sabato 29 dicembre 2018

La bella amazzone


Nell’incendio dorato del tramonto rimane una lunga scia rossastra proprio dove l’orizzonte cede il passo alle piante spoglie oltre l’Arcivescovado. È la ferita sanguinante del mio cuore colpito dalla freccia scoccata da Cupido, centrato dal dardo piumato nell’ora d’oro che spegne il giorno d’inverno a secchiate di nebbia.

In quel velo di foschia l’apparizione si è dissolta, svanita come un etereo fantasma dove le colonne intersecano la via e nuove strade e nuove vite si spalancano. Come nella poesia di Frost per una via si è dileguata la bella amazzone che mi ha colpito pochi istanti prima con la sua bellezza, volata come fumo nel nulla del dicembre milanese, mischiata ad altre donne e ad altri uomini che si muovono frenetici con borse piene di pacchetti regalo in questo giorno oramai prossimo a Natale. Frost aveva meno dilemmi: due erano le strade. Qui le mie scelte sono disparate: ricercarla verso San Babila o verso il Duomo? Pensare di ritrovarla in Via Santa Radegonda o in Via San Pietro all’Orto? Pescarla in Santa Tecla o in Via Larga? Le strade di città sono intricate come un antico bosco, i negozi sono le pareti di un complicato labirinto illuminato: la bella è ormai perduta…

Rimpiango già il suo farsetto scuro e il cappellino, le lunghe gambe inguainate, gli stivali, i capelli color rame imbrigliati in una lunga treccia. Il suo riflesso arde ancora nell’aria…


2009


Milano

FOTOGRAFIA © LUIGI PETRAZZOLI

sabato 22 dicembre 2018

Un vecchio Super 8


C’è un vecchio filmino da qualche parte in un armadio, insieme ad altre bobine infilate in una scatola da scarpe. Se ci penso, mi immagino le lingue delle pellicole che fuoriescono appena dall’involucro, la maggior parte nere, alcune mostrano delle figure più chiare, quadratini che sembrano tutti uguali ma che impercettibilmente diversi, proiettati in velocità danno il senso del movimento. In quel vecchio filmino c’è la ripresa di un Natale lontano nel tempo: sembra ieri quando ci pensi, sembra che sia stato solo l’anno scorso o due, tre, cinque anni fa. Invece è un Natale dei primissimi Anni ’70, quando si cominciava a portare i pantaloni a zampa e a indossare camicie fiorate. No, non mio padre: lui in quel filmato non c’è perché reggeva la telecamera Pathé, un aggeggio piuttosto pesante con l’oculare di gomma e il galletto stampigliato su entrambi i lati, però ricordo com’era vestito. Indossava un abito grigio con una cravatta rossa a disegni dorati, la massima concessione estetica allo spirito natalizio.

Io sono a quattro zampe sul tappeto – uno di quei tappeti pelosissimi che andavano di moda allora – sotto l’albero di Natale, e scarto i doni che nella notte mi ha portato Gesù Bambino: Babbo Natale non si era ancora materializzato, avrebbe atteso qualche anno ancora, fiondandosi sull’onda delle pubblicità della Coca Cola e sui programmi delle televisioni commerciali. Eccomi lì, a sei anni, compitare le parole su uno dei libri dell’enciclopedia che mi è stata regalata – sono i famigerati Quindici, li sfoglierò a lungo durante la mia infanzia, imparando a costruire, a sognare, a viaggiare con la mia fantasia di figlio unico. “Sa…” ma la parola è ostica, me la sono scelta proprio bella, “Sa-ara”. “Bravo, Sahara”, giunge la voce fuori campo di mio padre “è il deserto più grande del mondo”. Intanto compare la mano di mia madre, che con la scusa di mettermi a posto il ciuffo e il cravattino, invece mi accarezza dolcemente. Appare anche lei nell’inquadratura, con un vestito blu. Com’erano belli quegli anni, quando la festa ci si vestiva appunto “della festa”.

Poi c’è uno scatto avanti: sono sempre sul tappeto e sto manovrando una macchinina rossa con delle righe gialle, è una Chevrolet Daytona e funziona a batterie. Infilando una scheda perforata si muove lungo un tragitto predefinito, che è quello di un famoso circuito: Montecarlo, Indianapolis, Monza. La seguo zigzagare sul pavimento di palladiana, passare tra un vaso di fiori e la piantana di una lampada. È un Natale felice, intarsio i ricordi con vecchie fotografie di gente che ho amato e che non c’è più: mio nonno con il cappello, mia nonna con il paletot dal collo di pelliccia che mi piaceva tanto restare ad accarezzare. C’erano anche loro in quel Natale dei primi Anni ’70 a fare festa con noi.

Basta… Il tempo non è un nastro che si può riavvolgere. Questa nostalgia non solo mi bagna le palpebre di lacrime, mi sommerge come un’onda, mi strazia. Avevo idea di andare a cercare quel vecchio Super 8 e proiettarlo a Natale ma ora non se ne farà più niente. Mi siederò semplicemente a tavola con i miei, con gli zii, con i cugini e i loro bimbi. E il piccolo D. gattonerà sul tappeto rasato che usa adesso.

2011


FOTOGRAFIA © BLOGSAVENUE

sabato 24 novembre 2018

Non eri mia


Non sei mia. Non lo sarai mai. Non lo sei mai stata. Mi è solo parso per un attimo o un’estate che tu lo fossi. Ma non lo eri: tu eri semmai la scialuppa di salvataggio e io il naufrago alla deriva nell’oceano, aggrappato a te con ogni mia forza. Una nave di passaggio mi ha tratto in salvo e tu sei galleggiata via, per sempre.

Eppure in quei giorni riuscire o fallire erano così simili a vivere e morire e colpi di stiletto mi trafiggevano il cuore. Non eri mia. Non so come abbia potuto crederlo, davvero non lo so: forse ero come un’allodola accecata dallo specchietto e vi stavo precipitando contro, mi stavo sfracellando contro quel tuo amore. Qualche cosa che passava di lì mi ha distratto, mi ha salvato facendomi deviare la picchiata.

Non eri mia, eppure l’apparenza deve avermi ingannato; recitavi Prévert: “Noi ci amiamo noi viviamo, noi viviamo noi ci amiamo e non sappiamo cosa sia la vita cosa sia il giorno e non sappiamo cosa sia l’amore”, ti stringevi a me, lasciavi che le mie mani ti cingessero, ti comprendessero, ti abbracciassero tutta. Non eri mia. Uscivi dal mio abbraccio e scomparivi per giorni interi finché all’improvviso nella posta, tra comunicazioni della banca e dépliant pubblicitari, compariva la tua lettera, bianca, profumata.

Guardavo il francobollo verde, leggevo l’annullo postale per sapere dove ti trovassi, con mano incerta laceravo l’orlo superiore della busta rischiando di ferirmi con il tagliacarte per l’emozione. E leggevo la tua scrittura tondeggiante e inclinata sulla sinistra, lasciavo che il “Carissimo”, i “mio caro”, gli “amore mio” mi colassero in gola fino a strozzarmi, gioivo delle ”entusiasmanti novità”, scorrevo avidamente la lettera fino all’agognata chiusa “Incontriamoci…”

Ma non eri mia. Ci incontravamo dove proponevi tu, come sempre avevamo fatto: anche quando uscivamo nei giorni felici eri tu a guidare le danze, a dire “Andiamo in quel bar” o “Proviamo quel nuovo locale”, eri tu a scegliere le strade, le discoteche, i negozi, come una padrona di casa. E ci incontravamo, ci baciavamo, parlavamo del tempo passato da soli, dei nuovi progetti, delle complicazioni insorte, recitavi Prévert: “Amore mio noi ci amiamo noi viviamo noi viviamo noi ci amiamo e non sappiamo cosa sia la vita e non sappiamo cosa sia l’amore”.

Non eri mia. Dopo qualche tempo scomparivi e io aspettavo che ritornassi, che telefonassi, che scrivessi da chissà quale luogo. E tu ritornavi, telefonavi, scrivevi… Finché un giorno te ne andasti in modo diverso, iroso, sbattendo la porta, nera, e qualcosa dentro di me disse “Non torna, non tornerà più”.

Non eri mia. Non lo sei. Non lo sarai mai. del resto non lo sei mai stata. Mi è parso solo per un attimo o un’estate che tu lo fossi, ma non lo eri. Io però continuo a cercare nella posta una tua lettera con il francobollo verde, un verde più intenso, un verde quasi blu, perché da allora sono cambiate anche le tariffe postali.

1992


Vettriano

JACK VETTRIANO, “PENSANDO A TE”



sabato 17 novembre 2018

Al binario 14


Hanno annunciato il ritardo del treno, la voce metallica uscita dalle conchiglie degli altoparlanti ha sancito che “il Regionale 7027 delle ore 16 e 40 per Lecco, Sondrio e Tirano partirà con quaranta minuta circa di ritardo”. E questo contrattempo sparge altro sale sulle nostre ferite, ci congela in questo nuovo tempo che dovremo passare insieme. Ci siamo incontrati per caso entrando dalle vetrate della stazione di Porta Garibaldi, dove si riflettono i grattacieli del centro direzionale: io quei riflessi guardavo, lei portava a spasso la sua solita distrazione, per poco non ci siamo scontrati. “Ciao, Chiara”, “Ciao, Andrea”. Un po’ freddi, e non perché sia novembre e un vento gelido e tagliente sceso dalle Alpi ha invaso la città. Freddi per un indecifrato e non risolto problema tra noi, per un malessere che ha avvelenato il nostro rapporto, che ha inquinato l’amore e lo ha sospeso. Una settimana già che non ci vedevamo e non ci telefonavamo. Neanche un SMS.

Sediamo sul basso bordo dell’aiuola, nella penombra. Sul tabellone i caratteri luminosi ogni tanto danzano e si cancellano: un treno parte, un altro arriva, un altro ancora accumula ritardo. Ma non riusciamo ad estirpare questo nero che ci divora, a buttare sul tavolo la questione. Non sappiamo se potremo rianimare questo amore, se dovremo sopprimerlo. Non sappiamo neppure se la nostra amicizia potrà sopravvivere, in tal caso. Restiamo inerti in questo languore, nell’indolente noia dei minuti che scorrono. Ne mancano almeno trenta alla partenza del treno, non l’hanno neppure ancora portato al binario. Fa freddo adesso, il gelo che ci portiamo dietro si è alleato con quello dell’atmosfera. Ha cominciato a piovere, il vento taglia come una lama. “Andiamo a prendere un caffè al bar?” Annuisce, la aiuto ad alzarsi.

Il bar è caldo, c’è odore di panini alla piastra. Ci facciamo preparare due caffè e li portiamo a un tavolino. Fuori i viaggiatori arrivano alla stazione o la lasciano per imboccare la linea verde della metropolitana o i corridoi che portano in Corso Como, i taxi bianchi partono in continuazione. Anche la luce è fredda, i neon danno un aspetto asettico a questo locale. Ma il discorso non decolla. Chiara continua a guardarmi di sfuggita, cerca qualcosa nella borsa. Fruga e ne tira fuori la trousse del trucco, si ritocca gli occhi, le labbra. Mi sento afflosciato, come un burattino dopo lo spettacolo. Vorrei gridare: “Allora, questo amore è finito? Dimmelo!”. Qui, in mezzo alla gente, le cameriere con il cappellino, i professionisti con le ventiquattro ore, gli studenti con gli zainetti, i senegalesi seduti in un angolo. Non è nel mio stile. Non voglio umiliare né me né lei. Annunciano che il treno è in arrivo al binario 14. “Andiamo” le dico e le mie parole escono sfiduciate, vuote appunto. Scende già il buio, me ne rendo conto quando sbuchiamo dalla scalinata del sottopassaggio. Spiccano le oasi dei “Self bar” pieni di bibite e di merendine.

