sabato 3 dicembre 2011

L’ultimo giorno d’inverno

 

“Dovunque andiamo e traslochiamo, e cambiamo qualcosa sarà perduto... qualcosa resterà dietro di noi”.
FRANCIS SCOTT FITZGERALD, Belli e dannati

Questa è una storia di gatti, ma potrebbe benissimo essere una storia di uomini. Pochi giorni prima di Natale, Clarissa, una gattina bianca e nera, capitò nel giardino della fattoria, spinta dal freddo e dalla fame. Subito il fattore le portò una ciotola di latte e degli avanzi di carne. Clarissa bevve e mangiò avidamente e rimase seduta davanti alla porta fino a sera; il fattore non si sorprese di trovarla ancora lì e le portò dell'altro latte. Cominciò così il sodalizio tra l'uomo e l'animale: in cambio del cibo, Clarissa si prestava a giocare con i figli del fattore, aspettava sullo zerbino oppure rimaneva per ore e ore sui davanzali della cucina e accorreva velocemente quando si apriva la porta e il fattore usciva con il cibo.

Il tempo passava. A volte Clarissa spariva per un paio d'ore: esplorava le forre, si arrampicava sugli alberi o si sdraiava al debole sole d'inverno manifestando un gran desiderio di libertà. Qualche volta il fattore la lasciava entrare e restava a giocare con lei; e Clarissa si strusciava sulle gambe dell'uomo e lo guardava con quegli occhi luminosi miagolando e facendo le fusa. Con il passare dei giorni, la gattina conobbe alcuni gatti delle fattorie vicine: in particolare stava volentieri con Fulva, che divenne presto la sua migliore amica; e poi c'era Margo, un gatto bianco e nero che le faceva la corte e capitava sempre più spesso alla fattoria.

In breve venne anche la fine dell'inverno, la neve non cadde più e l'aria si fece meno fredda. Clarissa rimaneva lontana sempre più tempo: rincorreva le farfalle, esplorava le zone della fattoria dove non era mai stata, i vecchi canali, le cantine, il deposito degli attrezzi, la legnaia, le serre. Un giorno, l'ultimo giorno d'inverno, arrivarono alla fattoria due gatti randagi, Spink e Tigre. Spink era affascinante: alto, snello, il pelo corto e bianco, le orecchie scure e i baffi lunghi e neri, un bell'esemplare di gatto. Tigre era tutto l'opposto: basso e grasso, metà bianco e metà tigrato, e non aveva né il fascino né il carisma di Spink. Nonostante questo, i due stavano bene insieme e vivevano felici la loro vita di hippies: se non trovavano niente da mangiare, lo rubavano. Clarissa rimase tutto il giorno con loro: era affascinata da Spink, ma anche il fido scudiero Tigre le piaceva. Decise di seguire i due randagi e se ne andò con loro dalla fattoria.

Margo la vide mentre camminava elegante tra i due. Ne fu sconvolto. Per un attimo pensò di associarsi anche lui al gruppo, ma non ci sarebbe mai riuscito: sapeva che non avrebbe mai potuto rinunciare al benessere della fattoria, all'affetto della vecchia padrona, e poi si era abituato a quel posto, vi era affezionato. Corse via veloce dalla parte opposta, verso il fiume, e rimase a guardare l'acqua verde che scorreva. Anche il suo amore finito sarebbe passato come quell'acqua e ne avrebbe conservato solo un'immagine.

28 febbraio 1984

 

KEVIN SNYDER, “SUN CATS”

sabato 26 novembre 2011

Lettera non spedita (IV)

 

Carissima Paola,

posso racimolare tutto il coraggio che ho perché ho deciso che questa lettera non te la spedirò mai: la terrò per me considerandola un punto fermo, un trampolino di lancio, il momento in cui salvi gli archivi del computer in un floppy-disk ben sapendo che se dovrai cancellare tutto quello che avrai fatto, in futuro dovrai ritornare a questo punto.

Scusa se sono così elaborato, è uno stilema, così come lo è il rivolgermi a te pur sapendo che mai leggerai questa mia lettera. E dunque cominciamo, eliminati i convenevoli.

Chi sei oggi tu per me? E, di riflesso, chi sono oggi io per te? Se ci incontrassimo per strada, per caso, o in qualche locale, se ci riconoscessimo, cosa potremmo dirci? Cosa avremmo da dirci?

Andiamo per ordine: tu sei stata la mia vita per qualche tempo e, probabilmente, neppure lo sapevi. Eri la fonte delle poesie, protagonista dei sogni, dei desideri, delle illusioni; come i sogni sei svanita un giorno, sei uscita dalla mia vita e fu un ritorno alla realtà, non così brutale, a dire il vero. Sei un ricordo piacevole e rimpianto, oggi. Sei un'aspirazione, la gioventù che fugge ed è doloroso il volgersi indietro ma pure inevitabile è il piacere che deriva dal ricordo.

Io per te chi sono oggi? Penserai ancora a me? E in quale modo? Sono domande a cui non so rispondere e mai avrò l'ardire di chiedertelo, se mai ti incontrerò. E se ti incontrassi, di cosa parleremmo? Del lavoro, certo, di come adesso viviamo. Ma del passato cosa potremmo dire, come potremmo giudicarlo? E chi di noi potrebbe portare il discorso su quei tempi? Ci sarebbe poi da dibattere la spinosa questione del perché tutto è finito, le colpe, gli eventi e il rivangare potrebbe essere nocivo al risorgere di un'amicizia.

Non dico che ti vorrei dimenticare, ma solo che vorrei lasciare le cose al caso: se ci incontreremo sarà per caso e non sarò io a cercarti, a fissare un appuntamento. Per ora viviamo come abbiamo fatto fino ad ora: se qualche cosa dovrà succedere tra noi, succederà. Fatalista? Può darsi... Forse sono solo deluso e ho deciso di ricominciare.

 

FOTOGRAFIA © STUDENT BRANDING

sabato 8 ottobre 2011

Il 30 settembre

 

Era il 30 settembre. Avevo appena compiuto ventun anni, lei stava per compiere i venti. Mi aveva telefonato qualche giorno prima: grande fu la sorpresa quando mi passarono la cornetta e mi dissero “È Marta…” Voleva sapere come stessi, riallacciare i rapporti dopo l’estate, la prima che non avessimo trascorso insieme da sette anni. Aveva lasciato nell’aria l’idea di un incontro, un appuntamento che vibrava come un punto di domanda, senza specificare una data, una modalità.

Avrei dovuto avvisarla, fissare in anticipo – l’esperienza è un biglietto della lotteria scaduto che vale milioni ma che non è possibile in alcun modo riscuotere. Avrei dovuto, ma la gioventù coniuga l’incoscienza e la stupidità: così partii in treno, raggiunsi Milano e le telefonai da una cabina di Porta Garibaldi. Non era seccata, forse un po’ stupita. Certamente pensava che lasciassi passare qualche giorno, che non mi precipitassi dal sabato al lunedì. Ero impaziente di vederla, questo fu il mio errore principale, non sapere resistere all’ansia del desiderio, al dolce logorio dell’attesa. Insomma, alla fine mi disse che mi sarebbe venuta a prendere alle dieci all’uscita della metropolitana a Gioia. E lì cominciai a fantasticare su quel gioco di parole, a presagire, a pronosticare su gioia e felicità.

