sabato 29 ottobre 2016

Lo scudo

 

Qualcuno dei Sai si vanta del mio scudo, che presso un cespuglio
- arma gloriosa - lasciai non volendo.
Ma salvai la mia vita. Quello scudo, che importa?
Vada in malora. Un altro ne acquisterò, non meno bello.
ARCHILOCO

Lo scudo ho gettato nell’onde di un fiume che bello scorreva.
ANACREONTE

Lo scudo era uno degli armamenti fondamentali del soldato nei tempi antichi: faceva da baluardo e da difesa e veniva conservato con cura. Il militare greco era un cittadino chiamato al momento della guerra: lo si denominava oplita, da όπλον, lo scudo, appunto. Solo gli Spartani avevano un esercito a tempo pieno: delegavano agli schiavi iloti e agli artigiani del circondario, i "perieci", ogni altra attività. Il loro valoroso comportamento alle Termopili, dove con soli trecento uomini fermarono l’imponente esercito persiano di Serse prima di esserne travolti per un tradimento, si spiega con questa mentalità guerriera inculcata già ai bambini.

Lo scudo dunque era d’importanza vitale perché, essendo il soldato inserito in una falange, con esso difendeva non solo se stesso, ma anche il compagno alla sua destra. Gettare lo scudo, come affermano di avere fatto il poeta-soldato Archiloco e il gaudente Anacreonte, veniva considerato dagli eroi omerici e soprattutto dagli Spartani, la più grave infamia che un combattente potesse commettere: non era più un’arma, ma diventava un simbolo, era l’appartenenza a una società.

Archiloco lo priva di questa importanza: ne vede solo l’utilità immediata, l’ingombro nella ritirata, lo abbandona per fuggire e salvarsi. Se gliene servirà un altro, se lo comprerà. Non è spartano: Sparta non ha poeti, solo soldati. È un decaduto nobile di Paro e combatte per vivere: è un mercenario. Questo gesto che sembra antieroico è in realtà solo un atto di sopravvivenza, tanto che Archiloco morirà nella difesa di Taso.

Anacreonte invece, si mostra più spregiudicato: se Archiloco lo ha deposto in un cespuglio per poterlo magari ritrovare, lui invece lo lascia in balia della corrente.  Quello che conta nella sua vita sono il vino e l’amore, le chiacchiere davanti a una tazza di quello buono: “Recaci acqua, ragazzo; recaci vino; recaci corone di fiori, ma recali subito… con Eros devo fare pugilato”. Anche Anacreonte non era spartano, ma veniva da Teo, nella Ionia, ed era esule a Samo, ad Atene e in Tessaglia, dovunque vi fosse una corte regale. Non gliene può fregare di meno di quell’oggetto.

2008

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sabato 22 ottobre 2016

Rispetto e dignità

 

“Da una scala di legno annerito pende una bandiera francese: è l’unica, e la stacco con cura, la ripiego e la metto nel tascone della giubba. (La ritroverò a casa mia questa bandiera, tra vecchie carte, lettere e oggetti strani agli altri. Un giorno i ragazzi giocavano, e la diedi a loro perché la riportassero a sventolare sopra una collina di prati fioriti)”.

Cos’è il rispetto? Cos’è la considerazione che anche gli “altri” hanno le loro ragioni? Mario Rigoni Stern ne aveva gerle nella sua vita di montanaro. Certo, chi va in montagna sa quanto dura è la vita lassù: conosce il valore delle cose, sa che un aiuto dato non sarà mai sprecato e che al momento buono sarà ripagato. Sa che, se anche non sarà ripagato, questo non è importante.

Rigoni Stern nel 1971 scrive Quota Albania e ricorda quell’episodio della bandiera francese raccolta dalle parti di Séez. L’Italia aveva invaso la Francia pochi giorni prima e già era stato stipulato l’armistizio. Ma in quei giorni al caporale Rigoni Stern capitò di entrare affamato in una casa di legno abbandonata dagli abitanti: mangiò del formaggio e del pane e lasciò un biglietto di scuse in un cassetto della credenza. Anche la sua ad Asiago era una casa di legno, una casa di montagna, ricostruita dal nonno, profugo anch’egli con tutta la sua famiglia, proprio come quei francesi, nel 1916.

