sabato 28 novembre 2015

La ragazza della porta accanto

 

Dai vetri la ragazza della porta accanto guarda l’inverno cadere: l’alba è una rasoiata che recide il collo dei sogni come la falce che passa sui papaveri nel prato. Il suo letto ha lenzuola a fiorellini e un posto freddo dalla parte destra. Siede con le mani sotto le cosce, sente il calore tra pelle e cotone, lo serba come un ricordo nel cuore senza neppure rendersene conto. Socchiude gli occhi e si abbandona ancora: fuggire nei sogni le sembra sia il solo modo che ha per sopravvivere.

E la ragazza della porta accanto con le sue mani di velluto stringe il suo vuoto, la sua desolazione, sognando palme verticali e mari azzurri dove potrebbe nuotare con il costume giallo comperato nell’ultima vacanza in Portogallo. Amava arrotolarlo sulle gambe quando la spiaggia era ancora deserta, porgere al sole la sua nudità come un’offerta ad un antico dio.

Il suo corpo è un nido di miele, lo sfiora ogni mattina con le dita pensando al cavaliere dell’Algarve, alle sue mani forti che le scesero sul seno quando la issò sul cavallo. Ma si fa tardi e deve correre al lavoro: si veste in fretta, si infila nel cappotto, nel cappellino, nei guanti ed esce pasticciando con le chiavi.

1998

 

girlinbed

HOBBIE, “PINK GIRL IN BED”

sabato 21 novembre 2015

Per i suoi occhi

 

Io e lei eravamo buoni amici, forse di più: tra di noi c’era quella festa, quel bacio in giardino. Forse pretendevo da lei che se ne ricordasse. Un mese dopo la rividi: era alla stazione, aspettava qualcuno in auto. Appena l’ho vista, ho capito: “Non è più la stessa”. Un mese l’aveva cambiata, ma cos’era successo?

Le apparenze non ingannavano, me ne resi conto mentre mi guardava e arrossiva, lo intuii anche dal suo comportamento. E poi dovette ammettere la sua presenza lì: “Aspetto il mio ragazzo” spiegò e lo disse come se tra noi non ci fosse mai stato niente, neanche quel bacio, neanche le volte che eravamo usciti insieme.

“Ciao, chiudi la portiera, per favore” mi disse e mi tremarono le gambe e sentii un vuoto risucchiarmi lo stomaco. Risalii sulla mia auto e ripartii velocemente: volevo scordarla, volevo pensarci sopra, volevo andare via, lontano da lì, lontano da tutto – non so neanch’io cosa volevo – e intanto vagavo per la campagna, correvo nel vento e nel sole. Ferito dalla sua spada di bugie, dai suoi occhi che avevo creduto sinceri.

Poi un passaggio a livello abbassato, un’occasione per pensare con calma: cercavo di ritrovarmi, guardavo nello specchietto retrovisore il cielo metà bianco e metà azzurro, i prati secchi dell’inverno, gli alberi spogli. Un attimo, e poi ancora lei, forse volevo illudermi che non l’avrei rimpianta. Sapevo già che non ci sarei riuscito: lei non era una parentesi, mi aveva dato la sua amicizia, il suo amore. E ora cosa dovevo fare? Legarmi a un ricordo? E dopo?

Il treno sfrecciò via borbottando e ripartii a tutto gas. Rivedevo il nostro incontro: me l’aveva presentata un amico ma già la conoscevo di vista. Rivedevo quella festa come un film, quante volte ci avevo pensato prima di quel giorno: la birra, ballare e quel bacio sul dondolo in mezzo ai fiori.

Poi la burrasca, quel ciao che sembrava le avessi estorto, quel ciao che le avevo regalato, che forse avevo sprecato. Non poteva andare così, non doveva finire così. Fermai l’auto: avevo bisogno di pensare con calma, dovevo cercare di capire.

Decisi di smetterla di vagare senza meta e tornai a casa, a rimpiangere i suoi occhi.

 

13 settembre 1984

 

Top inspired

IMMAGINE © TOP INSPIRED

sabato 14 novembre 2015

L’amore

 

L'amore non è una spina che si può togliere, un tumore che scoppia; è un dolore ribelle e insistente che uccide dentro.

Il voler bene non si compra, non si vende, non si impone con il coltello alla gola, né si può evitare: il voler bene succede.

Voler bene è facile, succede quando uno meno se lo aspetta, uno sguardo, una parola, un gesto e il fuoco si propaga bruciando petto e bocca; il difficile è dimenticare.

Sono tre frasi che mi appuntai quando lessi – una quindicina d’anni fa – Teresa Batista stanca di guerra, romanzo di Jorge Amado. Erano su un foglietto che è uscito dall’edizione tascabile mentre facevo ordine tra le mie cataste di libri. Rileggendoli adesso, mi sono trovato a riflettere su alcune cose – pensieri probabilmente già fatti allora, se ho sottolineato proprio quelle frasi:

  1. L’amore è ineluttabile, non ci si può opporre, è una forza che travolge e a cui la ragione non riesce ad opporre che una resistenza limitata

  2. È altresì cieco e casuale: la freccia di Eros spesso colpisce a casaccio oppure, siccome l’amorino è guercio, centra solo uno dei suoi bersagli

  3. L’amore comunque non si può imporre: deve sgorgare spontaneo

  4. Anche se finito, comunque l’amore sopravvive e la sua memoria sa essere ancora una dolorosa spina.

 

Maggio 2013

Cupid-from-Galatea-by-Rap-001_thumb1

sabato 7 novembre 2015

Sinfonia in grigio veneziano

 

Era un giorno di novembre, grigio. Una pioggia sottile e fredda cadeva da un cielo grigio sui canali, si rifletteva nell’acqua stagnante della marea, dipingeva una Venezia grigia ad acquerello dove anche le cupole e i campanili si stemperavano - uniche macchie di colore, ma sbiadite anch’esse, gli stendardi delle mostre e le righe azzurre dei pali d’attracco.

Avevo visitato la Scuola di San Rocco prima di risalire per il dedalo di calli e rii fino a Piazza San Marco a gettare altri sospiri oltre quelli del ponte. Le pietre del piazzale erano lucide, come se qualcuno vi avesse rovesciato un’autobotte di vernice impregnante. C’erano pochi turisti a quell’ora, la gente si muoveva imbacuccata negli impermeabili sotto gli ombrelli. I colombi imperterriti becchettavano come se niente fosse, volavano via a frotte nel grigiore dove l’isola di San Giorgio svaniva in una nuvola di pioggia.

Ero grigio anch’io, grigio il giaccone di Gore-Tex, grigio il cappellino di lana, grigio soprattutto dentro. Era tantissimo tempo fa, non mi ero ancora affacciato a questa consapevolezza del vivere che adesso, più maturo, mi fa accettare le cose. Forse ero soltanto giovane, quella era la mia malattia che mi faceva atteggiare ad un Werther di seconda mano. Era una malinconia cattiva quella che mi pervadeva, una tristezza che avrebbe anche potuto divorarmi. Quel giorno lasciai Venezia in treno, guardando la laguna dissolversi grigia nella luce che svaniva in un tramonto senza sfumature arancioni. Sarei tornato l’anno dopo, a luglio, con un altro sentimento a gonfiarmi il cuore nella luce sfolgorante del sole, con una maglietta rossa sui soliti blue-jeans. Cos’era cambiato? Che cosa mi aveva cambiato? Nulla: avevo conosciuto l’amore...

 

Venezia

FOTOGRAFIA © TUMBLR