sabato 7 dicembre 2019

Un pugno di sabbia

 
Nella luce color rame del tramonto solo il rumore del mare e le stridule grida dei gabbiani. Un'altra estate finisce nel ricordo dei giorni passati, di un amore perso e ritrovato in continuazione, di un'amica di un giorno solo che è appena ripartita, è tornata a Trieste e fra poco riprenderà il suo lavoro. Ha puntellato il vuoto lasciato da Paola, ha consentito alla mia anima ferita di non affondare, mi ha consolato.

Ogni addio lascia un sapore amaro. In un giorno diverso questo tramonto sarebbe stato dolce, infinitamente dolce, e io avrei bevuto gli occhi di Paola. Ma oggi vedo solo il grigio abbraccio della malinconia: è settembre ormai: non ci sono che pochi ombrelloni, i pattìni li hanno già portati via per il sonno dell'inverno. Non voglio che anche il mio cuore cada in letargo. Ormai non c'è più nessuno che si spalma di olio di cocco, nessuno che cerca conchiglie, nessuno più ascolta musica banale dalle radio private. Non ci sono più ragazze alte e magre vestite di Lastex scollato e sgambato, occhiali scuri e sexy-girl, turisti stranieri con cui parlare in inglese. Non ci sono più le pizze di mezzanotte dopo una passeggiata romantica in riva al mare. E non c’è più lei, andatasene senza neanche sbattere la porta. 

Una radiolina accesa sussurra i risultati della prima giornata di campionato: la mia squadra ha perso ma che importa se io ho perso Paola? Non riesco a decidermi e continuo a guardare il mare arrossato dal tramonto e i gabbiani che scendono sempre più bassi. Scende la sera piano piano e con lei era così dolce sentirla arrivare. Due pescatori raccolgono le canne e i cefali e si incamminano verso la strada. Li seguo e li sento parlare di donne. Raccolgo un pugno di sabbia: è tutto quel che resta del nostro amore: il ricordo.

1984

 
Simon
T.J. SIMON, “SPIAGGIA ASSOLATA A FÉCAMP”





sabato 2 novembre 2019

Una foglia


È il tramonto ormai. Siedo al belvedere del santuario, a questo tavolo di pietra inciso dalle piogge e guardo la strada scorrere laggiù, le automobili e i camion che si susseguono sulla fettuccia d’asfalto tra le case. Quello infatti pare essere da quassù. Più lontano si adagiano i monti, come grigi sauri preistorici che bruchino nel pianoro verde di colline: la Grigna innalza il suo dente aguzzo, il Resegone ha ancora un po’ di neve, Valcava è uno spelacchiato altipiano dove spiccano i ripetitori delle televisioni. Là, da qualche parte c’è il lago con le sue acque azzurre, qui serpeggia l’Adda, invisibile tra i boschi: se ne può intuire il corso dallo spazio vuoto tra le piante. La mia vista è sul nord-ovest: il sole sta scendendo dall’altro lato, oltre la collina, non lo posso vedere, ma ne scorgo i riflessi sulle creste del Resegone, sui vetri di qualche casa che fanno la gibigiana, sulle facciate giù nella vallata.

C’è pace e tranquillità, il tempo sembra immobile, e invece le campane lo scandiscono ogni quarto d’ora. Dai miei pensieri mi distoglie una foglia staccatasi dai rami ancora nudi del platano: è caduta planando sul tavolo di pietra con un rumore secco, di carta. L’azzurro della sera è sembrato dileguare in quel momento, ma forse non è che un altro minimo abbassarsi del sole al tramonto. È bastato per ritornare a pensare allo scorrere dei giorni: ho risentito la voce di Paola dire “Come il vento, scorre come il vento il tempo” mentre dal pugno lasciava scendere un filo di sabbia. Tanti anni fa. Una vita fa.

Una ragazza risale leggera la lunga scalinata che dalla strada porta al Santuario: ogni gradino un’Ave Maria. Chissà per che cosa prega, chissà quali tormenti avrà. I suoi passi cadenzano il mio cuore, salgo con lei rimanendo qui seduto. E invece vorrei volare libero, lassù, nel cielo dove i gabbiani risalgono con eleganza verso il lago dopo aver banchettato a qualche discarica. Si librano, si lasciano portare dalle correnti.

