sabato 27 dicembre 2014

Un riflesso di luce

 

La prima volta che se ne accorse stava passeggiando per i viali di un cimitero di campagna: tra il ghiaietto, sotto l’ombra degli alti cipressi secolari, gli parve di vedere balenare qualcosa, come se un soffio di vento avesse mosso l’acqua di una minuscola pozzanghera, un riflesso di luce in uno specchio scuro. Aveva guardato bene, ma non c’era nulla, né acqua né specchio né un frammento di vetro. Liquidò la cosa come un’inspiegabile sciocchezza, pensò magari a un gioco di riflessi nel vetro dei suoi occhiali. Poi uscì e, passeggiando, si scordò completamente dell’episodio.

Qualche tempo dopo però gli ritornò alla mente, un giorno che quello stesso fenomeno gli si ripresentò, nel cielo questa volta. Sembrò che dietro l’azzurro dove alcune piccole nuvole pascolavano come un gregge, vi fosse qualcosa di diverso, un indefinibile grigio, un piccolissimo squarcio di cielo temporalesco. Così per pochi secondi, poi si tolse gli occhiali, si sfregò gli occhi e il cielo era lo stesso di prima, con le piccole nuvole disperse e la sera che già si approssimava arrossandone un poco gli orli.

Erano bazzecole, piccoli segnali che non riusciva a cogliere pienamente, che non sapeva comprendere, lacune che la sua conoscenza della fisica non poteva colmare. Accaddero altri di questi bizzarri episodi: il volto su una moneta lasciò trasparire per qualche istante un’altra immagine, uno scalino di granito parve avere una sua parte in marmo levigato, un oleandro sfarfallò mischiando la sua immagine a quella di un inesistente larice, una camicia azzurra gli diventò beige per meno di un secondo.

La cosa andò avanti così per un paio d’anni, poi di colpo capì, quando il giornale mutò sotto i suoi occhi abbastanza a lungo perché potesse leggerne ampi stralci. Era un altro mondo quello in cui il papa si chiamava Callisto VI e l’Italia era uno dei 48 degli Stati Uniti d’Europa e faceva affari con la Repubblica indipendente della Louisiana e con il Regno Unito di Scandinavia. Il nostro universo si stava sfaldando lentamente, come una pelle usurata di serpente pronta per la muta e ne usciva il sottostante universo parallelo...

Fu a quel punto che arrivò l’infermiera con il carrello delle medicine.

 

Fringe

IMMAGINE © WARNER BROS

sabato 20 dicembre 2014

Angelo

 

Angelo ha quasi novant’anni. I capelli candidi e soffici sembrano quasi piume in sintonia con il suo nome. Ha un sorriso che disarma e gli acciacchi stemperati nell’ironia. Siamo rimasti un poco a parlare su una panchina del centro commerciale dove spesso va a passare il tempo – prende un caffè dal distributore automatico e si siede, intanto che lo sorbisce lentamente guarda passare i carrelli e la folla carica di borse della spesa.

Ci eravamo conosciuti anni fa ad una gita: gli piaceva raccontare dei risvolti storici dei monumenti che ammiravamo, ha sempre avuto questa dote di affabulatore, la capacità di non annoiare, di sapere dove fermarsi. Adesso che ormai siamo vicini a Natale mi racconta dei regali che chiedono i suoi bisnipoti, tutti nomi difficili da pronunciare, tecnologici, americanizzati. Così finisce con il narrare di quando lui era ragazzo – i tempi di Mussolini, naturalmente, quando non potevi fiatare, non potevi andare in giro a criticare il Duce perché aveva l’amante e chiedeva di santificare il matrimonio. Sono racconti che già conosco, perché li sentivo dai miei nonni – le corti di paese in fondo si assomigliano un po’ tutte, con i loro contratti di mezzadria, con le stalle, le vacche, l’asino. Ecco, mi dice, allora ci si aiutava tra vicini, non come adesso che neanche ci si conosce più, ci si scambiava favori, cibo.

