sabato 30 gennaio 2016

Il dormiveglia di Sant’Agostino

 

“Così il bagaglio del secolo mi opprimeva piacevolmente, come capita nei sogni. I miei pensieri, le riflessioni su di te somigliavano agli sforzi di un uomo, che malgrado l’intenzione di svegliarsi viene di nuovo sopraffatto dal gorgo profondo del sopore. E come nessuno vuole dormire sempre e tutti ragionevolmente preferiscono al sonno la veglia, eppure spesso, quando un torpore greve pervade le membra, si ritarda il momento di scuotersi il sonno di dosso e, per quanto già dispiaccia, lo si assapora più volentieri, benché sia giunta l’ora di alzarsi; così ero io sì persuaso dalla convenienza di concedermi al tuo amore, anziché cedere alla mia passione; ma se l’uno mi piaceva e vinceva, l’altro mi attraeva e avvinceva”.

Ho trovato meravigliosa questa metafora di Sant’Agostino, tratta dalle “Confessioni” (VIII, 12): il filosofo di Ippona descrive il suo tormentato passaggio alla vita cristiana, al battesimo che riceverà a Milano da Sant’Ambrogio il 24 aprile del 387, notte di Pasqua. Giunto ormai vicino alla decisione, Agostino ancora è trattenuto dal pensiero del matrimonio, dall’attitudine al piacere, e questa sua esitazione è ben raffigurata dallo stato di una persona che resta nel dormiveglia, che non decide di alzarsi, ben sapendo che quella è l’unica soluzione e che naturalmente si dovrà risvegliare e cominciare la giornata.

Agostino era un santo e filosofo e molto travagliata fu la sua via verso la fede: meditata attraverso i vizi e l’adesione al manicheismo, con progetti di matrimonio e addirittura di una “comune”. Ma anche ognuno di noi, e non parlo necessariamente del cammino religioso, spesso rimane in questo dormiveglia, in questo limbo in cui non si decide ma si rimane avvolti nelle coperte, nel comodo e piacevole torpore dell’ultimo sonno, si dice “Ancora un attimo”, si sussurra “Sì, tra poco mi alzo” e intanto, temporeggiando, la vita scorre e le occasioni fuggono…

2009

 

Sleeping Man

ELLEN ALTFEST, “SLEEPING MAN”

sabato 23 gennaio 2016

New kid in town

 

Ero un ragazzo, un quindicenne timido che frequentava il ginnasio e cominciava ad applicare alla vita quegli insegnamenti umanistici che apprendeva a scuola. Avevo finito la quarta e non avevo materie da riparare a settembre: quell’estate fu una delle più spensierate della mia vita. Stavo trascorrendo la mia vacanza al mare e avevo fatto amicizia con alcuni coetanei, in particolare con Paola, una ragazza di Milano, e Miriam, che studiava ragioneria a Udine.

Quel pomeriggio eravamo in spiaggia. Dopo una lunga giornata di calura, il sole ora tramontava sulla pineta incendiando di luce riflessa il mare. Era il crepuscolo ormai e alcuni ragazzi più grandi avevano acceso un falò con dei rami portati dalla marea del mattino. Vi si erano seduti attorno e uno di loro imbracciò una chitarra e cominciò a suonare. Riconobbi le note di “Michelle” che anch’io provavo a strimpellare con scarso successo. Poi passò alla “Canzone del sole” di Lucio Battisti. La Mi Re Mi La Mi Re, accordi che conoscevo a memoria. Ci avvicinammo timidamente al gruppetto e ci fecero posto. Ci sedemmo anche noi a cantare “Il sole quando sorge sorge piano e poi la luce si diffonde tutto intorno a noi, le ombre e i fantasmi della notte sono alberi e cespugli ancora in fiore, sono gli occhi di una donna ancora pieni d’amore”.

Sembrava una scena di quei telefilm che guardavo avidamente la sera all’ora di cena: poteva essere l’Oceano Pacifico, poteva essere l’America dei surfisti. Il ragazzo alla chitarra attaccò un pezzo che non conoscevo, ma che sembrava fatto apposta per alimentare quel mio sogno: “On a dark desert highway, cool wind in my hair, warm smell of colitas, rising up through the air up ahead in the distance, I saw shimmering light, my head grew heavy and my sight grew dim”. Era una musica che mi portava là, in California, altro che il “Ma il mio pensiero invece va , ritorna sempre là al sole caldo che vorrei , che qui non verrà mai” dei Dik Dik: sapeva di Los Angeles, di San Francisco, di quei miti metropolitani che coltivavo il pomeriggio dopo avere studiato. Sapeva di autostrade - anzi di highways - e di deserti, di grandi parchi e di sequoie.