La ragazza ha concluso il suo percorso, ora probabilmente è nella cappella del miracolo, accenderà una candela. Un anziano prete esce dalla chiesa, si avvia verso le stanze dei religiosi. Non c’è che il silenzio: prende vita dal crepuscolo e disegna la tranquillità in questo mio eremo dove salgo ogni tanto per sentirmi in armonia. Mi alzo, prendo delicatamente la foglia dal tavolo e la abbandono al vento, che la porti a disciogliersi nel fiume.

2011

DSC_8565
FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 19 ottobre 2019

Donna in bottiglia


Chi l’avrebbe mai detto? Le certezze adesso mi fanno paura... Saperti diversa dall’immaginazione, dalla dolce illusione nella quale ho vissuto come in una bolla, nella quale mi sono crogiolato comodo come un gatto disteso al sole, saperti irrimediabilmente perduta potrebbe distruggere i miei fragili sogni: si spezzerebbero in mille schegge al pari di uno specchio e sarebbe impossibile riaggiustarli. E sono io, proprio io, che voglio evitare l’incontro, io che ti ho tanto cercata, che tante volte per la strada mi sono fermato a indagare se fosse per caso te quella ragazza che mi aveva colpito per l’andatura, per l’acconciatura, per un gesto tuo disegnato nell’ombra. Sono io, proprio io, che non voglio riallacciare rapporti per non pagare il prezzo del disinganno.

Così resti sospesa nel limbo dei miei pensieri, una donna in bottiglia sullo scaffale: quello che ho di te sono parole a mala pena percettibili, come la voce del mare udita nel dormiveglia o un suono esterno mascherato da sogno poco prima del risveglio. Ti perdo e ti ritrovo ad ogni istante e ti ricreo com’eri e come non sei, ti contamino con altre donne, con altre idee, ti mischio con i desideri dell’inconscio, con le sue proiezioni. E finisce che metti in mostra il lato di te che mi è rimasto dentro, quello della memoria, quello dell’intuito: appari con una verosimile figura che ti illustra ma che è sicuramente falsa, per quanto io mi convinca del contrario. E questa iperbole di te continua a elaborarsi, a modificarsi da sé, si eleva a potenza su una base veritiera ma senza più controllare l’esattezza dei calcoli, e ad ogni errore da te si allontana, come chi, intrapresa una strada piena di bivi, a una biforcazione scelga la via sbagliata e prosegua diritto, convinto di essere sul giusto percorso: chiaro che, dopo il primo errore, tutti i suoi dati risultano sballati e le scelte di conseguenza fallaci.

Eppure credevo di agire con la ragione e non con il cuore. Pensavo di essere in grado razionalmente di venire a capo di tutto e non era che una narcisistica contemplazione della dea. Volerti ridurre a pura formula matematica mi sembrava un’ottima intuizione e non era che un’indecorosa viltà, dirò di più: un’anima di vile metallo rivestita di una menzognera doratura. Il mio cercare non era che ipocrisia. Insomma, il sogno che si è andato intarsiando con la realtà si è ridotto a pura farneticazione, è divenuto una tentacolare piovra che divora i rari sprazzi di lucidità e presenta come inossidabili convinzioni le illusioni meno sensate, fa credere vere le immagini sfuocate impedendo al contempo il contatto con la realtà. Giocoforza ci si ritrova a commentare un accaduto che non è mai accaduto, senza riconoscere l’indubitabile cesura tra la realtà e il sogno.

Per questo motivo, ora che si prospetta un punto fermo, una boa attorno alla quale girare, io lascio da parte le utopie perché la mia illusione non cada come cristallo, perché il mio amore non vada in mille pezzi impossibili da incollare. Tiro sulla testa il lenzuolo liso e sbiadito del ricordo e mi rintano perché la memoria, si sa, ha grandi spazi vuoti dove talora irrompe all’improvviso il sogno a galoppare senza briglie.

2011


DISEGNO DI DINO BUZZATI

sabato 28 settembre 2019

Una donna sola


Davanti alla sua casa vigila un pino atlantico come una sentinella nella sua uniforme grigio-azzurra. Un'acacia dal muro di cinta allunga la sua chioma come una giraffa che tenda il collo per brucare teneri germogli. Bassi cespugli tozzi e corpulenti fanno corona al vialetto di cotto. La sua casa è bassa, si estende su un solo piano nell'erba ben rasata. Il camino sovrasta le tegole come uno spillo puntato su una bacheca di sughero e le imposte di legno laccato sono chiuse per la maggior parte del giorno: sembrano occhi, La porta è alla loro sinistra: se fosse in mezzo alle due finestre potrebbe essere il naso; così invece dà l'impressione di un dipinto di Picasso. Dietro la casa c'è solo il cielo: ogni sera vi si inscena lo spettacolo del tramonto.