Il regionale sta arrivando: i suoi occhi bianchi sbucano dalla pioggia, diventano via via più grandi. Quando si ferma, lasciamo sfogare la folla poi saliamo anche noi, troviamo un posto nella vettura di testa. Non è più il momento, non è il posto. Prendo dalla mia cartella il giornale, Chiara si mette le cuffiette bianche dell’iPod nelle orecchie. Il treno parte, emette un fischio prima di infilare la lunga galleria. Tra di noi solo silenzio, un acuto, appuntito silenzio che ci strazia il cuore come un punteruolo da ghiaccio.

2010


FOTOGRAFIA © STANLEY KUBRICK

sabato 10 novembre 2018

Sabato sera


a Silvio Miglio

Che cos’è questo cielo prigioniero dei monti? Dov’è la libertà se non nella pianura sconfinata? Ma qui vedo sempre quei monti, di sera come sabbia nel tramonto, con la luna ritagliati in cartoncino nero e opaco e poi di giorno ancora lì come una lenta asfissia. E invece io avrei bisogno di spaziare con lo sguardo sull’immensità del mare.

Il treno dal Nord porta le turiste tedesche, scendono schiamazzanti tra le valigie e i lampi di una macchina per fototessere. Nella mia mente un amore perduto o forse mai nato, abortito una sera di luglio quando non trovai il coraggio di baciarla...

Ma cos’è quest’ansia che mi prende come un granchio? Sarà la consapevolezza che la gioventù svanisce sempre un po’ ogni giorno, sarà la nostalgia, il rimpianto per ciò che non è stato?

Ci sono dei sapori che noi che ci troviamo in questa situazione non sentiamo più. Non sono i sapori che possiamo percepire attraverso il gusto ma dei sapori del tutto particolari che forse nessun senso o forse l'insieme di tutti i cinque sensi ci può fornire. Come il sapore del sabato sera uscito dall'immagine di un attimo rubata passando davanti a un supermercato: la gente che si affolla alle casse, riempie carrelli, accatasta sacchetti di plastica; e gli scaffali pieni di scatole e barattoli colorati, il gusto della festa che sta arrivando e si prepara tutto per bene perché la domenica sia felice...

Amico mio, scusami se ti assillo con i miei guai: divertiamoci oggi che è sabato, ceniamo e poi cerchiamo compagnia. E allora crauti rossi cotti nel burro e canederli da intingere nel gulasch; davanti la caraffa di birra e la valle dove ad una ad una si accendono le luci. E con le luci si accendono le stelle e i ricordi. Strüdel al papavero con crema di mirtilli e poi una grappa di pere.

E lungo il fiume donne in passerella per noi nella sfilata d’autunno che è la passeggiata serale: bionde, brune, rosse, minigonne, calze nere, jeans, baschi, abiti attillati... Al solito caffè la cameriera ci strizza l’occhio e ci fermiamo a discutere con lei su che differenza passi tra amore e sesso e intanto il fiume corre via insieme al tempo.

Una gran voglia d’amore mi prende il cuore adesso che vedo le coppie per strada camminare abbracciate e poi infilarsi qui nel bar, davanti a noi, sedersi a parlare davanti a un cappuccino.

E ancora l’angoscia mi pesa nel cuore, forse è una briciola di solitudine in cui mi immergo come si immerge un oggetto nel mercurio, che poi lo togli ed è asciutto, impermeabile a questa solitudine, se poi mi basta un amico per ritrovare il sorriso, amico mio come forse non ne ho avuti mai.

1988


sabato 3 novembre 2018

Una notte


Stava scendendo la notte, cupa e rumorosa. Le luci del lungomare si mischiavano ai riflessi argentati delle onde, il libeccio li faceva tremolare sconvolgendo le foglie degli eucalipti. Il mare era agitato, si muoveva come un’anima inquieta gemendo e ululando sotto un cielo tagliato in due da una mezzaluna affilata.

Era già buio nella stanza, ma non ci alzammo ad accendere la luce, a illuminare un abat-jour che spandesse la sua velatura soffusa tutto intorno. Restammo lì nella penombra, seduti vicini sul divano di pelle a confessarci, a tormentarci. Con le dita lei torturava gli anelli, li rigirava con un lavorio continuo. Io portavo le mani al viso o le lasciavo vagare intorno alle ginocchia. I nostri racconti si nutrivano di quel dire e sottacere, ma lentamente avevamo costruito qualcosa giorno dopo giorno, mattone su mattone. Quando mi sembrò di intuire che una nota di pianto fosse nella sua voce, che la incrinasse improvvisa come una crepa che si apre nel ghiaccio, mi resi conto subito di ingannarmi: fu una parola a incendiare l’ombra, a spalancare orizzonti che non avevo calcolato, a invadere i campi dei miei pensieri come un esercito veloce e bene armato. “Noi”. Era un discorso lungo e articolato quello che lei faceva in quel momento, forse mi ero distratto. “Noi”, la mente registrò, si riavvolse un attimo, recuperò dall’udito l’ultima frase. “Ora possiamo considerarci noi”. Un dato di fatto, una cellula, una coppia. Uno più uno.

La mia malinconia agitava già bandiere bianche, cedeva senza combattere, si inteneriva. Noi. Cioè noi due. Mi si gettò al collo, mi baciò. Presi a spogliarla con foga, a sentire la sua pelle sotto le mie dita, ad accarezzare quel corpo che profumava di agrumi. Sentivo il mare incattivito mescolarsi ai nostri respiri accelerati. Sentivo le sue mani sulla schiena, la punta delle unghie. Ero dentro di lei adesso, muovevo rapido sulle sue anche e mi chiedevo se fosse gioia o dolore, se fossi caduto in un inferno o in un nuovo paradiso.


Lovers

FOTOGRAFIA DA TUMBLR


sabato 27 ottobre 2018

Lo scenario


La finestra di questa stanza dove amo scrivere mostra una casa bassa, a un solo piano, immersa nel verde di pini, magnolie e palme. Dietro si stagliano alti pioppi su uno sfondo di cielo. Oggi è azzurro e piccole nuvole bianche galleggiano all'orizzonte. Amo dipingere questo scenario, sempre lo stesso, ma sempre diverso nel corso dei giorni e delle stagioni. L'acquerello ne cattura l'essenza, i colori d'autunno, la neve, il rifiorire di primavera, il rigoglio dell'estate. Ne coglie albe e tramonti e pomeriggi assolati e mattini dorati.

Adesso, per la combinazione della luce, nel vetro della finestra vedo riflesso il mio viso. Sono invecchiato. Non sono più il ragazzo che ero, se mi volto indietro capisco che il tempo è passato: credo di scorgere lei, che come un magnete mi attirava a sé con la sua dolcezza, e invece non è che un punto sempre più lontano sullo scorrere degli anni.

Eppure è solo ieri che rimanemmo a scandire le ore della notte attendendo che i fuochi d'artificio riempissero il cielo di fiori colorati, che le nostre bocche si unissero in un primo bacio. La sua presenza al mio fianco era nuova, il suo vestito a fiori tra le luci delle vetrine e i tavolini dei bar all'aperto era un orgoglio che mi riempiva il cuore, camminare al suo fianco, tenerla per mano, abbracciarla su una panchina. È solo ieri che ci giurammo amore scavalcando le transenne della spiaggia e la nostra gioventù. Solo ieri che ci dicemmo "Il futuro non conta, staremo insieme".

Ma il futuro, ahimè, contava: il tempo scivolò leggero sotto i ponti e lei veniva nei miei sogni a tentarmi con il suo ricordo: ripeteva discorsi, ne faceva di nuovi, si spogliava e sorrideva, lasciava che mi commuovessi, che mi svegliassi attonito per quel vetro spesso che rimaneva tra noi due, per quel silenzio che regnava nella stanza, per quel letto vuoto dove dormivo solo.

Una bava di vento scuote appena i pioppi, accarezza le foglie della magnolia che risplendono lucide al sole d'estate. Le finestre della casa di fronte riflettono il piccolo cortile lastricato, una tenda si muove nella brezza. Adesso lei come si comporterà, mi chiedo. Di lei che sarà stato? Chissà se ride e scherza, se ha trovato un nuovo compagno di vita, se dei figli hanno rallegrato la sua vita. Avrà assaporato mai quella felicità intensa che provammo in quei giorni? E io? Io continuo a praticare il mio gioco: come Gozzano, rimpiango la vita che poteva essere e non è...

2010


Tramonto

FOTOGRAFIA © DR

sabato 20 ottobre 2018

Il vecchio e i cachi


Il vecchio avrà novant'anni. Ha una testolina avvolta da una corona di capelli candidi che lo fanno somigliare a un pulcino spiumato, una barba sfatta e un corpo esile e impacciato che riveste di abiti che hanno visto, come il proprietario, tempi migliori. I calzoni sono oramai sbiaditi, il loro verde s'è fatto colore da camice ospedaliero; il maglione a rombi è un residuato degli Anni '70 e le tarme, anno dopo anno, vi banchettano alacremente.

È qualche giorno che lo osservo: si avvicina furtivo, ma in realtà deve essere la sua andatura naturale, fatta di passettini malfermi, e si apposta sotto il grande albero di cachi vicino alla strada. Il giardino appartiene a una casa rimasta disabitata dopo la scomparsa dei suoi abitanti; di tanto in tanto viene un figlio o una nuora a dare aria alle stanze.

Ma conosce gli orari, il vecchio... È lì sotto la pianta e rimane fermo come se osservasse il traffico per passare il tempo. Quando all'improvviso si fa il vuoto nella strada, allora con fatica si alza sulle gambette doloranti e appesantite e con un enorme sforzo si aggrappa ai rami più bassi, li tira a sé come una pingue rete da pesca, e dopo qualche tentativo riesce ad appropriarsi di uno o due di quei frutti arancioni, ancora acerbi. Li soppesa, li posa un attimo soltanto sul muretto, li ripulisce dalle foglie che sono rimaste attaccate al picciolo e si incammina lento con il suo tesoro in una mano.

Giorno dopo giorno, dopo giorno, per tutto il tempo di maturazione dei cachi. Oggi ha dovuto faticare più del solito: i rami bassi li ha ormai spogliati e ne ha dovuto attaccare uno più in alto. Però è stato fortunato: i frutti erano tutti uniti e formavano un bel gruppetto, ne ha portati via quattro. Se n'è andato zampettando come al solito, ma la sua andatura aveva un non so che di gioioso grazie a quel bottino insperato. Me lo sono immaginato tornare a casa dalla moglie, una vecchierella altrettanto esile e malmessa, come un criceto con le sue provviste per l'inverno. Quei quattro cachi acerbi e duri, che dovrà aspettare maturino per poterli mangiare e che, se avesse chiesto ai figli dei proprietari della casa, avrebbe avuto in abbondanza e senza fatica: anche quest'anno li lasceranno marcire sull'albero ormai spoglio, preda dei merli e degli stornelli... Come in una favola di Esopo...


