knut era macari là, nella scena del crimine: galleggiava nella piscina del recinto. Era enurmi pensò Montalbano, che rammentava le immagini del peluche viste anni narré al telegiornali. Si fece dari un raffio dall’addetto e tirò a riva il corpaccione del povero urso. Stava tastando la pelliccia con la mano dritta quanno squillò il cellulari. Bih, chi camurria! Era Livia. “Salvo, sono all’aeroporto”. Livia! Se n’era dimenticato!

“Livia, mi dispiace, è che sono impegnato in un’indagine…”

“…”

“Facciamo accusì, ti manno Fazio, po’ appena posso ti raggiungo a Marinella”

“Potevi anche avvertirmi”

“Lo so, scusami, è che ho tante cose per la testa”

“Sicuramente avrai anche la tua amica Ingrid”

“Ma che dici, Livia? Sto travagghiando a un caso internazionali. Appena posso, arrivo. Ah, non prioccuparti: Adelina non c’è, è andata a trovare sò soro, starà via qualichi jorno”.

Montalbano astutò il tilefono, scosse la capa, avvisò a Fazio di correri all'aeroporto di Palermo e si rimise a taliari l’urso. Vide un minuscolo pertuso rosso  vicino all’occhio mancino. Esecuzione mafiosa… No, in Germania… Taliò intorno, poi trovò un filamento verde: un pezzo di tessuto loden. “Vinditta” sentenziò allora Montalbano. “Ve l’arricordati la storia dell’urso Bruno?  Il 26 giugno del 2006 venne ammazzato in Baviera. era un urso italiano che dall’Adamello era salito in Germania in cerca di mangiari, come molti altri italiani prima di lui”

“Certo, mi ricordo” disse Mannino, “è stato imbalsamato, lo si può vedere nel castello di Nymphenburg”

“In Trentino se la sono legata al dito: avivano prumisso vinditta. Ora l’hanno avuta: lo vede quel pertuso minuscolo vicino all’occhio mancino? Sciaura di mandurle amare, signo che è stato iniettato cianuro”.

“Faremo le analisi, commissario. Grazie mille.”

“Prego. Fanno 100.000 euro, e si sbrighi, ché devo andare all’aeroporto. La mia zita mi aspetta e quanno aspetta diventa nirbusa”.

 

20 marzo 2011

 

article-1059851-02C4971600000578-696_468x355

sabato 10 novembre 2012

La ragazza dei suoi sogni

 

- Cos’è?
- Pinot Grigio.
- Non è che ci hai messo dentro del Roipnol?
- No, per chi mi hai preso?
- Scusa, è che ci conosciamo da poco.
- Per me hai visto troppi episodi di CSI, e hai letto troppo attentamente quei libri delle 50 sfumature.
- No, scusami ancora, è che sono tempi difficili e non sai più di chi fidarti. Ho già preso tante di quelle fregature…

Sarah beve dal calice che contiene liquido ramato e subito la vista le si annebbia, in pochissimi istanti perde i sensi. C’era del Roipnol… L’enigmatico Stefano le toglie il bicchiere prima che cada e si frantumi sul pavimento di marmo italiano. Ma non ha alcuna intenzione di violentarla, né di farle del male.
Si siede e la guarda così, incosciente e indifesa, in totale balia di quello che lui potrebbe farle.

“È così bella” mormora, “Sei così bella”. Poi avvicina una macchina su un carrello a rotelle. A prima vista somiglia a una di quelle che negli ospedali usano per la TAC portatile. Ma non lo è. Prende degli elettrodi dal marchingegno e li attacca alla fronte e sulle tempie di Sarah. È una macchina che legge i ricordi e li analizza cercando un’immagine particolare: è solo quella che interessa a Stefano. Una fotografia di lui più giovane, ragazzo di sedici anni, il giorno in cui incontrò una ragazza senza nome e se ne innamorò quando lei lo guardò e lo baciò – è quell’immagine che cerca ormai da mesi in donne sui trent’anni che assomigliano a quella misteriosa ragazza apparsa come una meteora in un bar di Torino.

La macchina elabora dati per quasi un’ora – sembra impossibile che i ricordi di tutta una vita si condensino in così poco tempo, ma è la memoria stessa ad effettuare una selezione – e infine emette un bip. Stefano, che sta osservando ormai da minuti Sarah che dorme, fantasticando una vita futura con la ragazza dei suoi sogni, corre allo schermo: NO MATCH… Batte con stizza una mano sul pomello della macchina, poi stacca gli elettrodi dalla testa di Sarah e la prende in braccio con delicatezza. La porta nella camera da letto e la adagia sul materasso, rivestendola con una coperta. Quando si sveglierà le racconterà che ha avuto uno svenimento… Come le altre quattro. E poi uscirà a cercare ancora nelle strade di Torino quel volto mai dimenticato, invecchiandolo mentalmente di una quindicina d’anni.

 

JACK VETTRIANO, “MYSTERY MEN II”

sabato 3 novembre 2012

Macchina del tempo

 

Eccolo che scorre come un fiume disperato, un ammasso di straccioni che portano uniformi sbrindellate e marciano sulle piste di sabbia del deserto. Puoi riconoscere ancora i galloni, le insegne, i gradi del comando nei vecchi pastrani tenuti per la notte, nei lembi di camicie usate a mo’ di turbante, nei laceri stracci che ora rivestono piedi incrostati e coperti di vesciche. Un esercito allo sbando che marcia disordinato e coperto di polvere – sono lontani i tempi in cui il passo marziale cadenzava le marce ritmando i passi come una sinfonia. Sconfina e invade nuovi territori, preda affamato, saccheggia quello che può avanzando verso un’ignota meta, verso una liberazione dall’accerchiamento di questo invisibile nemico che compare a tratti nei discorsi dei soldati ma che nessuno ha mai visto. Lo avete riconosciuto il simbolo che campeggia sul vessillo logoro che un alfiere cencioso porta in testa alla compagnia? Una clessidra. Perché quell’esercito allo sbando è il tempo.

Scorre come un fiume, il tempo: una ragazza mi disse un giorno che l’amore è un sentire che viene dal profondo e comporta un mutamento, lo devi sentire come il violinista sente e domina una corda che vibra. Io non ho saputo padroneggiarla quella corda, forgiarla sotto le mie dita, sotto l’archetto per trarne una nota che suonasse armoniosa. E davvero come un fiume in piena è fuggito il tempo, è straripato e non ho mai saputo se quella ragazza provasse vero amore o solo un grado di intensità dell’amicizia.

Fedele amico mi è il rimpianto adesso, quando la sera stanco chiudo gli occhi e numero le occasioni perdute – una sorta di Guido Gozzano davanti al caminetto con le sue rose non colte e le fisime di poeta – per sognare ancora quella ragazza sensata, per figurarmi le parole che le direi se qualche macchina potesse miracolosamente cancellare il trascorrere del tempo, esattamente come una spugna porta via la polvere e lascia il vetro limpido e pulito. Ma il tempo passa, è una nave che non si ferma, non hai mai voltato indietro la sua chiglia solida.

 

hourglass

FOTOGRAFIA © JIGSAWZ