Arrivò un po’ in ritardo, scendendo dalla Mini bianca che le avevo visto guidare al mare. Indossava uno spolverino chiaro che la faceva un po’ signora ma straordinariamente donna con i collant e le scarpe con il tacco. In quel momento era bella come non lo era stata mai – era una dea discesa dall’Olimpo a condividere l’ambrosia con me. Salii in macchina e mi condusse nella piazza dove si affacciava la sua casa, un edificio di inizio secolo intonacato di giallo. Parcheggiò davanti a un ristorante e attraverso un andito scuro raggiungemmo il suo appartamento, al primo piano. Mi fece accomodare in soggiorno: c’erano due poltrone e un divano di pelle color rame posati su un tappeto orientale, i mobili erano lavorati in stile antico: su uno scaffale c’era uno stereo con qualche musicassetta, alle pareti dei quadri. Il suo labrador dormiva sul pavimento.

Dalla finestra aperta entravano i rumori della città: traffico e macchinari. La veduta era da quadro di Sironi: opifici e ciminiere, il sole pallido aumentava la sensazione. Mi parlò di come aveva passato l’estate con i suoi nuovi misteriosi amici: la Grecia e le bevute di ouzo, le brioches comprate all’alba nei panifici di Riccione. Io le dissi di Lignano, di come la compagnia si fosse sciolta e riformata attorno ad un nucleo nuovo, con ragazze belghe e ragazzini italiani. Tutto sembrava strano, diverso da come me l’ero immaginato. Mi ero pentito di essere stato così precipitoso, di essermi mostrato vulnerabile, preso da quell’orgasmo di incontrarla. Sedevo lì e pensavo già di andarmene. Quando mi chiese di restare a pranzo, declinai l’invito adducendo un impegno improrogabile che non avevo. In una parola fuggii.

Con la Mini bianca mi accompagnò alla stazione. La guardavo attenta nella guida, le osservavo le gambe svelte schiacciare frizione, acceleratore e freno e scoprirsi sempre più nella foga. A un incrocio tagliò la strada a un’altra vettura e quasi inchiodò: la donna la volante la apostrofò “Scema!”. Mi sembrò che la magia che si era andata ricreando con quel po’ di erotismo delle sue gambe velate dai collant si fosse improvvisamente infranta su quell’epiteto, al pari di una lucente bolla di sapone che tocca un oggetto e svanisce, o di un palloncino colorato sfuggito dalla mano di un bambino che esplode su un ramo spinoso.

Ci salutammo davanti alla stazione, frettolosamente. Non c’era parcheggio e il mio treno sarebbe partito di lì a pochi minuti. Ci scambiammo i soliti baci sulle guance, poi lei salì in auto e partii. La guardai ancora muoversi nel traffico, vidi la Mini scomparire nel fiume di veicoli che scorreva in Via Vitruvio ed entrai in Centrale.

Non la vidi più.

 

DIPINTO DI JACK VETTRIANO

sabato 1 ottobre 2011

Il pranzo scolastico

 

Sto leggendo un libro che promette “lezioni di scrittura creativa”. Uno dei capitoli invita a cimentarsi in un racconto sul “pranzo scolastico”. Naturalmente, essendo il libro scritto da un’americana, fa riferimento alla tradizione statunitense di portarsi il pranzo da casa: un panino con burro d’arachidi oppure con mortadella, senape e insalata o ancora con marmellata di ciliegie. Come Charlie Brown, quando siede su una panchina guardando la ragazzina dai capelli rossi e smaniando per lei: un morso, un sospiro, un morso, un po’ di autocommiserazione, un morso, un altro sospiro, finché non arrivano Linus o Lucy a chiudere la striscia con una battuta.

“Va bene, accetto la sfida, cara signora Anne che insegni scrittura creativa”. Anche perché la scorsa domenica sono ritornato in quella scuola media, anzi di più, proprio in quella mensa – in realtà la chiamavamo refettorio – e ci ho anche pranzato con una decina di compagni di classe di allora, rinverdendo i ricordi poiché alcuni di loro tornavano lì per la prima volta dopo 33 anni! Tutto cambiato naturalmente: le spartane sedie di laminato plastico finto legno si sono trasformate in sedili di resina verde brillante, le pareti giallo pallido sono ora dipinte per un gran tratto di arancione, è spuntato “l’angolo del self per i ragazzi”, l’austerità antica degli Anni Settanta si è stemperata nella folle girandola dei Duemila. Resistono imperterriti però, come dei fossili di quel tempo, i bicchieri della Duralex, quelli economici e quasi infrangibili: invece che con l’acqua di rubinetto che veniva servita in bottiglioni da due litri, li abbiamo riempiti con Barbera, Chardonnay e acqua minerale da bottiglie in PET. Eh, questi capelli diradati o ingrigiti, queste pancette, queste rughe qualche diritto ce lo daranno…

E lì seduti, mentre pranzavamo e mangiavamo gli affettati, i salatini e i tomini dell’antipasto, le lasagne e il risotto con i funghi del bis di primi, la cima ripiena con contorno di patate arrosto e infine la torta, ci siamo abbandonati anche ai ricordi del pranzo scolastico. La prima cosa: tutti indistintamente odiavamo i bastoncini di pesce – ce li davano il venerdì – tanto da non essere più in grado non solo di mangiarli, ma neppure di sopportarne la vista, da avere l’istinto di sparare al capitano quando appare in televisione per pubblicizzarli. Seconda cosa: tutti apprezzavamo quella che allora chiamavamo “pizza”, ma che in realtà era un panzerotto, o meglio un sofficino – che tra parentesi per ironia della sorte è un prodotto della stessa ditta – che ci veniva servito il giovedì. Il lunedì invariabilmente c’era l’affettato: cinque fette di salame di tipo Milano oppure tre di prosciutto cotto o cinque di coppa o ancora quattro o cinque di tacchino; il martedì era il turno della bistecca di manzo; il mercoledì ci veniva servito il pollo; il sabato, grazie a Dio, tornavamo a casa alle 12. C’era anche qualcosa di contorno: verdure lesse o patate. E c’era naturalmente anche un primo: pasta al sugo, risotto allo zafferano, qualche volta un’altra cosa che tutti abbiamo scoperto di odiare visceralmente: la polenta con un ragù piuttosto oleoso. Per finire un frutto di stagione: una pera, una mela, un’arancia, un paio di mandarini oppure un cachi – io lo so perché odio il cachi, perché ero costretto a mangiarlo allora.

Non erano previsti menù particolari per celiaci, vegetariani o musulmani: della celiachia in quel periodo neanche se ne parlava, i vegetariani erano stravaganti hippies e i musulmani neppure esistevano in Italia; le stranezze maggiori erano un compagno di classe che aveva la madre ebrea e un altro con origini istriane, se proprio c’era qualcuno delicato di stomaco gli portavano la pasta in bianco. Piuttosto, ciò che regnava in quel refettorio – lo chiamo ancora così, anche perché lo gestivano i frati – era una grande disciplina: per ogni mancanza si veniva puniti rimanendo per qualche minuto a guardare il muro. Rovesciavi distrattamente l’acqua sulla tovaglia: al muro! Facevi cadere la forchetta sul pavimento: al muro! Non finivi la tua michetta: al muro! Disturbavi: al muro! Il servizio militare, a noi che lo abbiamo provato, è sembrato meno duro del collegio, e potete credermi se vi dico che è vero. Io ero e sono molto disciplinato, tanto che non ho scontato neppure un giorno di punizione tra gli alpini del Reparto Comando e Trasmissioni Orobica. Invece lì, in quel refettorio, qualche volta il muro l’ho guardato…

Uscendo, abbiamo visto altri “totem”: le lunghe vasche con i rubinetti dove ci si lavava le mani prima di entrare – e ce n’era bisogno, visto che passavamo la ricreazione a giocare a pallone o a rincorrerci nei “quattro cantoni” – e il magazzino dove per cento o duecento lire si poteva acquistare una bottiglia di Royal Crown Cola o di gazzosa o di aranciata. Siamo stati anche a gironzolare per i corridoi e per le aule e ci sembrava che da un momento all’altro dovesse arrivare il compagno mandato in cucina con il cesto per la merenda. Chissà, forse oggi ci sarebbe stata la focaccia dolce o il panino con il salame o con la Nutella, o magari il cubetto di cotognata… Se c’era la tavoletta di cioccolato, qualcuno sarebbe poi passato a raccogliere la stagnola per i ciechi.