Cachi

FOTOGRAFIA © YUKLE


sabato 13 ottobre 2018

La villa


Ora che lentamente gli alberi si spogliano disegnando tappeti dorati sul terreno, dalle finestre di casa esposte a meridione posso scorgere l'altana di una villa signorile costruita agli inizi del Novecento o forse sul finire del secolo prima: i decori in stile liberty ne sono testimonianza.

È un'apparizione che ogni autunno mi sorprende, per poi svanire nel rigoglio di aprile, quando le foglie ornano tigli, carpini e noccioli formando una coltre verde che fa piombare nel dimenticatoio la villa. Se mi ricordo della sua esistenza, è quando vi passo davanti sulla stradina ombrosa e fresca e ne intravedo i vecchi muri oltre la cancellata arrugginita e il lungo viale immerso nel folto giardino quasi come una cicatrice tra le piante.

Guardo quella grande casa in queste giornate d'autunno e ricordo un'altra villa signorile dove andavo a ripetizione di greco dalla giovane figlia di un medico che era stato un elemento locale di spicco del regime fascista. Mi ero sempre meravigliato di quanto giovane fosse la figlia e quanto anziano il padre: allora lei non era neppure trentenne, il genitore era sull'ottantina.

Arrivavo con la mia bicicletta, suonavo con timore al campanello e aspettavo che mi aprissero il largo cancello, poi entravo nel piccolo giardino all'italiana, sempre ben curato: in attesa che la ragazza scendesse mi sedevo su una panchina di granito consunta dal tempo e annerita dai muschi e dai licheni, osservavo le siepi di martellina e gli altissimi pini, le magnolie che profumavano con i loro fiori bianchi e carnosi quell'ombra che sapeva di muffa.

Mi sentivo catapultato in una poesia di Gozzano: quel posto poteva essere Villa Amarena, dove la Signorina Felicita conduceva la sua esistenza nel sogno di un'attesa vana o la romantica scena dove Carlotta e Speranza a metà Ottocento parlavano rapite dei loro amori. Poteva essere la casa dove Totò Merumeni si chiudeva a lasciarsi vivere, a meditare sull'arte e a scrivere poesie...

Poi la ragazza che mi doveva dare lezioni di greco arrivava con la sua gonna svolazzante o con un vestito estivo a fiori e mi conduceva nel regno segreto, in quelle stanze che odoravano sorprendentemente di cera e di lavanda, ci accomodavamo al grande tavolo dello studio e iniziavamo a tradurre in quella lingua ostica e affascinante, soffermandoci a valutare un aoristo o un ottativo.

Adesso guardo quell'altra villa dalla finestra, una tazza di caffè nella mano e tutti i miei ricordi aggrovigliati nel cuore. Cerco di rammentare il nome di quella ragazza, ma ne rivedo solo le fattezze, il viso bello e rotondo; ne risento la voce correggermi con dolcezza, salutarmi quando inforcavo la bicicletta per ritornare a casa. Mi sento come un altro personaggio di Gozzano, il sopravvissuto che "fissa a lungo la fotografia / di quel sé stesso già così lontano: / «Sì, mi ricordo... Frivolo... mondano... / vent'anni appena... Che malinconia!...»


Sargent

JOHN SINGER SARGENT, “VILLA DI MARLIA, LUCCA”



sabato 6 ottobre 2018

L’appuntamento


Dovrei già essere a Como adesso, incontrarti... Dovrei scambiare parole con te e raccontare di tutti questi anni trascorsi, dirti dove sono stato e cosa ho fatto e con chi. E tu dovresti fare altrettanto, condensare i giorni e i mesi in una sorta di curriculum. È così che fanno due che si ritrovano dopo tanto. È così che dovremmo fare noi, che abbiamo riallacciato il filo reciso grazie a un brevissimo scambio di e-mail.

Dovrei essere lì con te a seguire il riflesso ipnotico delle luci dell'imbarcadero, a lasciarmi spettinare dal vento che soffia sulla diga foranea guardando il cielo grigio rispecchiarsi nell'acqua del lago e agitarsi come mercurio dentro una bottiglia chiara. Dovrei essere lì, seduto su una panchina del lungolario o ai tavolini di un bar tra il viavai dei turisti e i pendolari che vanno verso la stazione.

Invece sto guidando sulla vecchia statale, senza fretta, senza preoccuparmi dei camion che mi avanzano lentamente davanti. Cerco pretesti alla mia fuga, cerco appigli che mi facciano desistere, che mi convincano a trovare uno spiazzo per invertire il senso di marcia e tornare a casa. Cerco una via d'uscita che mi consenta di non scoprirti diversa dal ricordo: mi dico che non potrei sopportare di vedere una ruga sul tuo viso. Temo il momento in cui mi si parerà davanti la città, distesa come un dépliant pubblicitario mentre il sole faticosamente disperde le nuvole e disegna riflessi tra i battelli alla fonda.

Guido e penso alle parole da dirti, mi preparo discorsi che immancabilmente so già si scioglieranno come neve al sole nella memoria non appena dovessi provare a pronunciarne uno. Mi guardo attorno, come se quelle parole le potessi trovare nel cruscotto e senza accorgermi ecco che la città si rovescia sul suo letto di colline, eccomi che parcheggio e cammino a piedi verso Piazza Cavour. Ora il filo dei pensieri si è spezzato: sorridi bellissima e mi saluti dal tavolino di un bar della piazza. È troppo tardi per fuggire: corro a baciarti sulle guance senza neanche scusarmi del ritardo.


FOTOGRAFIA © DREWAN1972

sabato 22 settembre 2018

Un pittore paesaggista


Come si comporta un pittore paesaggista che si appresta a dipingere una sua nuova opera? Innanzi tutto, sceglie un’immagine da ritrarre: può essere stata un’ispirazione improvvisa a convincerlo del soggetto, oppure vi ha meditato a lungo; o ancora è stato il caso a portarlo là dove il paesaggio, per la sua bellezza o per una particolarità, lo ha colpito tanto da fargli balenare l’idea di un nuovo quadro.

Comunque, ora ha il suo tema. Ne schizza su un foglio il disegno oppure scatta una fotografia, ma questo secondo caso implica un passaggio tecnologico che snatura la totalità della sua opera e la rende un’imitazione anziché un’interpretazione. Ecco ora il pittore davanti alla tela bianca, vergine, posta su un cavalletto. Impugna un carboncino e riporta il disegno che ha schizzato sulla carta. Qua e là aggiunge o toglie qualcosa, a seconda di come la memoria gli suggerisce; magari ogni tanto chiude gli occhi per rivedere il paesaggio nella sua mente.

Adesso è il momento di prendere la tavolozza e i pennelli: inizia a stendere i colori dello sfondo, l’azzurro del cielo, il verde dei prati in primo piano, il grigio-viola delle montagne. È probabilmente la parte più noiosa del lavoro, questa preparazione, ma già sulla tela comincia ad apparire l’anima del paesaggio. Il bello viene dopo, quando passa a pennelli più fini e delinea figure che daranno spessore al quadro: un mazzo di stelle alpine, uno steccato, due mucche che pascolano, un gruppo di larici. A questo punto passa a pennelli ancora più piccoli e dipinge i particolari più minuti: il ricamo sulla fascia di cuoio dei campanacci delle mucche, le pigne delle conifere, i semi delle stelle alpine, il movimento di una cascatella là sullo sfondo, le vene del legno dello steccato, un nevaio sulla montagna più lontana, un rifugio seminascosto, ciuffi d’erba...

Quando scrivo un racconto, spesso mi comporto come quel pittore paesaggista: può essere un’ispirazione improvvisa a colpirmi, come una notizia letta sul giornale o un ricordo uscito dal dimenticatoio o da un discorso tra amici, un brano letto in qualche libro. Oppure mi lambicco il cervello cercando qualcosa che si possa raccontare, ripasso gli avvenimenti di cui sono stato protagonista negli ultimi tempi o ancora risalgo a periodi più lontani, ad amici e personaggi che ho conosciuto, a eventi cui ho assistito. O ancora fantastico, mi avventuro nei territori dell’assurdo, immagino che il tempo sia passato in modo diverso o non sia passato o ancora trasporto fatti di adesso nel passato o nel futuro, tenendo sempre uno sguardo su Buzzati, il mio autore di racconti preferito.

Viene il momento di effettuare lo schizzo: non disegno, scrivo. E generalmente scrivo una poesia in endecasillabi, da usare come traccia; più raramente stilo un piccolo schema a punti su quello che nel racconto deve accadere. A questo punto il pittore riporta lo schizzo sulla tela. Io accendo il computer, apro un programma di scrittura e inizio a infilare parole – un tempo prendevo un foglio bianco, una penna e cominciavo a lasciare tracce d’inchiostro sotto forma di frasi. In questo caso avrei probabilmente scritto: “Come si comporta un pittore paesaggista che si appresta a dipingere una sua nuova opera?”. Sembra facile, ma comporre l’incipit richiede tempo: è una delle parti più importanti, soprattutto in un racconto breve, è la chiave con cui si entra leggendo o il biglietto da visita che chi scrive porge a chi si troverà a leggere. E questa è una differenza tra il narratore e il pittore.

Poi il lavoro procede però parallelo: se là si prepara lo sfondo, qua si scrive tutto il racconto. Se là si passa alle figure, qua si rilegge e si introducono frasi e paragrafi interi. Quando il pittore passa a rifinire, dipingendo i dettagli, il narratore fa altrettanto limando e correggendo, cambiando un aggettivo, scegliendo un diverso sostantivo. Quando l’ultima pennellata e l’ultimo punto sono posti all’opera, pittore e narratore osservano soddisfatti quanto hanno prodotto.


FOTOGRAFIA © MORIZA

sabato 15 settembre 2018

Primo giorno di scuola


È il primo giorno di scuola in molte regioni. Ricordo il mio primo giorno al liceo classico, o meglio al ginnasio: era il venti settembre del 1978. “Sei vecchio! Sei vecchio!” sento voci alzarsi da chi sta leggendo questo mio scritto. Non sono vecchio... era un’altra epoca. Infatti quello era il primo anno in cui le scuole cominciavano a settembre: le lezioni prima di allora iniziavano invariabilmente per tutti il primo giorno di ottobre. E non era quella l’unica differenza: per esempio, non c’erano i cellulari né Internet (“E come facevi a copiare durante i compiti in classe?” la solita vocina chiede; non ti preoccupare, c’erano mezzi molto efficienti e più difficili da scoprire, tipo scrivere in miniatura tutte le regole grammaticali greche in parti nascoste del vocabolario, e il Liddell-Scott aveva una magnifica appendice sui nomi geografici che sembrava fatta proprio apposta). Poi la televisione: trasmetteva a colori regolarmente da un anno o poco più e c’erano solo pochi canali, i due della RAI, la Svizzera, Capodistria, Telemontecarlo, qualche tivù privata agli albori. E non c’erano i videogiochi (“Oddio, e come passavate il tempo?”, passava, passava, te lo assicuro... e meglio di adesso: libri, amici, passeggiate, partite a pallone, a tennis, le ragazze...)