Rispetto, pietà, umanità: non per questo Rigoni Stern fu un soldato peggiore, anzi riuscì a riportare a casa dalla Russia gran parte della sua squadra. Nel Sergente nella neve non poteva perciò non notare la differenza con i soldati tedeschi e rumeni, e ancor più con le SS. La cattiveria, il disprezzo, la crudeltà non erano nei cuori degli italiani, che i russi aiutavano, quando potevano, e lo testimonia lo stesso scrittore di Asiago: gli diedero patate e pane, lo sfamarono in un’isba dove c’erano anche soldati russi.

Rispetto, allora, condivisione e dignità: ancora in Quota Albania racconta del trasferimento di prigionieri greci: “Quel mattino mi trovavo anch’io da quelle parti, e con altri feci da scorta a quaranta prigionieri che accompagnammo giù al comando. Anche loro erano magri, malridotti nelle divise, carichi di pidocchi e con le barbe lunghe e ispide. Ma dentro i loro occhi scuri e profondi e nel loro silenzio, avevano dignità”.

2008

 

Bandiera

FOTOGRAFIA © FIONA TWIG

sabato 15 ottobre 2016

La Gioconda nuda

 

Dopo la dissacrazione dei baffi dipinti da Duchamp, dopo le rivisitazioni di Warhol e di Botero, dopo il furto ad opera di Vincenzo Perugia nel 1911, dopo l’assurda e vaneggiante rivisitazione del “Codice da Vinci”, ecco che per la “Gioconda” arriva la violenza scientifica.

Per risolvere l’arcano dello “sfumato” leonardesco che dona a quel sorriso la sua caratteristica enigmaticità, la società “Lumiére Technologie” ha sottoposto il dipinto alla camera multispettrale: un raggio luminoso proiettato dalla macchina consente di misurare lo spettro dei vari componenti e di risalire ai primi disegni nascosti sotto la superficie colorata, senza neppure sfiorare l’opera.
L’indagine, eseguita accuratamente dal Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica francese, guidata dalla ricercatrice Mady Elias, è pubblicata dalla rivista specializzata americana “Applied Optics”.

Risulta dunque che lo “sfumato” è una geniale elaborazione della tecnica messa a punto dai pittori fiamminghi ai tempi di Van Eyck ed esportata in Italia forse da Antonello da Messina. Il procedimento è semplice: sovrapporre tanti strati di un solo colore non troppo concentrato, nel caso della “Gioconda” una “terra d’ombra”, ocra contenente manganese. I passaggi di colore successivi danno l’impressione che il ritratto esca letteralmente dalla tavola.

La ricerca ha rivelato anche la composizione della mano preparatoria: 99 parti di bianco di piombo e una di vermiglio, secondo l’uso che all’epoca era diffuso in Italia.

Leonardo, ci dice questo studio francese, era molto attento alle nuove scoperte tecniche, cosa che non stupisce. Ed era attento anche alle correnti pittoriche straniere, come altri artisti del suo tempo: dallo scambio culturale non si poteva trarre che vantaggi, allora come oggi.

Quanto al sorriso della “Gioconda”, quello resta enigmatico: l‘affiorare dell‘anima sul volto. La scienza vorrebbe spiegare tutto, ma il trascendente vi si sottrae. Il mistero rimarrà, per fortuna, insondabile.

2008

 

LEONARDO DA VINCI, “LA GIOCONDA”

sabato 8 ottobre 2016

Schneider Weisse

 

Quell’estate mi sentivo come un pugile suonato: avevo perso i contatti, mutato gli orizzonti. L’anno trascorso lontano per il militare in realtà significava averne persi due, dall’estate prima di partire a questa nuova nuova, passando per il magone delle brevi licenze di giugno e di luglio osservando i papaveri rossi in autostrada e sognando il mare. E anche lei se n’era andata, apparteneva a un’altra vita, a quella di prima. E anche gli Anni ’80 che finivano stavano portando dalle giacche colorate al grigiore uniforme del nuovo decennio.

Trascinavo per la città di mare la mia solitudine, gli amici erano tutti via: di qualcuno sapevo che era in Grecia, altri in Spagna, ma la maggior parte di loro ignoravo dove fossero. Passavo serate al cinema all’aperto o mi ubriacavo di romantica malinconia guardando la luna alzarsi dal mare e tingerlo d’argento, poi passeggiavo a lungo in compagnia dei miei ricordi mentre gli ombrelloni chiusi montavano la guardia alla spiaggia.