Lei è una donna giovane e volitiva, ama vestire con abiti attillati che mettono in mostra le forme curate del suo corpo. Raccoglie sempre i capelli ramati sulla nuca fermandoli con uno spillone di cuoio. Quando la sera li scioglie davanti allo specchio, guardandoli scivolare sulle spalle nude ama paragonarli a onde. Si compiace del fatto che solo a se stessa consente di vedersi con i capelli sciolti, come un piccolo segreto. Preparandosi per la notte, guarda fuori: le luci del vialetto di accesso, che lascia accese fino all'alba, le danno sicurezza. Sta lì con la maglietta e i calzoncini e rimira i globi luminosi e i loro aloni. D'estate vi sfarfallano insetti e falene, d'inverno talvolta roteano i fiocchi di neve.

È rimasta sola, tradita da un amore sbagliato che aveva ritenuto quello giusto, quello per l'eternità. Si ingannava. La solitudine è il pegno che paga a quel suo giovanile errore. Con il passare del tempo si è abituata a quella solitudine, non lo avrebbe mai ritenuto possibile. Ne aveva orrore! La rifuggiva con numerose amicizie - troppe, si dice adesso, e troppo occasionali. Eccola lì sola, che guarda dalla finestra aperta il giardino illuminato nella calda notte estiva, i capelli sciolti sulle spalle e la maglietta degli U2. Alla tenue luce dei globi legge prima di andare a dormire. Legge i tormenti di un'altra donna, le sue inquietudini. Legge il Diario di Katherine Mansfield e confronta la sua vita con quella della scrittrice neozelandese. La comprende, la disapprova, si immedesima, partecipa.

La sua casa è illuminata a festa. Sopra il tetto splende la luna.

1994


sabato 14 settembre 2019

La ragazza

Era da qualche giorno ormai che cercava di abbordare la ragazza. Aveva sedici anni, uno in meno di lui, ed era la figlia maggiore dei proprietari dell’hotel in cui soggiornava. Si chiamava Anna ed era bellissima: lo ammaliava particolarmente quel largo sorriso che le illuminava il viso quando parlava con i clienti, quando s’ingarbugliava in un colloquio in tedesco.
Era il terzo giorno da quando era arrivato e si disse: “Giovanni, ora o mai più”. La stava osservando dal balcone al terzo piano: lei era seduta sul dondolo nella veranda riservata ai clienti e stava risolvendo un cruciverba. Sentì che quella volta si doveva proprio decidere: non voleva convivere con il rimpianto di non avere agito, di avere rinunciato per timidezza.

Come morso da una tarantola, rientrò nella stanza e ne uscì dalla porta - fermo, convinto, come forse mai ancora gli era capitato nella vita - si precipitò per le scale ignorando l’ascensore e in un volo percorse le tre rampe. Non si era preparato neanche una frase da dire per rompere il ghiaccio: si accorse solo al pianterreno di avere ancora in mano il libro che stava leggendo prima di vedere comparire Anna sulla veranda. Nella hall rallentò, si ricompose - a quell’età non si ha il fiatone neppure dopo essersi scapicollati per tre piani - e infine uscì tra i tavolini. Indicò il posto libero sul dondolo e disse “Posso sedermi?”. Non aveva pensato nemmeno un secondo che ai tavolini bianchi non c’era nessuno e avrebbe potuto sedersi ovunque volesse, ma non lì… Anna rispose “Ma certo” con la bella voce e Giovanni si sedette con il suo libro tra le mani e l’orgoglio di avere finalmente aperto una breccia.

In effetti fu lei a prendere l’iniziativa: “Come avrai sentito, mi chiamo Anna” disse, riferendosi al fatto che il suo nome veniva gridato e invocato spesso tra i tavoli della sala da pranzo, dove portava bottiglie di vino o di acqua minerale, o tappi di plastica, posate e tovaglioli. Gli porse la mano, lui la strinse, sorrise e riuscì infine a pronunciare “Io sono Giovanni”.

Erano le due e mezzo del 25 giugno 1982, un pomeriggio afoso con il cielo grigio, perlaceo, coperto e pesante. Ma lui si sentiva leggero, solare, udiva trombe dentro che intonavano l’”Exsultate”.  Si era prefisso uno scopo e l’aveva ottenuto, era riuscito a vincersi, a dominarsi, e ora stava parlando con lei. Erano banali scambi di notizie anagrafiche: dove abitava, la scuola, le idee. Sapere che entrambi frequentassero il liceo classico fu il punto comune che li legò ancora di più.