Comunque, è il mio primo giorno alle superiori, il 20 settembre 1978: prendo il treno e raggiungo Bergamo, a piedi risalgo dalla stazione verso l’istituto, un po’ intimorito dall’essere per la prima volta solo in città, ma anche imbaldanzito per esserlo. Arrivo all’ingresso, dove già ci sono decine e decine di studenti. Indosso un paio di jeans e una camicia bianca, sopra ho un gilè verde scuro lavorato a maglia (non fare quella faccia: stavano quasi finendo, ma erano pur sempre gli Anni ’70). Ho una borsa anch’essa verde scuro di velluto a costine. Una borsa, sì: la moda degli zaini che uniforma ormai tutti gli studenti allora non c’era e ognuno aveva qualche cosa di originale: chi la borsa, chi la tracolla militare, i ragazzi di II e III liceo classico, già maggiorenni o quasi, osavano addirittura delle ventiquattro ore. Molti avevano la borsa che regalavano i negozi di articoli sportivi: praticamente un cubo di tela plastificata con le maniglie. Goggi Sport, essendo a Bergamo, andava per la maggiore. Quel primo giorno però non c’erano ancora libri a gonfiarla: solo qualche quaderno e un diario. Avviso ai naviganti del nuovo millennio: la Smemoranda non esisteva, c’era un normale diario, oppure qualcosa con i fumetti. Non ricordo bene come fosse, è andato perso nel corso degli anni; so che la scuola ci fornì di un piccolo libretto con tanto spazio vuoto e qualche pensiero: comunque, pochissimi lo usavano, preferendo diversificarsi e non appartenere alla massa – tutto il contrario di adesso, lo so.

Dunque, entrai nell’istituto, chiesi al bidello – un omone quasi obeso e dall’aspetto buono come il pane – dove potessi trovare la quarta ginnasio e lui mi indirizzò al secondo piano. Salii le scale con la sensazione timorosa e curiosa che prova Alice nel Paese delle Meraviglie. In cima alle scale, sulla destra, si apriva un’aula: sul cartellino c’era scritto “Classe IV Ginnasio”. La mia. Avrei scoperto dopo l’intelligenza della disposizione: le aule erano disposte in ordine crescente, solo i bagni intervallavano la I e la II liceo classico. Nello stesso atrio c’erano anche un paio di classi dello scientifico. La porta, una spessa lastra di vetro o simile materiale satinato, era aperta: entrai e potei fare conoscenza con i miei primi compagni di classe. Mi sedetti in silenzio in un banco vuoto; dall’ampia vetrata si vedevano i tetti della città, qualche campanile svettava. Rimasi a guardare fuori finché non arrivò un ragazzo a sedersi nel posto vuoto accanto al mio. “Francesco” si presentò. “Daniele”, risposi. “Di dove sei, da dove vieni” e suonò subito la campanella. Arrivò la professoressa di Lettere, una signora ormai sul limite della pensione – era il suo ultimo anno, infatti – precisa identica a una zia di mia madre. Si sedette, ci salutò, disse qualcosa a proposito del nuovo corso che avrebbero preso le nostre vite e cominciò un lungo appello. Fu così che venni a sapere i nomi dei miei compagni: molti di loro avrebbero condiviso cinque anni della mia vita, altri si sarebbero persi per strada già nei primi giorni e nei miei primi mesi, anche Francesco, che fu costretto a trasferirsi a Torino per impegni di lavoro del padre. E Luca, che era da solo nel banco dietro di noi, scalò avanti. Non ci saremmo più separati fino alla maturità, condividendo compiti, appunti, penne, discutendo dei nostri affari, delle nostre ragazze, aiutandoci durante i compiti in classe, che a Bergamo si chiamavano, chissà perché, “esperimenti”.

Questo dunque fu il primo giorno al ginnasio, senza conoscere nessuno, in una città che è sì la mia, ma che non conoscevo allora così bene. Quando, a mezzogiorno e mezzo, salii sul treno che mi avrebbe condotto a casa, avevo gli orari delle lezioni dell’indomani e una litania che già mi ronzava in testa: rosa, rosae, rosae, rosam, rosa, rosa... rosae, rosarum, rosis, rosas, rosae, rosis...


Scuola

FOTOGRAFIA © L’ECO DI BERGAMO



sabato 8 settembre 2018

Osteria “Il Bocconcino”


Nel taschino della camicia c’è qualcosa che mi da fastidio: lo tolgo, un pezzettino di carta deteriorato dal lavaggio. Riesco a ricostruirlo, a leggerne la scritta, per quando sbiadita e gualcita: “Osteria Il Bocconcino”. E i ricordi iniziano a sgorgare come acqua da una fonte di montagna. Roma. Un caldo lunedì di maggio, la camicia a maniche lunghe proteggeva la mia pelle sensibile scottata dalla permanenza al sole il giorno prima sulla spiaggia di Latina. Fuori, a duecento metri, il Colosseo…

Un localino raccolto con tavoli all’aperto oltre i vasi con i pitosfori. Una tipica osteria romana, con le tovaglie a quadri e luci soffuse. Fuori, oltre la porta aperta, la gente che passava per Via Ostilia nel chiarore della primavera romana. Nella tranquillità del ristorante il primo pomeriggio passava languido e indolente con il trascorrere delle portate: l’antipasto di salumi, corallina, bruschette di coratella, poi i tagliolini con verdure e pecorino, l’arista con prugne, l’agnello con scarola e uvetta. La ragazza dietro il banco portava la sua eleganza di gazzella qua e là per la sala.

Dopo il caffè, il sole caldo della Capitale, la luce viva e abbagliante che accompagnava il traffico nella strada che corre intorno al Colosseo. Passeggiare lentamente per Via Capo d’Africa e poi per Via dei Santissimi Quattro verso San Giovanni in Laterano fu un’impagabile emozione. Come se nell’aria risuonassero “I pini di Roma” di Respighi… Le pietre stesse parlavano della grandezza della città, raccontavano aneddoti di condottieri antichi e di gente qualunque, il vetturino, il tassinaro, Commodo e Nerone.

Quel bigliettino da visita lacero e consunto è stato la chiave che ha aperto un mondo di ricordi…


sabato 25 agosto 2018

Al mare, quando piove


La mattina mi svegliai avvolto nel grigiore. Ci volle qualche istante in più per capacitarmi, per ricordarmi che mi trovavo in una camera d’hotel. Nuvoloni minacciosi arrivavano da nord-ovest, presto si sarebbe scatenato il fortunale. Scendendo per la colazione incrociai Claudia. Da qualche giorno avevamo legato: in spiaggia eravamo vicini di ombrellone e in breve avevamo realizzato una larga “casa comune” per i nostri due lettini. Quella mattina però il litorale sarebbe certo rimasto deserto.

Claudia, tra un morso e l’altro del suo croissant, chiese: “Oggi che si fa, con questo tempo?”. Giocare a scala 40? Risolvere parole crociate? Chiudersi in camera a guardare il soffitto? “Io una mezza idea ce l’avrei...”

Prese la sua borsa e partimmo. La temperatura si era notevolmente abbassata ed era piacevole viaggiare. Ci immettemmo sull’A4 e in un’ora fummo a Venezia. Lasciammo l’auto al parcheggio di Fusina, l’unico indicato libero dai semafori sul cavalcavia dell’auto­strada, e in vaporetto raggiungemmo San Marco attraverso il Canale della Giudecca. Claudia era stupita nel vedere le navi ormeggiate, così grandi sopra di noi. Sentivo come un groppo in gola. Non tornavo a Venezia da allora, da quel luglio di tre anni prima che aveva segnato una svolta nella mia vita. Lei se ne accorse, forse c’era anche una lacrima nei miei occhi. “Qualche cosa non va” disse con voce infinitamente dolce. Non era una domanda, ma una constatazione che Claudia faceva con femminile intuito. Fu una liberazione per me raccontare a qualcuno - ed era la prima volta che lo facevo - quella storia che mi aveva lasciato l’amaro nel cuore per molto tempo.

Dissi tutto di Bibiana, delle sue dita da pianista che mi avevano stregato, dei suoi modi gentili, della sua dolcezza. “Sì, ti assomigliava, c’eravamo incontrati in un caffè, la sera facevamo lunghe passeggiate in centro, a vedere i negozi. Fu il classico colpo di fulmine. I giorni con lei passarono in fretta poi ci dovemmo separare: i miei impegni e i suoi esigevano strade diverse. Il giorno dell’addio era un mattino nuvoloso come questo. Non facevo altro che piangere e pensare a lei. Il giorno dopo ero a Venezia per presentare una mia mostra: nascosto dietro un paio di occhiali a specchio, vagavo per le calli in cerca di serenità. Le cupole, i monumenti, il sole, rimarginarono la ferita solo superficialmente. Poteva forse sembrare che io fossi allegro ma dentro morivo in continuazione. Solo il tempo a fatica è riuscito a guarirmi ma ora sento che il male è ancora nel mio cuore e cerco qualcuno che lo possa definitivamente estirpare...” Avevo parlato e mi sentivo molto meglio. “Marco, lei deve aver contato molto per te, vero?” commentò Claudia. La vedevo stranamente indecisa, combattuta, come se fosse preda di un’inquietudine.

Il vaporetto attraccò in Piazza San Marco. Turisti giapponesi fotografa­vano la basilica e il Palazzo Ducale. Vidi una smorfia sul viso di Claudia tramutarsi in un sorriso e cominciò a parlare: “Devo dire che anche tu conti molto per me. Sai, sono partita per sfuggire ai miei problemi. Oh, non è che siano problemi molto gravi. Volevo solo vedere se è questa la mia dimensione, valutare l’amore, il senso della vita. I primi giorni mi chiedevo cosa fossi venuta a fare in quel posto, non sapevo cosa fare, cosa dire... poi ho conosciuto te e sono riuscita a tornare serena. Sì, avevo paura di cadere in un altro amore senza senso, tanto per dire che sei innamorata e invece ho trovato un vero amico”. Mi abbracciava e piangeva lacrime di gioia. “Su, non piangere. Se piangi quando sei felice, cosa farai quando le cose non ti andranno bene?”

Pranzammo in una pizzeria nella Salizzada San Lio e ci incamminammo verso Rialto. Si stringeva a me, io avevo il braccio sulle sue spalle, sembravamo due innamorati. Glielo dissi. La sua risposta fu un bacio da innamorata. Sul ponte di Rialto una ragazza suonava la chitarra seduta sul suo sacco a pelo e un capannello di turisti la stava ad ascoltare. Di tanto in tanto qualcuno andava via, qualcun altro arrivava. Seduti sulla spalletta del ponte ci tenevamo per mano. Era tornato il sole e i vaporetti lasciavano scie d’oro sulla laguna. La ragazza cantava “… e tu che con gli occhi di un altro colore mi dici le stesse parole d'amore fra un mese fra un anno scordate le avrai, amore che vieni da me fuggirai, fra un mese fra un anno scordate le avrai, amore che vieni da me fuggirai…”

* * * * * * *

Cose che capitano al mare quando piove. Io invece mi chiudo in camera a immaginare storie e scrivo racconti…


2010


Green

STEFF GREEN, “HONEYMOON IN VENICE”




sabato 18 agosto 2018

Un cuore di panna


Mangio un “cuore di panna” per ritrovare il gusto della mia gioventù. Come il sapore della madeleinette intinta nel tè rammenta a Marcel Proust i giorni dell’infanzia trascorsi nella casa di Combray. È un periodo più avanzato quello che io vado cercando, quello dell’adolescenza: i giorni del liceo, della compagnia del treno, i pomeriggi passati a studiare, a scrivere poesie o su un campo da tennis. Gli amici del mare, i lunghi pomeriggi di spiaggia a giocare a bocce e a pallavolo, a nuotare, a passeggiare sul bagnasciuga. Alla fine qualcuno diceva: “Andiamo al bar”. Era già la bella stagione e prendevo un “cuore di panna”. Forse inconsciamente speravo di vivere una storia romantica come quella che mostrava la pubblicità del cornetto Algida: baci, tenerezze, amore e mare.