Fu così che mi innamorai degli Eagles, di quel loro rock che virava nel country, davanti ad un falò lungo il mare, mentre cadeva la sera e il vento soffiava verso la costa nuvole che sembravano fatte di cotone.

 

Falò

FOTOGRAFIA © SHUTTERSTOCK

sabato 16 gennaio 2016

Passato e futuro

 

Dag Hammarskjöld era un uomo politico svedese. Nel 1953 aveva quarantotto anni e divenne segretario generale dell’ONU. Ricoprì quella carica a lungo, fino al 18 settembre 1961, quando rimase vittima di un incidente aereo nello Zambia mentre si recava in Congo a risolvere la grave crisi politica di quel paese. Oslo, in quello stesso anno, gli assegnò il Premio Nobel per la Pace, alla memoria.

Mi ha colpito una brevissima frase tratta dal suo diario: “Al passato: grazie! Al futuro: sì!”. Pochissime parole che racchiudono tutta una filosofia di vita, a testimonianza che non servono pagine e pagine per esprimere un concetto, anzi, spesso accade proprio il contrario grazie all’incisività.

“Al passato: grazie”, ovvero non c’è necessità di crogiolarsi nel ricordo, non c’è bisogno di vivere nel passato. Guardare indietro è bello e allettante, ma deve essere solo un attestato di ciò che si è vissuto, una constatazione che ciò è stato, come una galleria di quadri che si ammirano con stupore e ammirazione, con una punta di nostalgia, ma con la consapevolezza che è qui, nel presente, che si vive, nell’hic et nunc che è la nostra vita. Oggi. Ieri non deve essere altro che un album di fotografie che andiamo sfogliando per poi riporlo al suo posto nello scaffale.

“Al futuro: sì!”, ovvero dobbiamo guardare al domani con ottimismo e con speranza. Lo so che ci lamentiamo spesso di questo mondo e del nostro futuro: l’effetto serra scioglierà i ghiacci, il petrolio finirà, il buco nell’ozono ci arrostirà tutti, la crisi economica divamperà furiosa, le banche falliranno. Non dico che è sbagliato essere attenti al mondo del domani, ma certo il catastrofismo non aiuta. Hammarskjöld ci indica la strada: pensare positivo, andare incontro con fiducia all’avvenire. Che poi ad attenderlo, nel suo futuro, ci fosse un incidente aereo, quella non è che una beffa del destino…

2010

 

Past future

IMMAGINE DAL WEB

sabato 9 gennaio 2016

Ode alla moka

 

Lo storico stabilimento Bialetti di Crusinallo di Omegna, in provincia di Vercelli, ha chiuso i battenti ormai da anni. Produceva le caffettiere per la moka, quelle che recano sull’alluminio lucido l’omino con i baffi, carissimo amico di chi si ricorda ancora i tempi di Carosello: era uno dei sodali di Miguel Son Mi e di Carmencita, di Calimero e di Joe Condor.

Il problema è che ora va di moda il caffè “come al bar”, che poi è un’emerita sciocchezza, perché se vuoi il caffè del bar è al bar che devi andare a berlo. Quello che puoi ottenere in casa con la macchinetta e le cialde è solo un’imitazione, alla quale manca comunque l’atmosfera del bar con quell’odore nell’aria di centinaia di caffè e di altre bevande, con il rumore della macchina dell’espresso e delle pagine dei giornali sfogliate, con il chiacchiericcio di sottofondo e il clangore dei cucchiaini nelle tazzine.

Ma non è questo il problema: il “caffè come al bar” continua per la sua strada con George Clooney come testimonial. Il problema è la moka. La moka è poesia e i miei amici napoletani lo possono capire più di tutti. È il rito della preparazione: l’acqua fino al limite della valvola, poi il serbatoio dove si pone la preziosa miscela macinata – e lì le varie scuole di pensiero: si pressa, non si pressa, ci si fanno dei buchini con uno stuzzicadenti. Quando la si pone sul gas comincia la poesia dell’attesa, finché non si sente il caffè gorgogliare e, mentre la moka si riempie, l’aroma si spande per la cucina, avvolge le narici con il suo profumo dorato, il colore della schiuma che si viene formando sulla superficie.