E arriva finalmente al Natale, deplora questa moda del Santa Claus bianco rosso e panzone americano. Da noi venivano i Magi e – pensa un po’ come eravamo ingenui, la notte di Natale lasciavamo fuori, sul davanzale della finestra, una ciotola d’acqua per i cammelli. E la mattina trovavamo nella calza mandarini, noci, nocciole, carrube… Ah, che tempi… Ci contentavamo di poco. Ed erano tempi più belli di adesso…

Si è fatto tardi per me, ho un appuntamento importante che mi attende in un ufficio del centro: devo salutare Angelo, a malincuore. Stringo la sua mano nodosa, e vado via per i corridoi del centro commerciale pensando alle carrube… Quest’anno, quasi quasi…

 

Natale

FOTOGRAFIA © FORWALLPAPER

sabato 13 dicembre 2014

Aspettando

 

(martedì)

E non ha chiamato neppure oggi. Mi sono alzato e la speranza si è levata con il sole, nuova - come se il lunedì non fosse trascorso invano. Con il passare delle ore però si è fatta come un’eco lontana, come il rumore del mare nelle sere d’estate quando siedi al tavolino di un caffè a bere birra o a mangiare una coppa di gelato, che so, un “Eis-Café” o una “Nafta”, o ancora come la musica di un’orchestrina che arriva soffusa da un giardino o un’opera lirica alla radio in certe mattine piene di sole.

Così mi ha infine preso il nervosismo, sono stato teso e scattavo per un non­nulla, finché non sono caduto in una sorta di avvilimento, che perlomeno è riuscito a calmarmi. Spero di non arrivare al panico...

Poi c’è stato anche il temporale, con chicchi di grandine grossi come biglie di vetro e vento che mi ha portato un bruscolino nell’occhio. C’è voluta più di mezz’ora perché riuscissi a toglierlo, e in quel tempo non ho certo pensato a lei che non mi chiama. Forse per il sollievo mi sono sdraiato sul letto ad ascoltare un album degli Eagles, “Take it easy”. E ho ripensato a lei.

Poco fa mi sono messo nel posto in cui mi ha detto quella famosa frase “Ti faccio sapere qualcosa”, come per esorcizzare i miei timori. Allora era quasi mezzo­giorno e c’era il sole a picco, adesso è sera, c’è la tramontana lasciata dal temporale e nuvole bianche e grigie chiazzano il cielo. Non è la stessa cosa.

(mercoledì)

“Non dari spes sine metu nec metum sine spe” scrisse Baruch Spinoza nella sua “Ethica”. È vero. Posso testimoniarlo in questi giorni di speranza venata d’angoscia: sogno che avvenga quello che desidero e al contempo temo che non avvenga, per qualsiasi motivo.

Ho provato a enumerare le varie ragioni per cui lei non mi ha ancora chiamato, dalla mia errata interpretazione delle sue parole a problemi che affliggano lei, a eventi che le abbiano impedito di svolgere la sua missione. Ciò mi ha fatto stare meglio: la mia aspettativa ha ripreso un po’ di fiducia. Sarà anche lo splendido sole che sfavilla, sole d’estate piena in un cielo azzurro e terso, quello che lasciano i temporali quando se ne vanno.

(giovedì)

La speranza si va lentamente trasformando in illusione, come per una di quelle magie mitologiche: Bauci trasformata in statua di sale o Niobe impietrita. Il prossimo passo è lo sconforto, ma mi auguro che non arrivi mai.

L’approssimarsi di un altro lunedì mi ridà pero carica, quasi avessi potuto comprendere male le sue parole, quasi che in effetti lei intendesse non il lunedì che è alle spalle, ma il prossimo, quello venturo nella quindicina.

Così trascorro giorni quasi uguali, nell’attesa. Ascolto radio e sono tornato al mio vecchio pallino: i dischi degli anni Settanta di Lucio Battisti.

(venerdì)

Con la logica. Con la logica - ho pensato - posso venirne fuori. Ed infatti la mia speranza ha recuperato vigore: lei non mi ha telefonato (“Ti faccio sapere qualcosa”) per dirmi di sì, d’accordo, ma neppure ha telefonato per dirmi di no, cosa che avrebbe sicuramente messo K.O. oltre alle speranze anche il mio morale.

Con la logica dunque ancora mi salvo, come naufrago aggrappato a un salva­gente, e mi sono preparato una valanga di motivi per cui la sua telefonata ha tardato e tarderà ancora.

(1999)

 

Olson

ERIK OLSON, “CHRIS”

sabato 6 dicembre 2014

Lunedì

 

Non so che dire. Questa attesa è frustrante. Il telefono non ha ancora squillato una volta quest’oggi. Ho addirittura temuto che si sia rotto, poi ho controllato: funziona. Non trovo pace: comincio a fare qualcosa, poi smetto, cammino su e giù e non concludo.