Così, dopo aver mangiato la granella e lo sciroppo di cioccolato, ecco che morso dopo morso la panna viene a contatto con le papille e il ricordo prorompe: la stanza, i mobili scompaiono e d’improvviso mi trovo fuori da quel campo da tennis, con la racchetta e la borsa, appoggiato alla Vespa di Danny con il cornetto e uno sguardo attento alle ragazze che pattinano sulla pista. Saliamo sull’ET3 Primavera bianca e andiamo a una festa: si suona musica dance, si balla. Io, come sempre, mi siedo sul divano, faccio conversazione con Claudia, con Benedetta. Beviamo quella mistura rossa che sa leggermente di alcool, sospetto che il colore sia dato dal ginger. Poi esco in giardino, mi siedo sul dondolo, aspetto che venga il momento di andare via…

O ancora spuntano come funghi gli ombrelloni verdi e il pavimento diventa sabbia, laggiù è ormeggiata la barca rossa del salvataggio e il bagnino aspetta all’ombra con una maglia a righe. Sono qui sulla sdraio e accanto a me siede Paola: mangiamo i nostri cornetti e lei con le dita di un piede disegna un cuore sulla sabbia… Nel ricordo tutto è vivido: il dolce rumore delle onde, i pattìni che galleggiano al largo come ninfee in uno stagno, il sole che splende altissimo, la tela sbiadita dell’ombrellone, i raggi di metallo, la sua borsa di paglia appesa, i suoi shorts color kaki, la canottiera, le ciabatte bianche, la mia Lacoste rossa, i pantaloncini, il tavolino rotondo arancione infilato nel sostegno in plastica, la radio che suona. E riconosco anche la canzone: “A flash in the night” dei Secret Service. Vividi sono anche il viso di Paola, il sorriso, il suo corpo, le sue gambe affusolate, i capelli raccolti a coda, il bikini turchese.

Non resta ormai che la punta del cono, una croccante cialda ripiena di cioccolato. La mangio, l’estate fuori continua a splendere, rigogliosa nel verde di agosto. Ancora non si notano i primi segni dai quali è possibile riconoscere l’arrivo dell’autunno: non ci sono foglie gialle né si è fatta più fredda la brezza; le cicale continuano a frinire tra l’erba alta, le rondini compiono la loro sarabanda nel cielo. Presto la bella stagione finirà, ma l’anno prossimo ritornerà. La gioventù invece se n’è andata per sempre…



Algida

PUBBLICITÀ DEL “CORNETTO ALGIDA” - 1977

sabato 4 agosto 2018

Wile E. Coyote dopo aver catturato Beep Beep


Sta scendendo la notte sul deserto. Qua e là tra i cactus e i cespugli ballerini svolazzano via piume azzurre, altre blu si impigliano ai saguari. Restano solo le braci del fuoco, i due rami a Y su cui è stato posto lo spiedo. In quella luce rossastra Wile E. Coyote ripulisce l’ultimo cosciotto con i denti aguzzi.

“Non è nemmeno buono” sta pensando, “carne dura, coriacea. Eh be’, tutte quelle corse hanno bruciato il grasso, hanno lasciato solo muscoli”. Appoggiato a uno scatolone dell’ACME, sta riflettendo che quello che più desideriamo, quello cui pensiamo notte e giorno, non sempre vale la pena, che il desiderio soddisfatto ha perso gran parte del suo fascino. Lo dicono anche i poeti. Lo dice Montale: “In attendere è gioia più compita”. Lo dicono i filosofi come Lessing: “L’attesa del piacere è essa stessa piacere”. Forse di più, direbbe Wile E. Coyote, se conoscesse Lessing.

Così, ora che restano solo ossa del roadrunner, e qualche piuma colorata, il coyote si sorprende a guardare le stelle e riesce finalmente a formulare la domanda che gli gira in testa da ore senza riuscire ad essere compiuta: “E adesso, adesso che finalmente l’ho catturato, adesso che l’ho cucinato e mangiato, adesso che cosa farò?


DG coyote

sabato 28 luglio 2018

Ringhiera sul mare


Il tuo sguardo all'improvviso si accese di una venatura maliziosa, un sottile lampo come talora ne capitano nelle sere estive di grande calura. Un luccichio lontano, un effimero scintillio come quello di una randa che si abbassi all'orizzonte nell'ultimo tramonto.

Con la mano indicasti un punto nel vago: poteva essere la punta dove andavano accendendosi le luci e il mare si oscurava cadendo in un grigio senza fondo o il pontile dove i ragazzi si attardavano a pescare i granchi con le corde e le mollette da bucato. O ancora un largo tratto della spiaggia dove gli ombrelloni incappucciati montavano la guardia ai rari bagnanti rimasti sul bagnasciuga.
Il gesto che facesti era al contempo nobile e lezioso, antico movimento di principessa, di dama di corte che lascia cadere il fazzoletto in attesa che un paggio lo raccolga con celerità. Guardai dove guardavi tu, il vasto angolo indicato dalla mano: sembrava che restasse la fosforescenza di quella movenza del braccio.

Non vidi nulla: gabbiani che planavano, pescherecci lontani immersi nell'ultima luce, casoni dai tetti di paglia, onde che portavano alla deriva oscuri intrecci di alghe, gli alti palazzi della costa dove migliaia di persone si facevano la doccia e si cospargevano di creme doposole al termine di una giornata passata in spiaggia.

Il vento che soffiava dal mare ti incollava il vestito a fiorellini di disegno provenzale sul seno e sulle gambe, ti disegnava l'incavo del ventre, ti scompigliava i capelli e mi sferzava il viso con le loro ciocche. La ringhiera verde scottava ancora per il calore raccolto durante il giorno, ma sembrava che anche dal tuo corpo emanasse quel calore, una febbre delirante e improvvisa.

“Non c'è più” dicesti e io restavo lì sbigottito indagando ancora su cosa mai avesse voluto manifestarsi ai tuoi occhi e non ai miei. Il vento continuava a soffiare, scuoteva le chiome degli oleandri come se volesse strapparli dalla terra, alzava la sabbia livellando i milioni di impronte che segnavano la spiaggia: l'indomani, i primi visitatori del mattino avrebbero trovato una lavagna liscia e fredda e avrebbero cominciato a raccogliere le conchiglie portate a riva dalla notte.

1993

Lynch
BRETT LYNCH, “LA BREZZA DELL’OCEANO”













sabato 21 luglio 2018

La luna


Ventuno luglio. Sono passati tanti anni ormai da quella notte dei televisori accesi sulla Luna. Il revival ha sempre un sapore dolce e amaro di nostalgia. La televisione manda ancora le immagini di allora nelle case italiane. Io ero davvero molto piccolo, nella mia memoria tutto è avvolto nella nebbia: ricordo solo papà che mi ha svegliato e diceva: “Guarda, l’uomo sulla Luna”. Il giorno dopo avevo la febbre e rimasi davanti alla tivù invece di uscire nel sole a giocare. E tutto il giorno la Luna era lì, con me. Non riuscivo ancora a rendermi conto dell’importanza dell’evento. Mi chiedevo perché non ci fossero i cartoni animati: Braccobaldo, Speedy Gonzales, Bugs Bunny.

Ventuno luglio, tanti anni in più. Il bar si sta svuotando lentamente, la Luna forse ha perso il suo fascino. Nella sera d’estate turisti tedeschi fanno chiasso all’aperto: hanno incolonnato bottiglie vuote di Traminer come se fossero un esercito in marcia verso il bordo del tavolo. Una ragazza alta e bruna saluta e se ne va a cercare fortuna nella sera di mare illuminata dalla luna, bassa e tonda. Chissà com’era quella notte la luna... io non me lo ricordo. Il televisore rinnova ancora la gloria di Armstrong, Aldrin e Collins; la ragazza alta e bruna forse non ci pensa nemmeno, non era neppure nata nel 1969: guarda la luna e sogna l’amore.

Esco anch’io a cercare fortuna: è un risveglio per ritrovarmi fuori dall’aria condizionata del bar a ricordarmi di un sogno che ho fatto ma rimane confuso, ogni sforzo è un’ulteriore conferma della sua inutilità. “Come va?” mi chiedo. Un po’ meglio, grazie. Mi sembra che qualcosa potrò fare o almeno tentare: colgo segni di speranza, solitudini che si uniscono non sono che dolori leniti. Il tempo si mantiene buono. Il tempo è un nostro alleato.

La luna piena si alza, sembra quasi che mi guardi e mi schernisca. Non ci sei tu stasera accanto a me e mi sto perdendo in tutto questo blu che mi circonda. La luna è il vortice in cui mi sento attirare. All’angolo c’è Pino che mi aspetta, dobbiamo fare compere stasera. In centro troviamo il nostro negozio, nascosto tra le luci della città. La commessa ha un abito nero che la fascia tutta, sembra quasi nuda. La immaginiamo già nuda io e il mio amico che stasera divide con me la tua assenza. Già, non lo conosci: Pino è l’opposto di me: parla, parla, parla sempre. Certo, forse è anche per via del suo lavoro: scrive su un giornale. Forse tu lo troveresti simpatico, ma non ti piacerebbe, lo so. Gli parlo della ragazza del bar, della storia della luna, mentre lui si prova una camicia. Mi dice che potrebbe fare per me, anche perché è molto più giovane. “Ma chi vuoi prendere in giro? “gli butto lì tra l’acido e il divertito. Pino paga la camicia e comincia a filosofare: “Il fatto è che ti manca una donna. Ma credimi: non è lei, almeno quella lei, la donna giusta per te. Hai solo bisogno di aspettare: vedrai che prima o poi la troverai”.

Prima o poi. Quel “poi” mi preoccupa un po’. Io vorrei parlargli di te, della donna giusta che mi è sfuggita di mano, delle volte che mi sentivo il cuore scoppiare quando credevo di vederti... Ma temo che Pino possa non capire, possa fraintendere la mia sincerità. Nelle mie mani senza amore stringo forte un bicchiere di birra Schneider, bruna, ha il colore dei tuoi capelli. Pino mi guarda e forse intuisce che sto pensando a te. Il cantante del piano-bar non ha pietà: canta “Tanta voglia di lei” con molto trasporto. La luna piena è salita, ora è un grosso bottone attaccato in mezzo al cielo con Armstrong, Aldrin, Collins e tutto il resto. Forse solo la luna stasera sa quanta voglia ho di te.

Luglio 1989



Moon Landing Wallpapers 3

sabato 14 luglio 2018

L’amore e l’amicizia


La spiaggia era il nostro regno, il luogo dove cementavamo l’amicizia e la spingevamo un po’ più in là, verso la strada che conduce all’amore. Lei amava parlare di questa distinzione: si chiedeva se il rapporto tra un uomo e una donna potesse basarsi solo sull’amicizia o se inevitabilmente dovesse scivolare lungo la china dell’amore. Non avevamo risposte: ci limitavamo a percorrerla quella discesa, a rotolarci piano, giorno dopo giorno di quell’estate dorata e intensa. Un’altra domanda avremmo dovuto però formulare: una volta che una bella amicizia si è trasformata in amore, può, finito l’amore, ritornare amicizia?