Ah, il caffè è pronto… E allora versiamolo nelle tazzine, sì, quelle di porcellana della festa, quelle con il bordino dorato, questa in fondo è un’ode alla moka. Avete messo lo zucchero direttamente nella caffettiera? Ho visto in un film di Mario Martone, “L’amore molesto”, che alcuni fanno così. No? Allora, se volete mettetecene quanto vi pare. Bevetelo anche amaro, se vi piace così, se siete dei puristi. Per me mezzo cucchiaino basta…

Moka

sabato 2 gennaio 2016

L’ultimo dell’anno del 1988

L’ultimo dell’anno 1988 mi trovavo nella Caserma Battisti di Merano: era il mio anno di servizio militare e avevo sfruttato la licenza concessa per il Natale. La maggior parte aveva preferito festeggiare il Capodanno a casa con gli amici e le fidanzate, perciò la caserma era semivuota ed ero uno dei pochi caporali a disposizione. Non avrei dovuto accollarmi servizi, visto che il mio compito era quello di curare l’ufficio della Delegazione Presidiaria: però, vista la carenza di personale, mi vidi affibbiare il turno di caporale di giornata e mi andò ancora bene, evitando così turni più pesanti come quelli delle guardie.

A mezzogiorno mi consegnarono la fascia rossa da mettere sull’omero destro e tornai in ufficio, visto che non sarei potuto uscire. Passai parte del pomeriggio a leggere "Il pendolo di Foucault" di Umberto Eco che mi avevano regalato a Natale e a pulire i locali - il mio collega telefonò da casa per farmi gli auguri, e la cosa mi fece molto piacere.

Alle cinque passai per le camerate a controllare che tutto fosse in ordine e mi sdraiai sulla rete della branda, appoggiandomi al cubo, senza disfarlo. Era ormai buio e c’era un’atmosfera particolare, forse per la festa, forse per quella situazione di essere lontano da casa a Capodanno, forse per quell’enorme insegna lampeggiante “Las Vegas” di un luna park che si vedeva lontano, dalla finestra a oriente, quella da dove un giorno sarebbe spuntata l’alba tanto attesa.

Alle sei e trenta raggiunsi il locale che ospitava la mensa provvisoria – un enorme garage in realtà, attrezzato con le cucine – e cenai con i soliti sodali, che rispettavano più la mia anzianità che il mio grado. Parlammo del più e del meno, poi passai in fureria per apporre qualche firma al registro di caporale di giornata. Il mio compito principale sarebbe stato comunque il contrappello della sera, alle 23.30. Tornai in camerata ad aspettare che giungesse l’ora. Giocammo a carte per un po’, poi Perego annunciò che se ne andava allo spaccio a comprare un panettone e un paio di bottiglie di spumante, «È l’ultimo dell’anno, cribbio!». Il tempo passava lento, il lampeggiare dell’insegna era quasi ipnotico, un po’ come la neve quando cade in larghi fiocchi.

Alle 23.30 il sottotenente che comandava in quel momento le compagnie Comando e Minuto Mantenimento, le due che erano sotto il mio controllo, arrivò, vide la mia fascia rossa al braccio e mi disse «Buon anno. Cominciamo?» Presi la lista con l’elenco dei soldati presenti e iniziammo il giro. Naturalmente anche lui notò, come me, che molte coperte nascondevano chi – stranamente – dormiva proprio la sera dell’ultimo dell’anno, alcuni avevano addirittura posto degli indumenti sui pali delle brande per “ripararsi dalla luce”. Un compagno si affrettava a dire «Presente! Dorme...» Chiaramente era qualcuno che aveva “fatto la fuga”, cioè era tornato a casa a festeggiare con gli amici e non sarebbe tornato che l’indomani sera, per il nuovo contrappello. Il sottotenente non disse niente, io non dissi niente. Avevamo poco più di vent’anni e nessuna voglia di rovinare altri ragazzi e di rovinarci la nottata di Capodanno con le scartoffie.

Finito il giro, era quasi mezzanotte ormai. L’ufficiale andò a festeggiare con i suoi colleghi nella palazzina che li ospitava, io trovai in camerata Perego che mi porgeva un fetta di panettone. Le luci erano state spente, come da regolamento, c’erano le lampade blu di guerra a diffondere il loro chiarore assurdo, che competeva con quello dell’insegna, che ora appariva più vivida. 

«-10, -9, -8, -7, -6, -5, -4, -3, -2, -1...» poi partirono a tempo i tappi delle due bottiglie di Asti spumante e ci augurammo tutti Buon Anno usando i bicchieri di carta come calici di cristallo per fare cin cin. «È l’anno che ci porterà l’alba» disse qualcuno e tutti gridammo all’unisono «All’alba!»

Il 1989 era cominciato.

 

Food and bev

FOTOGRAFIA © FOOD & BEVERAGE