Solo sull’amaca, una mezz’oretta dopo il pranzo e il telegiornale, sono riuscito a riordinare i miei pensieri, a valutare la situazione senza comunque venirne a capo. Però mi sentivo bene, la luce del giorno disegnava una tendina arancio sugli occhi chiusi, quasi mi appisolavo...

“Lunedì” ha detto lei, un frammento di discorso cui forse ho assegnato un’eccessiva importanza. “Lunedì” ha detto lei e mentre se ne andava ha aggiunto “Ti faccio sapere qualcosa”, quattro parole che mi hanno reso euforico per tutta la settimana, come una scarica di adrenalina, quella dei centometristi alla partenza della finale olimpica o degli astronauti che posero il piede sulla luna.

Lunedì, le sedici e tre minuti. Il telefono non ha suonato ancora una volta quest’oggi. Neppure un amico che avesse bisogno di qualcosa o i coetanei per una rimpatriata o venditori d’olio, di vino o di enciclopedie. Neppure uno che ha sbagliato numero e chiede di Marta o del capofficina.

Solo il campanello, stamattina: era il postino che mi consegnava un pacco, il cappellino che ho vinto al concorso della birra Bud, color kaki, con visiera carminio e le scritte Bud in bianco su rosso e King of Beers in blu, e una formica con un bicchiere in mano.

Ma lei, lei non chiama. Adesso sarà certamente al lavoro. Dovrà restarci ancora un paio d’ore. Poi, forse chiamerà. “Lunedì”. È lunedì fino alla mezzanotte, anche se penso che non mi telefonerebbe così tardi. Magari verso le otto, o le nove. Magari no.

“Lunedì”. Però non aveva associato lunedì a “Ti faccio sapere qualcosa”, quando se n’è andata. “Lunedì” l’aveva detto prima, parlando dell’argomento che mi sta a cuore. Potrebbe anche darsi che telefonerà domani o mercoledì, o un altro giorno...

Le sedici e undici. Il tempo oggi fatica a passare. Ho letto un po’ tre libri di­versi, un brano da ciascuno: “L’ultima amante di Hachiko” di Banana Yoshimoto, “Op-Center Parallelo Russia” di Tom Clancy, tre capitoli della “Sonata a Kreutzer” di Lev Tolstoj. Come ho fatto a cominciare tre libri in contemporanea? E sulla scrivania c’è “Lo strangolatore” di Manuel Vázquez Montalbán, che ho comprato ieri. Spero non mi venga la tentazione di iniziare a leggere anche quello senza aver finito gli altri.

Avrei anche bisogno di riordinare la biblioteca, di collocare nelle scatole libri che non mi interessano più così da fare spazio, ma oggi fa troppo caldo: trentatré gradi e un’umidità del sessanta per cento. Lascerò i libri accatastati uno sull’altro ancora per un po’ e so già che finirò col non trovare poi il tempo di farlo.

“Lunedì”. C’era un tempo che odiavo il lunedì, quella sua ineluttabile imposizione di ricominciare, quell’abulia che ne permeava gran parte della giornata.

Oggi lo benedirei questo lunedì se mi portasse l’esito sperato, santificherei in qual­che modo tutti i lunedì e me ne infischierei degli scioperi dei treni o dei mezzi pubblici, della neve, della pioggia, del sole a picco, della nebbia. Se lei telefonasse, se lei dicesse sì questo lunedì.

Più tardi

Ho appurato che il telefono funziona: ho fatto il 161 e una voce di donna sul sottofondo della “Danza delle Ore” di Ponchielli mi ha comunicato che erano le diciassette e cinquantatré e trentacinque secondi. Poi ho chiamato il numero di casa dal cellulare ed ha squillato.

Nulla. Non mi ha chiamato e sono le sette e mezza di lunedì. “Lunedì”. Così ho letto qualche pagina della Yoshimoto, dove la protagonista Mao incontra un italiano, che poi è il traduttore del libro, ma che nel romanzo è un critico d’arte-dongiovanni-violentatore, e poi ho ascoltato un po’ di radio. Canzoni datate: “Vecchio frac” di Modugno, “Cirano” di Guccini, “Margherita” di Cocciante, “Generale” di De Gregori, qualche pubblicità e un breve notiziario.

Ma il telefono non ha suonato. Il telefono non suona. L’euforia dei giorni scorsi è da un bel po’ ch’è passata, ora semmai propendo per la delusione, tenendo comunque sempre viva la speranza, come la fiamma sacra delle Vestali.

(1999)

 

Hopper

EDWARD HOPPER, “ROOM IN NEW YORK”, PART.