Restavamo sotto l’ombrellone a leggere e a risolvere cruciverba, a raccontarci, a ridere: l’amicizia appunto, ma già l’amore penetrava dagli interstizi, lo si poteva arguire da certi sguardi, da un certo sfiorarsi apparentemente casuale dei corpi, dalla dolcezza che mettevamo nel rito di spalmare la crema sulla sua schiena. E facevamo lunghe passeggiate sulla battigia, ci confessavamo segreti che non avevamo detto a nessuno: l’amicizia era già superata, il labile confine era distrutto da certi suoi sorrisi che mi ammaliavano, da certi miei sguardi che la attraevano. L’invasione era in atto, sarebbe bastato poco a completarla: un bacio come un lancio di paracadutisti, come una colonna di carri armati in rapida avanzata.

Accadde una sera nella pineta resa fresca da una mareggiata: un brivido la scosse e la tirai a me per riscaldarla. Le nostre bocche erano vicine, le labbra si unirono come calamite di polo opposto. Il tempo sembrò fermarsi: la luna ferma nel cielo rendeva immobile ogni cosa, solo il rumore cattivo del mare si sentiva lontano, monotono, uniforme nel suo sciabordare. Restammo a lungo abbracciati, ormai la città era caduta, l’assedio terminato.

E l’amore fu, amore intenso e vivace che nasceva dalla precedente frequentazione come amici e poggiava su quelle basi, si innalzava su quelle fondamenta che ritenevamo essere granito, basalto, marmo indeformabile e indistruttibile. Ahimè, erano pinnacoli di sabbia, come quelli dei castelli che i ragazzini costruivano in spiaggia. Sabbia friabile, instabile, pronta a lasciarsi erodere dal vento, a farsi trascinare via dalle onde. Il tempo passò, l’autunno e l’inverno subentrarono all’estate e tutto crollò. E lì la domanda che non ci eravamo posti emerse in tutta la sua drammaticità: l’amicizia sopravvive all’amore? Io dissi di sì, ma l’amore forse era ancora in me. Lei disse di no, e dentro certamente le prevaleva il rancore, la rabbia dolorosa che le donne deluse sono in grado di innalzare a punizione. Giungemmo a un compromesso: non dimenticare tutto ciò che di bello c’era stato nella nostra amicizia. E quello alla fine sopravvisse: il ricordo di istanti felici.


2010






sabato 7 luglio 2018

Signora


Con il cappotto nero da signora e i collant scuri che velano le belle gambe affusolate, Alessandra è in ritardo per il regionale delle otto e diciotto per Milano. Non corre – una signora non corre mai – ma affretta il passo sul lungo viale che porta alla stazione. Il semaforo è rosso già da un pezzo, le sbarre del passaggio a livello sono abbassate. Ne aveva sentito lo scampanellare quando stava chiudendo la portiera dell’auto.

Ha accompagnato i figli a scuola: il maggiore alle elementari, il piccolo all’asilo. Quando è arrivata alla stazione, naturalmente non è riuscita a trovare parcheggio. Sempre così. I posti migliori se li accaparrano quelli che prendono i primi treni del mattino. Ѐ riuscita a lasciare la Ford Mondeo a un chilometro dalla stazione, nello spiazzo davanti a un gruppo di villette: c’era il cartello “Riservato ai condomini”, ma in quel momento la sua priorità era riuscire a salire su quel maledetto regionale delle otto e diciotto. E mancavano solo cinque minuti...

Tornavo dall’edicola con i miei giornali quando l’ho incrociata. Ciao. Ciao. I suoi capelli nel passo affrettato erano diventati una medusa rossa che si agitava al vento freddo d’inverno, i tacchi a stiletto delle sue scarpe producevano un ritmico suono sull’asfalto consunto del marciapiedi, il treno si annunciava in arrivo con un fischio prolungato.

Mi sono voltato per vedere se Alessandra sarebbe riuscita a salire sul treno per Milano. Nel ricordo era ancora la ragazza con i blue-jeans slavati e le scarpe da tennis, con la maglietta estiva a maniche corte e la chitarra classica, si cantava tutti insieme attorno al fuoco o in un pomeriggio lungo di domenica. Si parlava di cinema e di letteratura su un vecchio treno dalle panche di legno. Si scherzava certe sere in pizzeria, con la luna intinta nei bicchieri di birra. Ma si sa che il ricordo è una lente deformante: ingigantisce a dismisura i dettagli della nostalgia, alimenta leggende e speranze, fa di illusioni sogni e di sogni realtà...

Alessandra è salita sul regionale delle otto e diciotto appena in tempo, subito dopo si sono chiuse le porte automatiche. Non aveva a tracolla la chitarra, ma una borsa da manager.

2010


DIPINTO DI ANDRE KOHN

sabato 30 giugno 2018

Un ragazzo, una ragazza


L'intraprendenza con cui aveva abbordato la ragazza stupì in primo luogo lui stesso: non se ne sarebbe creduto capace. Invece, abbandonato ogni timore, messa da parte ogni remora, si era buttato a capofitto in quell’impresa che poco tempo prima aveva giudicato disperata.

Ora erano seduti su una panchina nell’esigua veranda che si affacciava sulla strada, dove un viavai di gente diretta verso il lido era pressoché continuo. Il ragazzo sedeva composto, intimorito quasi dal fascino che sprigionava dalla ragazza come un’essenza che stordisce tutto il corpo, non solo le narici. La ragazza reggeva tra le mani un libro di narrativa italiana del Novecento, che aveva chiuso infilandovi un segnalibro in pelle cremisi per conversare con il giovane che - in modo timido e impacciato, secondo lei - le aveva rivolto la parola. Fu proprio quella goffa timidezza che l’aveva incuriosita; fu solo per quello che l’aveva invitato a sedersi, o almeno così in un primo momento le era sembrato. Ora che il ragazzo aveva cominciato a parlare di sé e di cose che, pur sembrando di poco conto, avevano una certa profondità, però la ragazza si sentiva attratta da lui, dal suo modo di parlare, come se il ragazzo - o la sua mente - emanassero un fluido. Ne percepiva tutto l’intimo tormento, con l’immensa dote del suo intuito femminile, riusciva a capirlo, a comprenderne le ragioni e le sofferenze e si sentì come investita da una missione: consolarlo, guarirlo, salvarlo. Ma da cosa ancora non sapeva: sapeva solo di dovergli stare vicino, di parlargli, di raccontarsi sinceramente come lui ora si stava raccontando, senza pudori.

Il sole era velato da una cappa plumbea d’afa ma lì all’ombra dei pini soffiava una brezza leggera. La ragazza si era ripromessa di fare compere quel pomeriggio, di girare nei negozi. Aveva adocchiato una maglietta turchese e un bikini coloratissimo sotto i portici del centro. Si disse che era più importante restare a sentire quel ragazzo.

Fu lei a invitarlo per la sera, intuendo che forse lui non ci sarebbe riuscito: propose al ragazzo di recarsi al cinema all’aperto, dove c’era in programma un film americano. Il ragazzo avrebbe voluto dissimulare la gioia che provava per quell’invito, per quel poter restare ancora con la ra­gazza, ma non vi riuscì e lei lo comprese benissimo.

Il cinema K. era nei pressi della chiesa, all’altra estremità della cittadina, dove si aprivano il vasto parco pubblico e, oltre i villini di più recente costruzione, la campagna. I due ragazzi avevano appuntamento per le otto e mezza davanti al giardino dove si erano incontrati: lui arrivò in anticipo e si guardava attorno ansiosamente quando lei, con un leggero ritardo, arrivò. Vestita di rosso, la sua bellezza fiammeggiava - pensò il ragazzo - sfolgorava come un tramonto d’estate. Guardò il cielo a Occidente e non poté fare a meno di paragonare la bellezza del cielo a quella di lei. Non se n’era ancora reso conto, ma quello che provava non era altro che amore.

Attraversarono i negozi del centro dove le luci si accendevano con i loro aloni crepuscolari e giunsero al cinema: si sistemarono sulle poltrone di ferro verniciate di blu e attesero in silenzio l’inizio della proiezione. Una luna piena e burrosa si stava levando oltre il telone, i lampioni si spensero e iniziò il film. Era la storia di un omicidio e di un processo in cui l’accusato era un innocente.

I ragazzi stavano pensando a cosa dire, a cosa avrebbero fatto una volta usciti dal cinema. Lui si chiedeva se metterle un braccio attorno alle spalle avesse rovinato tutto, esitò a lungo, poi si decise a compiere il gesto. La ragazza si strinse a lui.

Finito il film, uscirono nelle strade ancora affollate di gente, mentre i negozi chiudevano. La sera era diventata fresca e piacevole, perché una leggera brezza soffiava dal mare. Senza quasi accorgersene i due ragazzi si erano ritrovati mano nella mano nell’ampio piazzale davanti alla spiaggia. Gli ombrelloni chiusi e incappucciati erano in fila come soldatini di piombo, i riflessi argentei della luna coloravano le onde. Al largo tremolavano due luci, forse una chiatta o un peschereccio, più in là le luci della costa formavano una col­lana luminosa. Grilli cantavano nella pineta, da dove giungeva un balsamico odore di resina. Il ragazzo confessò che scriveva poesie ed era la prima per­sona a cui lo diceva. Ora lo sapeva che era amore: proprio da questo rivelarsi lo aveva capito, da questo desiderio di non avere segreti per la ragazza. Lei lo guardò in silenzio, poi disse che avrebbe tanto voluto leggerle. Poteva quasi toccare l’anima del ragazzo. Avvicinò le labbra a quelle di lui e si baciarono.


1994

sabato 23 giugno 2018

Un rettangolino di plastica


Milano, 26 luglio 2674

I lavori di scavo nella "zona verde" della città vecchia - così chiamata per il ritrovamento di numerosi manufatti dipinti con tale colore - continuano a riservare sorprese. Il professor John Tagliaferro dell'Università di Pavia 2 ha comunicato al quotidiano "Electronic Evening Courier" di avere rinvenuto un oggetto ancora sconosciuto, leggermente corrotto ma ancora in buone condizioni grazie a una bolla d'aria che lo ha imprigionato in un angolo riparato dalle intemperie: si tratta di un rettangolino di plastica bianco da un lato con delle scritte nell'antico alto italiano, la lingua dialettale usata prima dell'adozione dell'inglese globalizzato, e con un'immagine non riconoscibile, forse due persone, su sfondo rosso dall'altro. Il professor Tagliaferro e la sua assistente, la promettente Mary Elizabeth Pudeddu, ritengono si trattasse di qualche genere di tagliando: infatti hanno decifrato il numero 10, che fa presupporre un corrispettivo nella moneta dell'epoca, l'euro, corrispondente all'odierno dollaro transnazionale. Accanto vi erano degli oggetti più comuni, spesso rinvenuti intatti, come in questo caso: alcune bottiglie verdi da un terzo di litro, che probabilmente contenevano un qualche tipo di liquido ottenebrante - ricordiamo che in quel periodo l'alcol non era stato ancora messo al bando.

NOTA: ho scritto questo breve apologo per ricordare che una ricarica telefonica gettata viene smaltita in mille anni, una bottiglia in quattromila. Pensiamoci, quando abbandoniamo un rifiuto lontano dai cestini!


2009


unnamed

sabato 9 giugno 2018

La felicità della malinconia


Il cielo era ammantato di stelle, "crivellato" come diceva una canzone, lontano una campana suonava le dieci. Anna si riscosse dai suoi pensieri a quei rintocchi quasi festosi in contrasto con il silenzio della notte. Il contatto della lana sulla pelle le dava una strana sensazione, non un prurito né un fastidio, piuttosto un tenero, caldo abbraccio.