 

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FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 17 settembre 2011

Trieste e una donna

 

Trieste mi porta una ragazza in dote, una "mula" di belle forme, scure curve tagliate e levigate dal mare. Trieste e una donna nel mio ricordo di lacrime amare. Ma che settembre strano è questo mio, acceso di sole e di vento mentre nel cuore mi sento novembre, così solo, così piccolo senza di te. E lei cosa vuoi che possa fare se io nel cuore ho ancora te? C'è come un blocco psicologico: lei mi dà amore, io invece quel poco che ho lo riverso ancora su di te, anzi sul tuo ricordo che ogni giorno sbiadisce un po’ di più.

Trieste e questa ragazza dagli occhi chiari e puri, limpidi, annacquati. Il vento mi porterà via, almeno mi trascinasse via, lontano, dove non ci sono più i pensieri e le donne che tradiscono le promesse. Le donne come te, che poi chiamarle donne non è neanche giusto. La mia "mula" sì che si meriterebbe amore ma io che amore posso darle se il mio cuore l’ho venduto ai tuoi occhi assassini? Potessi almeno scordarti, ma io ti amo ancora.  Che strano sentimento: ti odio e contemporaneamente ti amo alla follia. E lei non l’ha capito o forse non le importa più di tanto oppure è come me: mi ama non riamata.

E il tempo non lo so se è una medicina, mi sembra piuttosto che riapra la ferita appena questa tenta di rimarginarsi, è lì con un coltello e mi tortura. Un mazzo di rose rosse gettate in un cestino: ecco come mi sento senza il tuo sorriso. Se tu volessi, dico, se tu volessi... ma ti ho già detto come ti considero e scopro con terrore che i miei pensieri precipitano in un pozzo senza fondo, è come un labirinto e quando sto per arrivare a te c'è un vetro spesso che non mi impedisce di vedere il tuo scherno ma mi ostruisce il passaggio. Così sarei lo straccio, l'uomo scelto solamente per un capriccio, uno di quei rasoi usa e getta che adoperi finché taglia e poi lo butti via. Ma dell'orgoglio tu che mi dici?

Invece lei è così dolce, soddisfa ogni mia voglia. Sai cosa ti dico? Lei mi ricorda me quando ero insieme a te e mi fa un po’ paura questo paragone, mi terrorizza pensare di trattare lei come ti sei comportata tu con me. Lascerò Trieste e la mia "mula": non voglio passare da santo ad aguzzino, non voglio essere come te.

(1989)

FOTOGRAFIA © ZINN

sabato 13 agosto 2011

Lettera non spedita (III)

 

Carissima Eleonora,

ti ho vista ieri pomeriggio davanti all’Arena. Eri appena scesa dal 2 e controllavi l’orologio, probabilmente avevi un appuntamento: andavi di fretta. Vestita di nero eri ancora più bella, le braccia nude abbronzate, i capelli raccolti come quando andavamo al mare la domenica. Ti guardavo camminare sui tacchi alti, attenta che non si incastrassero nei binari del tram: avevi un modo così signorile, così nobile, di muoverti. Mi hai ricordato cosa mi ha fatto innamorare di te quel giorno di fine maggio: la tua grazia. E la tua bocca dolce, dove un tempo morivano tutti i miei guai.

Sto bevendo un bicchiere di Pinot grigio adesso e il suo sapore mi fa ripensare a quella volta che siamo stati ad Alassio, ri­vedo le luci gialle della sera, i pitosfori, le palme. Rivedo le nostre sere e i nostri luoghi: l’hotel, la gelateria vestita di luci azzurre, il muretto, la spiaggia stretta a ridosso della strada... Forse fu in quei giorni che l’amore tra noi ebbe la sua massima intensità. L’amore a due, intendo. Perché la massima intensità quell’amore ce l’ha adesso, in me solo. È divampato come un fuoco alimentato dal vento appena ti ho rivista. Era una brace che da sempre covava in me ed è bastato un nulla a ridarle vigore.

Tu eri lì, dall’altro lato della strada, a una decina di metri da me, elegante ed altera. Il traffico di automobili e furgoni fluiva per Via Legnano: ho avuto la tentazione di scansare auto per auto, gettarmi verso di te. Ho avuto l’idea di gridare il tuo nome: ti saresti voltata, mi avresti individuato tra la gente in attesa al semaforo. Mi avresti sorriso, probabilmente. O avresti fatto finta di niente, magari solo un fugace cenno di saluto. Ma nulla di tutto ciò: sono rimasto muto, fermo ad aspettare il verde. E magari bastava che ti chiedessi di te, bastava che ti invitassi a bere un caffè per ricordare i bei tempi… Non so se mi sia mancato il coraggio o se mi sia venuta meno la voglia, stregata dai ricordi o dall'impossibilità di risvegliare il passato. 

Tornato a casa ho trovato i miei ricordi boccheggianti come pesci rossi sfuggiti a una boccia di vetro: li ho rimessi nell’acqua e ho scoperto di non amare te, ma il tuo rimpianto.

 

JACK VETTRIANO, “A DAY WITH FATE”

sabato 25 giugno 2011

Maturando

 

È tempo di esami di maturità, giornali e televisioni si sbizzarriscono a indovinare le tracce del tema d’italiano, a divinare quale sarà l’autore scelto per la traduzione di latino, si lanciano nella presentazione di improbabili gadgets e metodi per copiare, dall’orologio con lo schermo LCD alla penna da farcire con i bigliettini. È un rito di passaggio, un’obbligatoria iniziazione che ci porta nella vita adulta. In alcune tribù si viene scarificati, in altre circoncisi, in altre ancora si partecipa a una battuta di caccia. Da noi si passa l’esame di maturità.

Ai miei tempi – eh sì, ora bisogna dire così – non c’era Internet, non c’era tanta tecnologia. I computer erano ai loro primordi: i più tecnologici avevano il Commodore 64 o lo Spectrum ZX Sinclair. Smartphone poteva essere una marca di scarpe o di caramelle, ché tanto i jeans dovevano essere quelli della Levi’s e basta… Inutile parlare di andare a cercarsi le tracce in Rete o di preparare una tesina scopiazzando qua e là tra i vari blog. Eppure, anche noi, nel nostro piccolo avevamo una rete di spionaggio. Non so come, non so per quali vie. Fatto sta che domenica 3 luglio 1983, nel pomeriggio, mentre stavo arrampicandomi sugli specchi dell’Antologia del Novecento italiano, mi chiamò Luca – no, non sul cellulare, era ancora una decina d’anni di là da venire, proprio sul telefono fisso, quelli di un indefinito color caramello pallido, con la cornetta e il disco rotante – e mi disse che, sicuro sicuro, i temi sarebbero stati su Garibaldi e su Gozzano. La sera una bella camomilla e un po’ di svago – avrò visto un film alla tele o avrò giocato a carte con i cugini – e poi a letto per una notte di sogni frammentati. “Notte prima degli esami”, sì, la celebre canzone di Antonello Venditti. Non potevamo cantarla, sarebbe uscita l’anno dopo, quando già andavamo all’Università. La chitarra e il pianoforte però ce li avevamo: li suonavamo prima di andare in classe certe volte la mattina... Sembrava una scena di Saranno famosi, il telefilm che allora andava per la maggiore e tutti noi quanto avremmo voluto far parte di quella School of Arts con il professor Shorofsky, con la signora Berg, con Danny Amatullo e Doris Schwartz come amici...

