sabato 30 dicembre 2017

Il gioco era quello


Nel gioco io mi chiamavo Guy, lei Karla. Le ore passavano lente come i tram che sentivamo sferragliare nella piazza. Ci pareva di essere personaggi di un romanzo di Kundera, persi in un teorema psicologico, avversati dagli avvenimenti. Fuori poteva anche essere Praga e i carri armati sovietici pronti a sparare sulla folla della rivoluzione. Oppure la vivacità di Parigi, il bianco e nero delle fotografie di Doisneau, di Cartier-Bresson, di Ronis. Bambini con la baguette sotto il braccio, innamorati allacciati sui ponti della Senna, mercatini sui boulevards. O ancora la banale tranquillità della Svizzera, bandiere quadrate e laghi che riflettono un cielo di cobalto.

Sedevamo lì con le nostre facce stropicciate, la luce esterna colava nella stanza come un fluido grigio. Probabilmente tra poco sarebbe scesa la pioggia, se ne avvertiva l’odore di umido e foglie. Ogni tanto dicevamo qualcosa – il gioco era quello – e le parole si disperdevano rimbalzando sui muri, o forse attraversavano le pareti e si scioglievano liquide nell’aria, svanendo per la tromba delle scale, per il balcone dove i pini nani e i vasi di erbe aromatiche contendevano al cielo il poco ossigeno cittadino. Di tanto in tanto ci guardavamo negli occhi – il gioco era quello – con innocenza, con indecenza. Le pupille che si sfioravano erano magneti dello stesso polo, subito si allontanavano per ricercare altrove un punto di vista: il grande dipinto con un vaso di fiori dal quale traboccavano rose e i petali si disperdevano su una tovaglia di stoffa indiana, il soprammobile di ferro battuto che raffigurava un airone, le poltrone di stoffa cremisi, il vaso di cristallo dove smorivano sette tulipani gialli e i riflessi nell’acqua disegnavano piccole iridescenti stelle.

Io, “Guy”, riuscii a dire: «Karla, sei come un rapace notturno che mi impedisce di dormire, sei il grido della nottola che mi sveglia e infrange i miei sogni». Lei, “Karla”, rimase sorpresa, arricciò le labbra prima di rispondere che lo sapeva, che questa è la condizione della vita e che se mi sembrava crudele, ebbene avrei dovuto farmene una ragione. La sua voce era un’armonia anche mentre diceva – il gioco era quello – parole spiacevoli. Il passo successivo era una porta chiusa, un volo di colombi spaventati da una presenza. Ma ancora restavamo lì nella stanza calda. Il mio cappotto, quello di Guy, rimaneva posato sullo schienale di una sedia, ripiegato come una tovaglia da usare di lì a poco. Le mani di Karla sbriciolavano un biscotto rimasto sul piattino, indugiavano come la padrona di casa, si crogiolavano nel tormento di un addio. «Adesso è ora che tu vada» disse dopo un tempo che sembrò interminabile. Il suo viso tradiva l’emozione, una lacrima nasceva sull’orlo della palpebra. Pietà, bontà, dispiacere, rimorso. Chissà che cos’era…

Il cappotto si spiegò come le ali di un corvo, fu sulle spalle. Milano ingrigiva come la Parigi di Doisneau, la pioggia ora scendeva copiosa sugli ombrelli, sulla spalletta del Naviglio. Guy si incamminò con le mani in tasca e il bavero rialzato. Vincitore o vinto? Felice o infelice?


2009


Kertész

ANDRE KERTÉSZ, “CHEZ MONDRIAN”, PARIS, 1926




sabato 9 dicembre 2017

All’imbrunire


Come un'apparizione lei si mostrò sorridente nel suo vestito rosso, più intimidita da me di quanto io non lo fossi da lei. E osai, l'abbracciai cingendole la vita. La sua bellezza era in balia di me, indifesa. In un sussurro sospirò e chiese silenzio, si mise attenta ad ascoltare fuori e si divincolò dall'abbraccio, l'ardore e la furia in noi lentamente scemarono. Eppure tutto era così naturale fino a che il suo braccio sinistro non lasciò il mio braccio destro.

Sul suo volto nel silenzio spuntò un rossore come un nuovo sole a colorare l'alba: fuori non c'era nessuno, solo la sua timidezza. E con un balzo allora lei decisa la superò sapendosi così, con la volontà l'umana debolezza saltò a piè pari con un atto di coraggio. Tornò tra le mie braccia mormorando una frase di scusa e sentivo il suo corpo vivere nel cesto del mio petto, pulsare nel suo seno, prendere vita dalle narici e dalla bocca vivere.

Alla finestra silenziosa, dove prima quel rumore o quell'allucinazione in qualche luogo avvenne o si mostrò, imbruniva; la sera sopra i monti colava come vernice male amalgamata nei colori; nella stanza in compenso la luce naturale sempre più calava ma lei non volle accendere la luce artificiale, neppure un’abat-jour o una candela.

Così non si vedeva quasi nulla più se non una concessione di un quarto di luna quando lei tolse l'abito rosso e scoprì le gambe mentre tentavo di abituare gli occhi al buio come un gatto o qualsiasi rapace notturno, per distinguere in lei almeno il volto. Ogni suo gesto risaltava così dal movimento e nell'intuito si moltiplicava, di lei sapevo quel che ricordavo.


1994


Abbraccio