Una sera sedevo al solito bar, scorsi la lista della birre e ordinai una Schneider Weisse, in memoria delle sere passate al Café Liszt di Merano. La cameriera che me la portò ardì di domandare «Come mai ha scelto questa birra? Qui la chiedono solo i tedeschi». Le raccontai che avevo da pochi mesi finito l’anno di militare a Merano e che là qualche volta la chiedevo invece della solita Radler o della vodka-lemon. Le dissi che la luna nel Passirio non era poi così diversa da quella che ora si specchiava nel mare vicino a noi.

Eravamo in pochi quella sera che ormai diventava notte, ai tavolini all’aperto di quel bar. Alla conversazione si unì un tale sulla quarantina, che disse di venire da Latina e di essere un giornalista. Chiese cortesemente «Posso?», appoggiò il suo whisky con ghiaccio e accostò la sua sedia al tavolino. Sorseggiavo lentamente quel liquido ambrato che sotto le luci dei lampioni prendeva tonalità opalescenti: ne sentivo sul palato il sapore fruttato, il gusto di lievito non filtrato, che ricordava vagamente il profumo del glicine. E mi ritrovai senza nemmeno sapere perché a raccontare la mia vita e le mie vicissitudini amorose a un estraneo – be’, per lo meno si era presentato come Angelo.

Mi ero talmente calato in quella parte che solo un paio d’ore prima, uscendo dal cinema all’aperto dove avevo visto “Rain Man”, avrei detto non mia. Così conclusi il mio discorso con un’uscita ad effetto, da guascone o vagabondo navigato: «Ho solo stanze per dormire e notti per sognare». Forse era la Schneider Weisse che parlava per me come un avvocato delle cause perse.

Rimanemmo in silenzio. Anche Angelo inseguiva un suo pensiero che forse gli avevo risvegliato io stesso. In lontananza si sentiva cantare il mare…

 

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sabato 1 ottobre 2016

Come l’estate

 

«Senz’addii mi hai lasciato e senza pianti». Leggo Saba e mi travolge il ricordo, mi assale come una banda la diligenza nei film western: «Io so un amore che ha durato un mese e vero amore fu». Certo che fu vero amore e ripenso a te e a quei giorni passati che volavano svelti come falchi. Fu vero amore, per quanto breve sia stato, per quanto lontano sia nello spazio e nel tempo. E tu sei immutata nella mia memoria, come allora signora del ricordo, padrona della mente. Il cruccio di quei giorni era fermare il tempo: il nostro sogno ricorrente era quello di infilare un enorme chiodo tra le lancette. Sembrava inimmaginabile: eppure, vedi, ci siamo riusciti alla fine, pagando il prezzo della solitudine. Ora è tra le maglie del tempo che ti cerco. È tra le sue maglie che tento di passare. In qualche parte, in qualche luogo deve esserci uno squarcio, un qualche passaggio per ritornare a quell’estate. Devo tornare indietro, evitare tutti gli errori che ho commesso, devo ritornare per non perdere te. La nostalgia come fumo mi soffoca, ma voglio respirarla fino in fondo.

Ipermnestra, una delle cinquanta Danaidi, fu l’unica a non obbedire al padre che ordinò loro di assassinare i mariti. Come lei, forse tu avesti l’ordine di uccidere il nostro amore però non trovasti il coraggio e lo lasciasti in vita limitandoti a restare lontana. Sarebbe stato di certo meglio che come le quarantanove sorelle tu non avessi guardato in faccia la pietà: avresti soppresso anche il mio rimpianto, oltre a quell’amore. Adesso il ricordo si fa rimpianto e vado divinando il tuo oggi senza me ora che non contano più i perché ma solo che in qualche modo tutto sia stato e che in qualche luogo tu porti ancora il mio ricordo chiuso nel cuore come quando dicevo che non è importante essere insieme perché un amore vive in quanto il suo seme cresce e germoglia anche per chi è lontano. Allora sorridevi mostrando i denti bianchi: era un sorriso così bello e dolce. Ne ero talmente innamorato che mi mettevo da­vanti ad uno specchio e provavo a ricrearlo io stesso.

Eri bella come l’estate. Come l’estate, del resto, svanisti.

 

1996

 

Hicks

RON HICKS, “CAFE KISS”