Vabbè, torniamo a noi: il 4 luglio è non solo la data dell’Indipendenza americana, quando gli yankees si godono la festa e celebrano con i fuochi d’artificio, è anche la data del mio esame di maturità, o meglio della prova di italiano. Raggiunsi Bergamo con la mia Fiat 126 e parcheggiai prima di entrare in Città Alta: la sede per gli esami di Stato non era la nostra scuola, ma il liceo Paolo Sarpi. Salutai i miei compagni, ci mettemmo a discutere del più e del meno (le tracce, of course...) e stranamente mi è rimasto impresso che Paolo mi chiese qualcosa della mia cintura elasticizzata blu. Entrammo in palestra: banchi singoli. Sei ore e temi che naturalmente non solo non erano stati previsti ma che neppure erano di mio gradimento: Leopardi visto da De Sanctis e la prima guerra mondiale Cosa si fa in questi casi? Ci si butta sulla traccia d’attualità. Era brevissima, il che non aiuta, perché non ti permette di seguire uno schema, così come ci aveva abituato il nostro professore d’italiano con le sue tracce arzigogolate che praticamente erano già metà dello svolgimento. D’altro canto, permetteva di spaziare, di prenderla larga, di variare e, eventualmente, di giustificare in tal modo di fronte alla commissione una certa distanza dalla via maestra. Mi presi mezz’ora per decidere, alla fine iniziai. Il tema era: “L’uomo cittadino del proprio tempo”. Ci vuole una bella fantasia per dare una traccia simile. La presi larga: cominciai dalla definizione di cittadino, e ancora ringrazio il mio fidato Devoto-Oli per l’aiuto, parlai della cittadinanza degli antichi Romani, di alienazione, di diritti e doveri e profetizzai qualcosa a proposito dell’avvento delle tecnologie – insomma, neanche lo sapevo, ma stavo parlando dei “nativi digitali”. Avevamo tempo fino alle 15 (6 ore!) alle 11 avevo già bell’e finito. Rilessi il tema e lo copiai, poi aspettai che qualcuno si decidesse ad uscire – non volevo essere il primo! Una ragazza si alzò e consegnò, poi un’altra. Allora mi decisi. A mezzogiorno ero fuori a respirare l’aria di luglio. Attesi qualche mio compagno di classe, poi tornai a casa.

E il giorno dopo, 5 luglio, ero ancora lì. Latino. Seneca, impegnativo, ma dallo stile pulito. Poteva andare peggio. Un brano tratto dalla Consolatio ad Helviam sul sapiente e sui suoi rapporti con la sorte: ”Bona condicione geniti sumus, si eam non deseruerimus. Id egit rerum natura ut ad bene vivendum non magno apparatu opus esset: unusquisque facere se beatum potest”.  A differenza della prova d’italiano lì non c’era incertezza, bastava solo tradurre. Chiamiamola una prova di tecnica. E tre ore dopo uscivo con il mio Calonghi-Badellino rosso sotto il braccio.

Adesso c’era da aspettare quasi venti giorni per gli orali: il mio era fissato per la mattina del 23 luglio, ed ero il secondo in assoluto di tutta la classe, avendo i “saggi” sorteggiato la lettera iniziale del mio cognome. E furono due settimane di un caldo assurdo, con temperature altissime e un’afa spettacolare: mi capitò di andare a studiare in cantina per restare un poco al fresco. Chi è quel furbo che ha detto “Potevi andare in qualche centro commerciale...” L’aria condizionata allora non era contemplata: ventilatore e ventaglio. Fu una full immersion negli interi programmi di greco e di italiano, la materia assegnatami e quella scelta da me – le altre due erano fisica e filosofia. Dopo quelle due settimane letteralmente sudate sui libri venne anche sabato 23 luglio. Bergamo, Paolo Sarpi. Tradussi a vista il brano di Isocrate che mi fu proposto (bella forza, sapevo quasi a memoria tutto il volume delle sue Orazioni) e quando mi chiesero di parlare di qualcosa che mi piaceva, pontificai dei lirici greci, in particolare di Archiloco. Il commissario osservava, poi all’improvviso, come un gufo che si risvegli dal sonno, chiese “E Saffo?”. “Saffo, la Decima Musa...” e via di questo passo finché non mi fermò e disse “Basta, grazie”. Passai sulla sedia di italiano e pensavo che avrei avuto bisogno di almeno un anno di riposo tra un’interrogazione e l’altra. Guardai i miei compagni che sulle sedie dietro di me osservavano e facevano cenni di incoraggiamento. In quei pochi secondi dovevo trovare la concentrazione e cambiare tono. Il commissario a bruciapelo: “Lei che cosa pensa di Montale?” Che era un brav’uomo? Che mi piacciono le sue poesie? Che scriveva da dio? Mi mantenni sul vago e parlai della “teologia negativa”, dell’evoluzione del suo stile, del fatto che l’Accademia Svedese si era finalmente accorta della sua grandezza e che otto anni prima gli aveva tributato un doveroso Nobel. “E Leopardi?” – Brav’uomo anche lui, pensavo, anche se un po’ triste – “Vedo che lei non ha scelto il tema su Leopardi. Perché?” Carogna… “Guardi, ho apprezzato subito la traccia sull’uomo cittadino del proprio tempo…” “Comunque ha scritto proprio un bel tema. Complimenti… Vada, vada… La sua maturità è finita, vada pure a divertirsi” e mi porse la mano da stringere.

Il giorno dopo ero già al mare, sdraiato sulla spiaggia a sciogliere le tensioni. Mi sentivo come un sacco vuoto, come se tutte le nozioni che avevo immagazzinato fossero volate via nell’aria. Conobbi una ragazza di Udine. Anche lei aveva appena terminato la maturità. Legammo subito. Quando le comunicarono la votazione – per telefono – la ribattezzai subito Miss 57. Poche ore dopo divenni Mister 48.

 

Fotografia © Domenico Di Giacomo

sabato 21 maggio 2011

Un giorno di giugno del 1978


“Amati nomi, ore bruciate.” 
  LIBERO DE LIBERO

Era un giorno di giugno. Il 1978. Il pullman della scuola ci portava via per sempre da quei campi spelacchiati da tanto correre dietro a un pallone, da quella palestra dove giocavamo a pallacanestro, da quelle mezzore perdute a stringere le manopole del calciobalilla, da quei corridoi profumati di lavanda dove si aprivano le porte delle aule. L'esame di licenza media sarebbe stato l'ultimo atto per noi in quel posto. Eppure neanche ci pensavamo in quel momento, felici per aver terminato il compito, per essere finalmente pronti a iniziare tre lunghi mesi di vacanze spensierate. Si parlava dei  Mondiali d'Argentina: qualcuno diceva che "se siamo arrivati in semifinale, dobbiamo baciare i piedi a Kempes per quel gol alla Germania", "Però l'Olanda" diceva un altro "ha un gioco che fa impressione, avete visto Neeskens come tiene il campo?". E intanto paragonavamo quei grandi nomi alle nostre movenze sulla sabbia, con le scarpe da tennis di tutti i giorni e il vestito solito, i blue-jeans, la maglietta, il pullover: rincorrevamo a frotte il pallone, non lo passavamo quasi mai, l'epiteto "veneziano" era all'ordine di ogni azione. Tutto era finito, ma non ce ne rendevamo conto. Come se domani il nostro posto fosse ancora lì, come se a settembre le nostre strade fossero dirette ancora in quel luogo: invece molti sarebbero andati a lavorare, altri avrebbero intrapreso il biennio di un istituto tecnico, qualcuno si sarebbe arruolato tra i geometri e i ragionieri, pochi altri avrebbero scalato le vette del liceo scientifico e del liceo classico. E soprattutto non ci saremmo rivisti mai più, se non a distanza di anni, invecchiati, fortemente nostalgici per quei giorni che allora scivolavano via frizzanti e dolci come la gazzosa, come la Royal Crown Cola che si poteva comprare alla macchinetta della mensa.