Guardò Giovanni: distese le gambe in tutta la loro lunghezza, il ragazzo osservava la gente che rincasava nella strada. "Diamine Giovanni, abbiamo diciott'anni! Ma cosa ci facciamo seduti in questo bar come due vecchietti? Andiamo a divertirci" pensò senza riuscire a rivolgersi all'amico. Fu invece Giovanni subito dopo a dire: "Anna, ti va di andare a vedere il mare?". Lei assentì e Giovanni, imbaldanzito dalla sua risposta affermativa, disse quello che la ragazza avrebbe voluto dire qualche attimo prima: "Mi sembra di essere un pensionato a restare qui tutta la sera".

Un chiarore lontano faceva presagire la presenza della luna che nasceva dal mare, piena e grossa. I due ragazzi si incamminarono sul nastro d'asfalto che attraversava la pineta; sotto i loro piedi potevano sentire gli aghi dei pini che formavano un rado tappeto dopo la mareggiata della notte precedente. "Giovanni, perché non ti trovi una ragazza, qualcuno che possa alleviare la tua solitudine? Insomma, voglio dire: hai diciotto anni..." riuscì a dire Anna guardando negli occhi l'amico. Giovanni rimase silenzioso solo un attimo, che egli però giudicò troppo lungo, poi rispose: "Non so, forse aspetto che sia l'amore a venire da me, sai, il classico colpo di fulmine. O forse è proprio questa condizione che mi piace: la solitudine, la malinconia..."

Già, la felicità della malinconia, pensò Anna e provò un brivido, forse un'invidia inconfessata per il coraggio con cui Giovanni metteva in pratica la sua filosofia. Lei invece aveva incontrato Luca, stavano insieme da due anni ormai; tutto sembrava bellissimo nei primi tempi ma poi un vago malessere aveva intriso la loro storia, che si trascinava ormai solo per inerzia, solo perché nessuno dei due voleva ammetterne il fallimento.

"A diciott'anni non si è maturi" disse Anna "si fanno tante cose per istinto o per emulazione e tante volte si sbaglia e si sbatte il muso contro un muro". Confidandosi erano giunti alla spiaggia. Ora potevano vedere la luna, anzi due lune e quella riflessa nel mare era ancora più bella di quella vera. Due lune grosse e luminose, due perle arabe di rara bellezza. Di tanto in tanto un'onda scompigliava la luna riflessa, che in breve si riformava tonda e perfetta.

In quel momento Anna sentì che con Luca era tutto finito: non l'aveva mai portata a vedere la luna e quello spettacolo meraviglioso l'aveva riempita d'amore, tanto amore inespresso che aveva tenuto dentro e che ora spingeva per uscire. "Baciami, Giovanni" sussurrò in un filo di voce. Un po' perplesso il ragazzo obiettò "E Luca?". "Con Luca è tutto finito: per lui conta di più la pallacanestro, io sono solo un diversivo. E poi non c'è un filo di romanticismo in tutti quei muscoli".

Giovanni esitava. Fu Anna ad appoggiare le sue labbra su quelle di lui. Giovanni la strinse a sé, sentì la durezza dei seni acerbi, ripensò a quanto gli aveva detto prima Anna: "A diciott'anni non si è maturi: si fanno tante cose per istinto". La luna si stava alzando piano piano. Giovanni si sedette per terra e Anna gli posò la testa sul petto: accarezzandole i capelli pensò alla malinconia.


1990


EDVARD MUNCH, “SOMMERNACHT AM STRAND”

sabato 2 giugno 2018

Il filo del passato


Ci siamo ritrovati per caso in questa gita della Biblioteca che ci porterà alle meraviglie di Venezia, a un museo che ci mostrerà i colori del Manierismo. Ci siamo scorti e salutati nel parcheggio, dove abbiamo lasciato le nostre auto e ritrovato il filo del passato. Quanto tempo? Quanti anni? Lo abbiamo riannodato subito e siamo saliti sul pullman, verso il fondo, come ci è sempre piaciuto, occupando una coppia di sedili sul lato sinistro, perché a me è sempre piaciuto guardare le auto in sorpasso e a lei appoggiarsi alla mia spalla e assopirsi.

Ora no. Non siamo più gli studenti che andavano in gita. Ora abbiamo tanti giorni e tante cose da raccontarci e parliamo fitto fitto mentre il pullman percorre la A4 Serenissima e si lascia dietro frutteti e case coloniche, zone industriali e grandi magazzini, anche un aeroporto.
L'autista ha messo un CD di successi degli Anni '80, neanche l'avessimo corrotto, e la nostra musica ci riavvicina ancora di più. Annamaria si lascia andare: mi confida dei problemi che ha avuto, il divorzio, il figlio autistico, il suo studio di architettura che non va troppo bene. Come allora trova in me un ascoltatore paziente. Come allora non ho niente da dirle, ma basta la mia attenzione a consolarla.

Le racconto di quante volte ho percorso questa strada, del mio grande amore liquefattosi senza un perché. Lei coglie con femminile sagacia il mio tormento, mi posa una mano sul ginocchio, lo stringe appena e quel gesto di amicizia è un collante che riesce a riparare la mia voce incrinata. «Ti ricordi di quando ci sbaciucchiavamo di nascosto dai professori su sedili come questi?» mi chiede. Altroché se ricordo: fuori il tramonto incendiava l'autostrada, poi scendeva il buio e noi annegavamo in quella dolcezza. Quanto tempo. Quanti anni...

Annamaria mi guarda con gli occhi accesi e un lampo furbo nello sguardo: «Dai, che il responsabile della Biblioteca non ci guarda...» mi dice, e posa le sue labbra sulle mie...

Il filo è stato riallacciato con un nodo ben stretto.


JACK VETTRIANO, “AE FOND KISS”








sabato 26 maggio 2018

Hautes-Alpes


    Di buon mattino passammo con l'auto la dogana del Monginevro dopo aver cambiato in franchi i nostri pochi spiccioli e maledetto il traffico che intasava la statale nella valle della Dora Riparia. La strada subito cambiò d'aspetto: sembrava più linda e ordinata a noi che eravamo abituati allo sbando e alla rovina che caratterizzano le strade italiane; quelle righe gialle dipinte di fresco ci facevano meraviglia. Ben presto dei segnali stradali arrugginiti crivellati di proiettili ed enormi buche nell'asfalto ristabilirono la giustizia e il nostro giudizio divenne più ragionato e meno autolesionista.

    Lunghi tornanti scendevano tra i boschi di larici verso la valle della Durance; traversata Briançon, ci trovammo in una strada che costeggiava il fiume, argenteo e irrequieto, e la ferrovia. Mi prese una gran voglia di viaggi in treno attraverso campagne sconosciute, il sogno di lasciare i frutteti del Veneto, le montagne che cullano l'Adige nel loro grembo, gli sterminati campi di mele del Sudtirolo, e salire verso il Mare del Nord, traghettare in Svezia, abbandonarmi a osservare i ghiacci dove nessun treno più va oltre. Oppure scendere nell'Est europeo sulle piste dell'Orient Express, in una magia che porta a Sofia e a Istanbul...

    Le canoe zigzagavano tra i massi, oltre il fiume muovevano le loro chiome al vento campi di grano e di lavanda. Attraverso una stretta gola che ricorda la Val d'Ega tra Bolzano e Nova Levante, salimmo seguendo un camion di sabbia che sbuffava e procedeva lento come un elefante di Annibale. Nostro compagno era sempre il fiume che rumoreggiava sulla destra, rilucendo.

    Ci fermammo a pranzare in un villaggio che si animava del mercato con i paesani che acquistavano formaggi, salami e miele. Qui il fiume incanalato intersecava due viuzze formando due ponti: lì tra una charcuterie e una boulangerie l'insegna "Restaurant".

    Dopo pranzo, nel deserto del villaggio ancora a tavola, ci attirò l'idea di oziare ai tavolini all'aperto di un café. Conoscemmo così Nathalie, la cameriera che ci portò i cognac e che ci disse che studiava italiano. Si sedette con noi e cominciò a raccontare un po' nella nostra lingua un po' nella sua: ci disse che abitava sola, ora che il marito era fuggito in Alsazia con un'altra, una ballerina da quadro di Degas, ma che in fondo si trovava meglio così, senza dover sempre rendere conto a qualcuno. "Sì, sono libera, comment on-dit? ... emancipata, j'amerai venire a lavorare in Italia, a Firenze o a Roma, ma il mio sogno c'est Venise... Qui di turismo ce n'è poco e poi è tutta gente di montagna".

    Prima di lasciarci andare Nathalie volle regalarci due bottiglie di vino di quelle parti, un vino color dell'ambra. In una cartoleria dove eravamo in cerca di souvenirs - un domino di legno, corni intarsiati, coltellini Opinel - il proprietario ci mise in guardia sull'aroma di quel vino: "Ce n'est pas champagne ni Chianti! Le vin d'ici c'est mauvais". L'uomo parlava solo francese e molto velocemente, ci costava fatica seguire le sue parole. Filosofò un po' sulle donne e sul tempo, che da anni non portava neve se non a stagione finita. A una nostra richiesta ci spiegò la strada migliore per tornare in Italia.

    Tra curve e controcurve la statale si inerpicava verso il Colle dell'Agnello, nel Parco del Queyras, dove le mucche pascolavano beate. Un vento gelido ci accolse alla frontiera: nessuna dogana, nessun controllo. Solo più in basso un finanziere seduto fuori da un capanno di lamiera con il tricolore italiano ci fece segno di passare senza nemmeno guardarci. Eravamo davvero tornati in Italia.

25 ottobre 1990


FOTOGRAFIA © MICHEL LALOS

sabato 19 maggio 2018

Il filo


La luce gialla di un lampione tinge il lungomare. Un vento caldo soffia da Levante e sembra condurre fino a qui quella mezza luna che galleggia nel cielo come un palloncino sgonfio. Sa di sale e sabbia quel vento, sa della notte che scende e che ci ritrova seduti al bordo della piazza, dove l’ultimo caffè fissa i suoi confini e ruba metri alla spiaggia. Non ombrelloni, ma un verde pergolato ci difende dal buio, o ci nega la vista delle stelle. Pendono come lanterne le lampadine, le candele alla citronella fumano tra i tavoli.

Chi ci vedesse da fuori, chi gettasse uno sguardo distratto oltre la siepe che ci separa dalla strada vedrebbe una coppia felice seduta davanti a due frappè: noterebbe di sfuggita il liquido chiaro nei bicchieri appannati, la cannuccia a righe, l’ombrellino di carta sapientemente appoggiato sul bordo. E invece siamo due anime in pena sorprese nel momento in cui cercano il filo che li lega, quel filo che si è smarrito tra presente e passato, che si è allentato o meglio ancora si è spezzato quando la lontananza l’ha teso un po’ di più.

Così a noi che siamo dentro il bar, che sediamo a quel tavolino e siamo gli interpreti di questo film che è l’amore, che è la vita, alla fine ci manifestiamo come siamo davvero: due che si sono conosciuti, che si sono amati, che si sono allontanati e ora non sono che due estranei. Quel filo lo abbiamo ritrovato questa notte: i due capi erano ormai incompatibili, erano al pari di una spina e di una presa che non possono funzionare, e, come avvocati ad un processo, abbiamo preso atto.

Grandi cirri avanzano dal mare, oscurano la luna, e anche su di noi sembra calato il buio: restiamo muti, senza più dire una parola. I frappè sono finiti, il cameriere ha portato via i bicchieri, ho pagato il conto. Siamo perduti.