Era già ieri quel giorno di giugno del 1978, era uno di quei momenti che costellano le nostre vite come se si piantasse uno spillo con la bandierina sul grafico dei giorni, degli anni. Aspettavamo che il pullman finalmente partisse e ci riportasse a casa, fuori altri ragazzi giocavano con un frisbee nel piazzale d'asfalto: attendevano che arrivasse il loro pullman, diretto su un altro tragitto ad altri paesi del circondario. Forse quel nostro atteggiamento non era altro che una forma di difesa: un anno dopo avrei potuto chiamarlo già carpe diem, un vivere dell'attimo per non pensare al futuro, per ignorare quel peso nel cuore che ci diceva che ancora una volta ci toccava ricominciare con altra gente e nuovi timori, con la paura di non farcela, di non riuscire a superare la prova. Io, per esempio, nei primissimi giorni di quel triennio alle medie, avevo avuto i miei problemi: una volta ero tornato indietro mentre già andavo a prendere il pullman, ai miei genitori dissi che stavo male, ma loro sapevano bene che cosa avessi. Mi consolarono, mi confortarono, e poi acconsentii quando mio padre si propose di accompagnarmi in macchina a scuola prima di andare al lavoro.

Il pullman partì. Nelle sue soste cominciavano a scendere gli amici: li si salutava così, come sempre. E non li avremmo rivisti per lunghissimi anni. Ci saremmo ritrovati soltanto uomini fatti, davanti a una tavola imbandita: invece della gazzosa, il vino dolce e amaro dei ricordi.


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Fotografia © Collegio Sant’Antonio

sabato 23 aprile 2011

L’alba


Non potevano dormire quella notte, i congedanti. Aspettavano ansiosi che venisse l’alba: il nuovo sole avrebbe portato la libertà, una svolta nelle loro vite dopo un anno trascorso lontano da casa.
Cominciava “la notte”. Non potevano dormire, i congedanti. L’adrenalina, l’ansia, l’angoscia consentivano solo brevi sonni intermittenti. E parlavano, sottovoce.

Finalmente dalla grande finestra della camerata, che dava sul giardinetto interno, a Oriente, entrò la prima luce. «È finita! È finita!» si sentiva gridare, «Finita! Finita!» replicavano altre voci, «È finita!» gridò anche Andrea entusiasta. Si lavò e si vestì, c’era da aspettare le dieci, l’incontro con il comandante.
Fece colazione, pensando che per l’ultima volta avrebbe avuto quella scodella di metallo, quei biscotti secchi confezionati in cubi di stagnola, quel succo di frutta da stappare con il manico della forchetta.
E poi fu l’adunata, l’ultima. I congedanti erano vestiti in borghese, con il cappello alpino in testa, sull’attenti mentre suonava l’inno, mentre la bandiera era issata sul pennone.
«Rompete le righe!», l’ultimo comando. Quindi andarono in camerata a prendere materasso e lenzuola per riconsegnarle in magazzino.  «È finita!»

Il comandante li aspettava per le dieci nel salone ricreativo, o meglio i soldati aspettarono lui e il maggiore Pavone. Vennero con i congedi, ed uno per uno firmarono e furono salutati calorosamente. Il colonnello Tripodi, temutissimo, si rivelò cordiale - anche con Andrea, che conosceva poco, essendo rimasto alla “Leone Bosin” per soli quaranta giorni, comprendendo i dieci del campo estivo a Ponte di Legno.
Il maggiore Pavone tenne un discorsetto sul futuro, su quello che li aspettava fuori di lì, su quello che ci si aspettava da loro, e consigliò di iscriversi all’Associazione Nazionale Alpini.
Furono liberi di andare con il tanto desiderato foglio arrotolato in mano. Corsero in camerata a prendere le borse…

Andrea Lievi stava per varcare per l'ultima volta il cancello della caserma: tra lui e la libertà c'erano ora solo pochi metri. Sostò davanti a un autocarro militare parcheggiato nel cortile e pensò a tutti gli spostamenti che aveva fatto con quei mezzi.
Era stato trasportato sulle jeep in dotazione all'ufficio: alla Posta, a Bolzano, perfino a Trento; il maresciallo Illica prima e il maresciallo Peruzzello poi,  si arrabbiavano con il reparto che mandava la vettura al Presidio: talora avevano inviato una Fiat AR57, risalente, come diceva la sigla, al 1957, invece della normale AR76. Qualche volta avevano persino assegnato all'ufficio un furgoncino 900 - «Ci hanno preso per degli ambulanti» aveva commentato il maresciallo Peruzzello. Si infuriò quando vide entrare nel cortile un furgone Fiat 238: «La prossima volta ci mandano un camion!» gridò e poi si precipitò a lanciare improperi nel telefono. 

Andrea ricordò le fredde mattine sui camion, soltanto due fortunatamente, per recarsi al poligono di tiro di Salorno: tutti seduti dietro, nel cassone telonato e con il fucile tra i piedi. Ricordò il camion che lo aveva trasportato al campo estivo di Ponte di Legno: era capomacchina, seduto al fianco dell'autista nella cabina di guida che avevano dovuto riscaldare per il freddo fuori stagione che regnava al Passo delle Palade.  E ricordò con una punta d'orgoglio la volta che salì al Passo del Tonale con l'Alfa 33 blu del generale e per la strada più di un capomacchina lo salutò, forse ingannato dal sole.
Era giunto finalmente al passo carraio: salutò la guardia che gli aprì il cancello, si voltò indietro ancora una volta a guardare i muri tinteggiati di giallo e marrone, la bandiera che sventolava nel cielo incerto di aprile sul pennone nel piazzale dell’adunata, i camion che viaggiavano per i viali della caserma, la corvée che ramazzava i marciapiedi, la vita che continuava immutabile in quel piccolo mondo. 

Uscì e si tolse il cappello con la penna nera, avanzò verso la vita e si rese conto solo allora di aver ritrovato la libertà, ne gustò subito il sapore salendo per la stradina sterrata che conduceva alla strada principale.
Si chiese che cosa gli restasse impresso nel cuore di tutto quell'anno trascorso, oltre al cappello da alpino che custodiva gelosamente. Guardò il fiume scintillante sotto il sole del mattino: non l'aveva mai visto così neanche quando lo attraversava al ponte di Santo Spirito tornando dalla Posta; lo vedeva con gli occhi della libertà e sembrava ancora più bello, con le nuvole cerulee che vi si frantumavano. Trovò la risposta al quesito che si era posto: “Mi resta l'esperienza di aver conosciuto amici veri - fratelli - nel forzato convivere di un anno”.



La Caserma “Leone Bosin” di Merano, ora abbattuta  © DR

sabato 16 aprile 2011

L’ultimo treno

 

Come ogni sera siedo nel buio aspettando che l’ultimo treno passi. La fiamma della candela alla citronella accesa per tenere lontane le zanzare ondeggia nel bicchiere di vetro assecondando le carezze del vento lievissimo che di tanto in tanto si leva. Così illumina il balcone su cui mi trovo, disegnando ombre sugli oggetti consueti, che appaiono diversi da come sono abituato a vederli durante il giorno: il tavolo bianco, le liste delle sedie di resina, i vasi con gli ibischi, la grande felce, le gazanie nei portavasi sospesi alla ringhiera. I lampioni della strada bagnano solo di striscio questa oasi che mi sono ritagliato: la loro luce metallica, artificiale, colpisce lateralmente il balcone: riesco a vedere le falene girare folli attorno ai globi luminosi. Dall’altra parte invece, dove dovrebbe arrivare il treno, c’è soltanto un isolato lampione, per il resto i giardini che si susseguono l’uno dopo l’altro sono nel buio. Se aguzzo gli occhi, riesco a vedere il barbagianni appollaiato su un filo del telefono: un punto nero nel nero, in attesa di piombare sulla preda. Negli orti il riccio frugherà il terreno cercando pomodori caduti, le chiocciole addenteranno la lattuga, il gatto sornione guaterà con occhi fosforescenti il topo di campagna.

Là, dove dovrebbe passare il treno, in una trincea leggermente incassata, solo qualche riflesso improvviso. Ma il treno tarda. Mi restano le stelle da ammirare in questa notte senza luna: cerco il Carro, mi ci vorrebbe una mappa del cielo per distinguerle. I pipistrelli svolazzano in circolo, guidati dai loro radar. Di tanto in tanto passano silenziosi i puntini luminosi di un aereo, li seguo fino a che scompaiono dall’altro lato dell’orizzonte.

Poi finalmente il segnale che attendevo: le campanelle che indicano che il treno ha lasciato la stazione precedente, sento le altre campane segnalare che si stanno abbassando le sbarre del passaggio a livello. Mi immagino la luce rossa del segnale, le auto che si fermano, i più coscienziosi che fermano il motore, i più smaliziati che conoscono la strada alternativa per saltare il passaggio ferroviario. C’è anche l’annuncio, mi giunge da lontano, ma chiaro, portato dalla notte: la voce metallica dice “Il regionale 7043 proveniente da Milano Porta Garibaldi e diretto a Bergamo delle ore 22.38 è in arrivo al binario 1. Allontanarsi dalla linea gialla”. Un minuto, forse meno. Il treno arriva, sosta giusto il tempo di far salire e scendere i passeggeri – immagino la stazione, la sala d’attesa, sono molti stranieri a scendere – poi, riparte, prende lentamente velocità, percorre i cinquecento metri che mancano al punto che posso osservare da qui.

Eccolo: passa con le carrozze illuminate, passa sferragliando. Scruto nei vagoni, ma non c’è, non c’è, la viaggiatrice che attendevo non c’è.

 

Geograph

IMMAGINE © GEOGRAPH

sabato 12 marzo 2011

Finiscono anche gli amori


Ci sono sentieri di montagna che percorri salendo tra  boschi di larici, ascoltando l'acqua di un torrente gorgogliare giù nella gola. Poi gli alberi si fanno più radi, restano solo massi e pietre, la strada si fa più disagevole, più stretta, e dopo una curva a gomito ti trovi davanti il burrone o un precipizio oppure, se sei più fortunato, un pendio talmente ripido che non puoi neppure immaginare di inoltrarti.

Finiscono così anche gli amori, talvolta, lasciandoti lì a guardare nel vuoto, a indagare in quell'abisso che non avresti mai pensato di incontrare dopo la curva di una discussione o di un tradimento. I meno forti, i più sensibili, si lasciano andare, si fanno inghiottire da quel vuoto. Come la poetessa milanese Antonia Pozzi, lacerata dall'amore per i suo professore di latino e greco al liceo classico Manzoni: osteggiata dal padre, delusa dallo stesso amante, si lasciò scavare nel cuore da quell'ansia, mentre quel dolore si ingigantiva e il suo fuoco bruciava le corde che la ancoravano alla vita. Antonia Pozzi il 2 dicembre del 1938 aveva ventisei anni. Andò all'Abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano, inghiottì decine di barbiturici e si sdraiò sull'erba gelida e secca di fronte alla chiesa, attendendo che l'abisso la inghiottisse. Il buco nero la avvolse solo la sera seguente, al Policlinico, dove era stata portata dopo che un contadino l'aveva trovata addormentata nel prato.

L'amore finisce, si sgretola come una collina che frani a valle e intanto il cuore si gonfia, pompa emozioni, sale la bile, il fegato assorbe tossine. Le parole si trasformano in lance acuminate, in pugnali che lacerano la pelle, in pietre che feriscono, diventano spine conficcate nella carne dell'altro. Oppure diventa soltanto silenzio, un assordante e fragoroso silenzio, un vuoto colossale tanto vicino al nulla che ti chiedi se è logico che faccia così male il non esistere. O ancora diventa memoria, l'immagine di un biondo e sottile alzarsi dal divano, di un ultimo gesto rimasto nell'aria, tintinnante di bracciali e profumato di narcisi.

Finiscono nel nulla anche gli amori, dunque, e il bene voluto sembra sprecato, buttato via. Oppure aleggia ancora come un fantasma - e quello spettro è il ricordo, è l'illusione caduta, spenta come svaniscono certe giornate: un'ultima fiammata avvampa e incendia l'Occidente; si vive dell'ultimo bagliore del crepuscolo mentre cala la sera fresca e buia. L'unica cosa da fare è voltare le spalle all'abisso e riprendere il cammino, a un bivio svoltare su un altro sentiero e ridiscendere.


Peters

Fotografia © Hans Peters

sabato 29 gennaio 2011

Sera di neve

 

Il tempo continuava a essere brutto. “Febbraio quest’anno è davvero corto e maledetto” disse Maria guardando la neve cadere oltre i vetri appannati. Paola affondò il pollice nell’arancia e la divise a metà; l’odore aspro della scorza si diffuse nella piccola cucina. “Contiene tante vitamine: dovresti mangiarne una anche tu” disse a Maria che la guardava con aria interrogativa.

Le due ragazze erano giovani maestre, avevano affittato quella casa da poco. Fatti due conti, avevano deciso di vivere sotto lo stesso tetto per via dei costi sì, ma anche per la compagnia: quel paesino di montagna non offriva molti svaghi e la sera era piacevole poter parlare con qualcuno. “Ha telefonato Andrea?” chiese Paola. “Ancora no”. Andrea era il fidanzato di Maria, un medico che stava svolgendo il servizio militare a Merano come sottotenente del servizio sanitario. Erano state a trovarlo nel mese di agosto: la città era in festa e le due ragazze si innamorarono subito dei fiori e della romantica atmosfera da Belle Époque che vi si respirava. Mancavano solo due mesi al congedo, poi Andrea sarebbe ritornato al paese. Maria lo aveva conosciuto lì, aveva anche tentato di convincerlo dei vantaggi di una grande città, ma lui era rimasto del suo parere. E come dargli torto? Paola temeva un po’ il giorno in cui sarebbe tornato Andrea: le sue sere sarebbero state quelle di un tempo, solitarie e tristi.