Il taxi che si accosta e poi ti porta via nella notte mi trova ormai quasi felice. Il mio saluto rimane nell’aria come un bianco fiore di magnolia. Abbasso la mano, la infilo in tasca e mi incammino nella direzione opposta. Il vento continua a soffiare forte sulle palme.


Caffè

ROBIN CHEERS, “SIDEWALK CAFÉ”


sabato 12 maggio 2018

Il fiume


Il fiume correva via tranquillo negli argini rinforzati dal cemento. Tra piccole chiazze d'olio dai colori iridescenti, ritta sulle zampe sottili galleggiava via veloce un'idra. Sembrava una miniatura di quelle immense gru per tagliare il marmo che punteggiavano le cave qua e là nel panorama.

Luca guardò Michela, seduta sul prato accanto a lui. Una ragazza esile e gentile, piccola nel golfino di lana azzurro che gareggiava con la tinta dei suoi occhi. Le teneva la mano quando riuscì finalmente a dire: "Me ne vado. Sono stanco di questo paese, sono stanco di non trovare opportunità. Dovunque, ma lontano da qui, ricomincerò". I gabbiani planavano lenti, il riflesso dei loro voli saettava nell'acqua, come volesse scomporre anche lo specchio dei pensieri. Luca sentì la mano di Michela irrigidirsi a quelle sue parole, vide il suo sguardo spegnersi e riempirsi di lacrime.

Quell'estate non trovò il coraggio di partire, forse non l'avrebbe trovato mai. Rimase al paese a lavorare saltuariamente nelle cave, a respirare polvere di marmo e amarezza. Continuava a uscire con Michela, ad amarla nei prati lungo il fiume. Facevano progetti: sposarsi un giorno di giugno con il canto dei grilli in una chiesa di campagna, il grano maturo nei campi, le rondini e i papaveri rossi mossi dal vento. Michela andò a comprare l'abito da sposa, bianco con tante rose ricamate.

A ottobre, in lacrime, la ragazza lo aspettava all'uscita della cava, tra i singhiozzi riuscì a dirgli "Sono incinta". Luca rimase tutta la notte a pensare al futuro, a pensare al suo futuro con Michela. Si spaventò e lo spavento gli diede il coraggio che in estate non aveva trovato. La mattina si fece liquidare e con la sua borsa di viltà scappò lontano, lasciò il paese che non gli piaceva, il lavoro che non apprezzava e la ragazza che credeva di amare.

Michela si trasferì con la madre in un paese un poco più lontano, sul lago: era triste e piangeva spesso, riteneva la sua esistenza un unico sbaglio mentre nel suo grembo fioriva una vita. Il bambino nacque a maggio e lei doveva impiegare tutto il suo tempo ad accudirlo. Le mancavano le feste, le nottate in discoteca, le mancavano i cinema, le domeniche lungo il fiume concluse con un gelato o una pizza. La giovinezza, con tutta la sua esuberanza, le era di peso.

Luca aveva trovato un lavoro che amava, lontano. Era un lavoro duro ma ne era appagato. Un giorno capitò un uomo che veniva dal paese: da lui seppe che Michela aveva avuto un figlio. Suo figlio. Il cielo sopra le ciminiere era grigio come metallo, sporco quanto il fumo che usciva dalla fabbrica. Il sole era una sfera rovente e lontana, una bianca particola. Luca lo guardò a lungo e giurò che non sarebbe tornato.

Un mattino di luglio Michela lesse sul giornale che una donna aveva immerso nel fiume il bambino che non desiderava, adagiato in una cesta di vimini, proprio come Mosè. Il piccolo era stato trovato da un pescatore e portato all'ospedale, dove le infermiere facevano a gara a coccolarlo. Quel giorno guardò suo figlio nella culla, rimase a lungo in ginocchio a osservarlo. Le ginocchia le facevano male sul duro pavimento, ma rimase lì a guardare il suo bambino e a pregare.

Finalmente lo prese in braccio e si incamminò con lui alla stazione, prese il treno e tornò al paese dove era cresciuta. Scese al fiume, proprio dove poco più di un anno prima Luca le aveva detto che sarebbe partito. Posò il bambino sulla sponda. La foschia penetrava nell'acqua, il sole dardeggiava...
Michela si sfilò dal dito l'anello di fidanzamento, tolse dal sacchetto di carta l'abito da sposa e li buttò nell'acqua verde. Guardò il fiume correre via, verso il mare. Prese il suo bambino e ritornò a casa, lo mise nella culla. La ragazza sorrideva, finalmente sorrideva.

NOTA: questo raccontino fa parte di una serie particolare: è in effetti la trasposizione del testo di una canzone. Gli appassionati di Bruce Springsteen avranno riconosciuto “Spare parts”, dall’album “Tunnel of love” del 1987.


Spratt

TINA SPRATT, “IL FIUME DEI SOGNI”

sabato 28 aprile 2018

Notte di Sicilia


Sul lungomare soffia forte il vento: uno scirocco che viene dal buio e dall'Africa e gonfia le onde nella notte. Resto lì a osservarne le creste bianche apparire nella luce dei fanali di questa piazza circondata da altissime palme che agitano i grandi ventagli delle foglie con un suono di xilofono. Respiro l'odore della notte, che sa di sale e di alghe, come gli spruzzi che di tanto in tanto mi arrivano sul volto, sulle labbra. Mi stringo ancora più forte nella mia giacca blu, rialzo il bavero e resto come ipnotizzato a scrutare lontano, la luce del faro che ondeggia, una grossa nave ferma nel porto.

Sono partito all'alba per giungere qui. Ho preso il pullman per raggiungere l'aeroporto della Malpensa. C'era una primavera lussureggiante nei prati lungo l'autostrada, i papaveri tingevano di rosso i fossati, i terreni erano ancora umidi, pregni di pioggia. Poi l'aeroporto, con la sua moderna struttura. All'interno lo scorrere delle stagioni non c'era più. Con il lungo pullmino ho raggiunto l'MD-80 per Fontanarossa. È partito in orario ed è arrivato con pochi minuti di ritardo. Non ho potuto guardare dal finestrino scorrere l'Italia: troppe nuvole. Solo qui, dopo le Eolie e l'Etna, il sereno.

Un altro pullman mi ha condotto a Siracusa, dove ho pranzato e visitato la città: il Teatro Greco, Ortigia, il Tempio di Apollo, quello di Atena inglobato nel Duomo. C'erano le luminarie in onore della Santa e sul sagrato gente vestita a festa che si scattava fotografie. Mi sono seduto a un tavolino con una granita di caffè davanti e mi sono gustato da dentro quella Sicilia così diversa, così lontana. E ho sentito subito di amarla.

Ho ripreso il viaggio, stupito della differenza di questa terra con la mia, lasciata solo al mattino: i campi brulli, i muretti a secco, le siepi di fichidindia, le distese di serre, l'assoluta mancanza di traffico sulle strade. Finalmente, quattordici ore dopo essere partito, ho raggiunto la mia meta, questo albergo sul lungomare dove ho depositato la mia valigia, mi sono fatto una doccia e ho cenato.

Ora sono qui davanti al mare: è mezzanotte e non ho nessuna voglia di dormire. Desidero soltanto sentirmi parte di questo estremo lembo d'Italia, assaporarne i sapori e gli odori, bere avidamente ogni singolo momento. C'è un lungo viale illuminato che conduce da questa piazza al porto: vado a cercare un bar per bermi un caffè.


2002


Pozzallo

FOTOGRAFIA © FIORENZO PEPE



sabato 14 aprile 2018

Casa contadina

Era una casa contadina, in una corte di paese. La chiamavano "la curt di scighèzz",il cortile delle falci. Era lì che abitavano i miei prozii, la sorella di mio nonno e suo marito. Il freddo di un giorno che portava febbraio alla fine era nell'aria e io ci arrivavo con la strafottenza dei miei diciott'anni e con la mia macchina nuova.

Entrai. La luce si fece buio e dopo un po' gli occhi si abituarono alla penombra: c'era una tinozza piena d'acqua, per lavare il bucato e naturalmente anche per farci il bagno; il pavimento di cotto scheggiato era bagnato sulle sue ruvide ombre di coccio. Dalle travi pendevano grappoli di pannocchie. Al centro della stanza una stufa ardeva legna, accanto erano ammonticchiati i ciocchi da ardere. Sul tavolo una bottiglia di vino, quel Barbera che stavo bevendo e che lasciava scuro il bordo del bicchiere che mi era stato riempito e messo davanti.

Appese alle pareti, accanto alla finestra, due gabbie: in quella metallica c'era un canarino giallo; in quella di bambù un merlo maschio con la sua bella livrea nera. In un angolo ronzava un vecchio frigorifero Minerva; sulla madia un vecchio televisore in bianco e nero. Sulla credenza le fotografie incorniciate: la figlia suora in un giardino di Torino, il figlio ora sposato, tutti più giovani, tutti con il vestito delle grandi occasioni. Più in alto, una mensola con il caffè nella sua scatola di latta e la bottiglia della grappa.

Lo zio, con il cappello e il gilè, le pantofole ai piedi, si scaldava nel parlare di concimi e trattori, di legna da comprare e di scope fatte con i rami di salice, di un contratto contadino negoziato per una notte intera. Lo faceva con quel dialetto brianzolo che intendo perfettamente ma che non parlo, neppure adesso, a distanza di tanti anni da quel giorno di febbraio.

La zia, lì vicino, rideva e lo frenava. Forse era così la felicità, mi venne da pensare vedendo la sua allegria. O forse no: i figli lontani, la solitudine, gli acciacchi. Meno male che ogni tanto arrivavano i nipotini ad allietare i nonni.

Poco oltre l'ingresso l'attaccapanni a muro: vi erano appese la tuta da lavoro, una sciarpa e una camicia insieme a tutti i dolori di una vita di campagna da indossare sopra i ricordi per uscire. Su un soppalco le scarpe, tutte in fila, e le mezze damigiane. Sulla porta il calendario, con tutti i santi da pregare e le lune per l'orto e per il vino. Uscimmo, era ora che concludessi la mia visita.

Fuori, nella piccola aia davanti all'uscio, il vecchio carretto pieno di legna e granturco e il trattore nuovo, il rimorchio che il vecchio trovava difficile da usare. Si poteva capirlo, abituato ad arare con l'asino e l'aratro. Incassato nel muro uno specchio rovinato rimandava i riflessi di quella vita contadina, i due piani con i balconi e i ballatoi che sovrastavano la casa, le travi di legno, vecchi zoccoli sfasciati, altre centinaia di pannocchie intrecciate a mazzi, sacchetti di concime e fertilizzanti, ceppi, piante grasse.

Più in là c'era la stalla: l'asino era rimasto solo, abbandonato dalle vacche. A fargli compagnia rimanevano l'erpice e i bastoni, aratri, zappe, paglia, qualche sedia rotta. Il progresso aveva rovinato anche lui, povero ciuco.

Quando salii in macchina, dopo aver già messo in moto, il vecchio mi fermò e riprese a parlare. Non voleva restare solo: il pomeriggio d'inverno era troppo lungo per lui. Mi sembrava di essere appena uscito da un libro di Pavese, di essere lì con il padre di Talino in "Paesi tuoi", con il Valino in "La luna e i falò". Lo salutai ancora e gli dissi "Torno presto, Carlìn, torno presto..."


1983


Heyyward

MARK STEWART, “SALOTTO DI CASA HEYWARD”