Paola pensava spesso al suo unico amore, intenso ma breve, un amore che non era mai finito, come un armistizio non dichiarato, eppure non esisteva più. Si chiedeva di tanto in tanto se anche lui si trovasse in quella condizione, sperava sempre che una nuova scintilla riaccendesse il motore. Squillò il telefono. Era Andrea. Maria rimase a lungo a parlare con il fidanzato. Paola guardava fuori: la neve cadeva lieve ormai da ore. Prese un libro dallo scaffale e cominciò a leggere. Le pesava sul cuore il pensiero della sua solitudine insanabile, come una malattia, come quella coltre di neve così pesante che avvolgeva il paese per gran parte dell’anno. Guardava le pagine ma non leggeva: fantasticava. Sognava di essere chiamata da Maria: “Ti vogliono al telefono, è una voce maschile” e lei lentamente si avvicinava alla cornetta, la impugnava quasi al rallentatore, ed era il suo amore.

“Sabato Andrea torna in licenza... Paola, ma mi stai ad ascoltare?” Il sogno ad occhi aperti si dissolse come una bolla di sapone. “Sì, che bellezza” disse Paola e sentì che stava per piangere. La solitudine le pesava di più, come se lui davvero le avesse telefonato.

 

Jack Vettriano, “Winter white and lavender”

sabato 8 gennaio 2011

Le rose che non colsi


C'è un giorno tra noi; un giorno tra me e l'andito buio della tua casa d'affitto dove mi hai invitato a rinverdire i ricordi. Un giorno tra me e il tuo salotto di pelle e i mobili antichi e la finestra chiusa per lasciare fuori la polvere e i rumori della città. E tra poco tornerò da te. Ieri le tue mani, le tue gambe nella gonna ampia, lo spolverino bianco, ieri i tuoi capelli che ondeggiavano mentre mi correvi incontro, prima immagine di te dopo tanto tempo, dopo quella telefonata: "Vieni, ho voglia di vederti". Ieri i tuoi sguardi mi avvolgevano caldi come quando eravamo insieme, ieri il tuo viso, le tue guance sulle mie e una sete di tempo perduto.

E tra poco tornerò da te. Parlavi, seduta in poltrona, e tormentavi gli anelli con le dita; guardavo le tue labbra e mi aspettavo che si schiudessero in un sorriso, uno di quelli che avevi usato per farmi innamorare. Improvvisamente, come ci si risveglia da un sogno, ti ho scoperto donna tra l'afa del pomeriggio e la noia della città, tra le luci di una notte che rimaneva nei tuoi occhi e che mi raccontavi. Ma io non ti stavo a sentire, prigioniero di quella sensazione che era balenata dentro di me: ti avevo lasciata che eri ancora ragazza e ti trovavo donna. Donna nel tuo abito fucsia, donna nelle gambe accavallate avvolte nei collant, donna dolce e tenera, donna da difendere e da amare.

Guido verso casa tua, tra poco sarò da te. Mi hai offerto il tè e ho cominciato a parlare io, a ricordarti di quando eri il mio dolce amore di lacrime e miele, di quando, vestita d'autunno e di vento, seduta sul bordo di una fontana pensavi a chi ti aveva tradito rubandoti il cuore e io ti consolai. L'amore sceglie i suoi momenti nei momenti d'oro e il nostro momento fu quell'estate fantastica che vivemmo insieme, l'estate che impazzimmo per l'Italia e per il calcio e le bandiere volavano nel vento. I tricolori sventolavano nel blu di una domenica di luglio, le strade impazzivano di clacson e di olé. Ricordo ancora le luci lontane, la punta e il faro, il luna-park, la sabbia, i giochi e quelle ingenue poesie che ti dedicavo.

"Se tu fossi un fiore ti trapianterei nel cuore
così non appassiresti mai.
Se tu fossi una docile cerbiatta ti legherei a me
e ti accarezzerei ogni minuto
e ti guarderei ogni istante negli occhi.
Se tu fossi l'estate ti inseguirei tra gli emisferi.
Se tu fossi una stella mi farei cielo per stare con te.
Ma tu sei una donna e non posso fare altro che amarti".

Un campo di papaveri nel sole, ondeggiano nel vento di maggio le rosse corolle. Mi fermo a pensare a come sarebbe bello correre con te in mezzo a tutti quei papaveri e guardare il sole cadere dietro la collina e il cielo che imbrunisce tra nuvole di rame, ascoltare il canto dei grilli e sentire il vento tra i capelli... Ma il tempo ci ha divisi o meglio ti ha cambiata ed ora non vorrei che tu fossi soltanto una stella morta che manda la sua luce dal passato. Sei stata per me cieli che si guardano lontano, dietro le spalle, cinque minuti fermi in un autogrill per bere un caffè e riposarsi le gambe. Sei stata solo un nodo dentro il cuore che si è sciolto ed ho scoperto che i giorni sono solo dei ricordi come le tue lettere che leggevo nei primi tramonti gialli di primavera.

Lo so che ti devo molto in fatto di personalità, so quanto tu sia stata importante per me. Un po' eri caduta nella mia considerazione e forse è stata solo colpa tua o del vento che ti ha tinto di città. Il tuo sole si sbiadiva sempre più, vedevo la ragazza che un tempo amavo e non eri più tu, lo sai? Aveva il tuo viso, il tuo corpo, le tue gambe ma sul suo volto non si leggeva il tempo che ti aveva cambiato il cuore. O forse ero io che stavo cambiando. Ieri. Tutta la notte ho pensato a te. E adesso sono qui davanti a casa tua.

Mi apri festosa la porta. Mi fai accomodare. E comincio a parlare: "Certo che allora con il futuro sicuro e nelle mani l'amore, con i tuoi occhi dentro i miei, forse alla felicità ci sono arrivato vicino. Oggi non so: dico «che importa domani cosa si farà?»; c'è meno tensione e più voglia di darsi, vado cercando chi viva con me. Ma questo è il mio destino: io come Gozzano non amo che le rose che non colsi, quello che poteva essere e invece non è stato. Non amo che i baci mai dati e le parole mai dette, non amo che gli amori mai nati".
Certo che allora ero con te e mi dicevi l'amore per strada, tu un cespuglio di rose, i tuoi occhi vispi due colibrì; le tue mani graziose come aironi si muovevano con gesti misurati. Com'erano belle le notti con te, le stelle tremolanti punte di spillo nel blu. L'estate nasceva sulla tua pelle e noi crescevamo aspettando la sera, prendeva vita la parola "insieme" e non provavi vergogna nel toglierti il bikini. Sei stata la mia Frine e io credevo di morire sul tuo giovane corpo nudo; sui tuoi seni nasceva un nuovo amore.

Ora sei tu a ricordare: quei giorni che venivi con i capelli biondi fin sopra il mio viso e nei tuoi occhi si rifletteva l'oro della catenina. Dici che ti ridevi addosso, che vuoi che importi. Dici che non hai pianto proprio mai, che io mi voltavo e tu eri lì: volevi le poesie, volevi che le dedicassi a te. Volevi essere la regina del mio cuore - ora lo confessi - la signora incontrastata dei sentimenti, la padrona della mente. Volevi ma non è stato. E mi dai ragione: le rose mai colte sono le più amate.

"Ma non ci hai mai pensato?" mi dici cambiando la posizione delle gambe "L'amore è un rito vudù dove gli spilloni sono gli occhi che ti frugano nell'anima. Sono gli occhi, mi capisci? Sono fari puntati in una strada buia e tu sei l'auto che proveniva dall'altra corsia e mi hai abbagliata". Sono pietre preziose quei tuoi occhi che le lacrime adesso bagnano, rigandoti il viso. "Scusa" mormori. Ma di cosa ti scusi? Di mostrarti come sei? "Sono una stupida" dici rivolgendo ancora gli occhi a me. “No, non lo sei: è solo tenerezza" riesco a dirti. "Sei ancora tu il mio desiderio" - trovo finalmente il coraggio di dire - "credevo di amare una figura idealizzata che lo rispecchiasse. Ma adesso rivederti, parlarti, ha riacceso la vecchia fiamma che non si è spenta mai in tutti questi anni. Covava ancora sotto la cenere. Tutto qui."

E quando andasti via - ora lo so - barattai una parte di me con i tuoi baci: è la parte di te che ho dentro al cuore, scritte a Lampostyl di innamorati sui sedili di legno di un treno che ci ha diviso. Fumi di ciminiere nel mattino e il sole che si svegliava rotolando sopra i fiumi, la campagna dietro i finestrini e io che piangevo pensando a te. "Sai che di notte ti pensavo" - mi dici - "chissà mai se gli vengo in mente. Magari un oggetto, una parola, un gesto gli ricorda me... Forse era la speranza o la rassegnazione, non lo so. Forse era solo nostalgia. Volevo per me sola i tuoi sguardi e le tue occhiate, la dolce carezza delle tue parole. Non era gelosia. O almeno non lo credo, semmai era possessivo desiderio. Volevo per me sola i tuoi baci e i tuoi vestiti sulla sedia e le lusinghe delle tue mani, i tuoi giochi proibiti. Però niente e nessuno no. Così non puoi andare avanti: qualcosa e qualcuno devi sempre avere, un amico sincero che ti sappia capire, in quei momenti in cui ti rendi conto di avere sbagliato. Ti occorre sempre un amore che ti accenda di vita, come quando c'eri tu accanto a me e il vento spazzava il cielo e le strade e le mie paure. Tra i grattacieli un volo di colombi e le prime luci che si accendevano. Lontano un'eco di voci e tu mi stringevi".

"Lo so: fa male l'amore che va via. Ti ho vista allontanarti piano piano, diventare un puntino e ho capito che non eri più mia ormai. Ho pianto come un bambino e ho sentito un vuoto dentro il cuore. Però si cade e poi ci si rialza, lentamente ci si riprende e ci si sente un po' più forti. E quante altre volte sono caduto: mi sembrava di vederti tra la folla, ti seguivo. Sembravi tu: il viso, i capelli, l'andatura, la tua figura. Poi arrivavo vicino e non eri tu: mi sentivo la bocca piena di sabbia". Hai intuito il mio groppo in gola, ti fai vicina, mi accarezzi la nuca come facevi allora. È come un chiarimento: è un gesto che vale più di mille parole. Continuo rinfrancato: "La previsione non sempre è prevenzione; ci sono in gioco molti fattori: sentimento, evento, caso, errore. D'accordo, forse io pretendevo un po' troppo ma tu non mi hai mai disilluso: al gioco ci sei stata anche tu".

L'amore nasce dai tuoi occhi come un fluido che mi ipnotizza, bagliore intenso ed improvviso. Le luci della città si accendono al crepuscolo. L'amore ha i tuoi occhi, un mare pulito, quel mare pulito della nostra laguna dove correvamo liberi sulla spiaggia e dove scoprii che l'amore ha i tuoi occhi. I nostri visi sono vicini ora, le tue labbra invitano le mie e ti bacio. Un lungo bacio che chiude una parentesi aperta quel giorno che sei diventata un puntino mentre andavo via. È tornato in vita quell'amore nato nell'angolo di un bar, il tuo amore che era i tuoi sorrisi e il volo di un gabbiano, la consapevolezza che il tempo ci avrebbe divisi. È tornato dalle vecchie fotografie che escono da un cassetto.

Ed è tempo d'amare, tempo di te. Le luci riportano i bei tempi passati insieme. La porta stretta del tuo cuore si è aperta per me quando hai avuto voglia di vedermi e come un fiume in piena i ricordi hanno rotto l'argine dei nostri cuori. Ridi. E questo mio amore diventa di nuovo grande ora che i miei pensieri si trasformano in azioni e non è più un sogno sfiorarti le labbra, guardare i tuoi occhi, quella rosa scura che io amo e che tu vesti di un sorriso.

Si fa già più chiaro nei tuoi occhi e l'alba sveglia la città. Abbracciarti è una realtà ora che fra noi c'è questa nuova notte d'amore tra i tuoi sospiri e le mie paure. La luna è la moneta con cui abbiamo pagato i nostri errori. Sei seduta sul letto con una gamba ripiegata, così il piede è gemello del ginocchio; con le mani sostieni il tuo bel viso. Guardo i tuoi occhi, guardo la tua nudità, guardo i gomiti lisci che celano i seni alla mia vista, guardo i tuoi capelli scompigliati. Sei la mia Eva dei paradisi perduti. Ti volti, sorridi: "Abbiamo colto le rose".

 

 

Edward Hopper, “New York Restaurant”

sabato 1 gennaio 2011

Il Capodanno del 1989

 

A mezzogiorno del Capodanno 1989 consegnai in fureria il bracciale rosso, compilai e firmai il verbale e smontai da caporale di giornata. Quella notte, dopo il mio giro per il contrappello alle undici e mezza, avevamo brindato con lo spumante e il panettone che Perego aveva comprato allo spaccio della caserma. Oltre i grandi vetri della camerata splendeva la scritta “Las Vegas” di un luna park che campeggiava nel parcheggio dell’Ippodromo: quel momento sembrava insignificante, eppure è impresso a fuoco nella mia memoria, catalogato tra le sensazioni più belle. Rivedo i volti di chi era lì, rivedo le brande, gli armadietti appoggiati al muro, gli zaini sulla parete. Risento il botto del tappo a mezzanotte, le grida, gli auguri scambiati, i brindisi con i bicchieri di carta.

Mi cambiai velocemente e radunai la combriccola con la quale avevo appuntamento: andammo a pranzare alla Haisrainer Weinstube, in piazza del Duomo. Cinque soldati, cinque amici che si ritrovavano a condividere quel primo giorno di un anno che avrebbe portato molti cambiamenti nelle loro vite, a cominciare da quel congedo tanto atteso. Quando uscimmo dal ristorante, nel pomeriggio freddo e sconfinato, prendemmo la strada che porta a Quarazze, dove si trovano gli edifici scolastici e dove andavamo al cineforum qualche giovedì. Entrammo in un bar fuori mano per riscaldarci con una tazza di cioccolata e una fetta di torta ai mirtilli. Trascorso un bel po’ di tempo tra discorsi seri e i soliti lazzi, pagammo. Su mille lire di resto che toccavano a lui Ferrario scrisse luogo e data, “Merano, 1/1/1989” e firmò. Poi ci porse la banconota e ognuno di noi scrisse qualcosa negli spazi bianchi e firmò a sua volta. Lo facemmo in silenzio, senza dire una parola, come se un’invisibile forza guidasse i nostri atti. Infine Ferrario ripiegò le mille lire, quelle con la Montessori da un lato e i bambini a scuola sull’altro, ne fece un piccolo quadrato che ripose nel portafogli. Soltanto allora parlò: “Ragazzi, non sapete che ricordo è questo. Lo terrò sempre con me. Chissà che cosa penserò fra qualche anno, quando mi ricapiterà tra le mani...”

Non ricordo le frasi che scrissero gli altri tre, Perego, Cantoni e Bettoni. Purtroppo non ricordo neppure che cosa scrissi io, e me ne rammarico. Ma ricorderò sempre quel tavolo ingombro di tazzine, piattini, bicchieri e cucchiaini, e quelle mille lire tutte scritte con una biro rossa. Ricorderò per sempre il Capodanno di naia del 1989.