Anna ora gli parlava del libro che lui aveva appoggiato sul cuscino a righe del dondolo: l’aveva anche lei e lo stava leggendo proprio in quei giorni, ma era alcuni capitoli più indietro. Il pomeriggio passò veloce mentre si raccontavano, mentre si aprivano alle loro affinità che potevano preludere all’amicizia o anche all’amore. Giovanni era già innamorato, lo era segretamente da quando l’aveva vista la prima volta.

Erano quasi le cinque. Anna Abbandonò la “Settimana Enigmistica” dove, conversando, avevano risolto insieme qualche gioco - lui le aveva insegnato gli anagrammi, i cambi di consonante, i lucchetti, le zeppe; lei era più portata per i giochi logici. “Devo andare a comprare un paio di scarpe” gli disse alzandosi, “ci vediamo stasera”. Aggiunse “Esci con noi?”, riferendosi al gruppetto che componeva con il fratello e un’amica che era ospite sua, forse una compagna di classe. Giovanni disse subito di sì, non aspettava altro. “Allora ciao, ci troviamo qui fuori dopo cena”.

La guardò allontanarsi per i portici, verso i negozi del centro. Rimase ad osservare il suo vestito azzurro a fiori finché non divenne un punto indefinito nell’ombra. Poi si alzò e andò nella saletta della televisione: stava per cominciare Austria-Germania Occidentale, partita dei Mondiali di Spagna.  Seduto in una poltrona scozzese, pensava ancora ad Anna. Era innamorato.

2'007

DIPINTO DI LEONID AFREMOV

sabato 7 settembre 2019

Le grotte sono chiuse

 

Fuori il lago si versa azzurro come un mare di Sardegna nel catino limitato dalla penisola di Sirmione. Appena oltre le vecchie mura uomini e donne sdraiati sulla spiaggetta sassosa, alcuni sono nell’acqua chiara del lago, lasciano che le onde gli passino addosso. È domenica e barche e motoscafi bianchi galleggiano al largo, sullo sfondo la sponda veronese con Peschiera e Lazise. Le vie del centro invece pullulano di turisti tedeschi e olandesi, austriaci e francesi, spagnoli e inglesi; ci sono anche i nuovi ricchi russi. E poi i pensionati delle più svariate congregazioni: dopolavoro, cooperative, pro loco, sindacati: sono scesi dal battello e attendono tra gelaterie, bar e negozi di souvenir che venga l’ora di risalire sul traghetto per Desenzano, Salò, Bardolino o Riva. Li si riconosce dal cappellino.

Ne approfitto per rendere omaggio a uno dei miei maestri, Catullo. Quasi certamente le rovine sulla punta della penisola, in posizione davvero invidiabile, non sono la sua villa, se anche risalgono al periodo romano. Percorro tutta la cittadina, dal mio hotel presso il Castello Scaligero alle Terme e da lì sulla strada tra gli oliveti che sale appena affiancando una veduta mozzafiato del lago, sullo sfondo il Monte Baldo e una quinta di altre basse montagne. Ogni tanto passa il trenino elettrico su gomma che trasporta una dozzina di persone. Ma, ahimè, ho fatto i conti senza l’oste: le Grotte di Catullo sono inspiegabilmente chiuse, i cancelli impediscono il varco e i quattro euro per il biglietto restano in tasca. Con me qualche coppia di turisti stranieri, una professoressa di latino e greco napoletana, una agguerrita signora della provincia veronese che interpella la custode. “Oggi restiamo chiusi per disposizione ministeriale” chiosa lei, una donna bionda sui trentacinque anni ma non riesce a dare una spiegazione plausibile. Il cartello indica chiaramente che la domenica le Grotte sono aperte dalle 9.30 alle 18. Però si lamenta che deve comunque rimanere lì con due colleghi invece di andare a sguazzare nel Garda dove esce lo scarico solforoso delle terme. La professoressa si altera un po’, tira in ballo il ministro, la signora veronese le dice che non vale la pena. Ma mi fa male quando, deluso, vengo via e sento il commento dei tedeschi: “Italien...” Per fortuna dal piazzale si gode una vista meravigliosa sull’altra metà del Garda, decine di natanti galleggiano sotto il sole del pomeriggio. Lame di luce scintillano, si riverberano sugli oleandri.

Torno in città gustandomi la dolcezza del giorno di fine agosto, l’aria buona del lago che fa fiorire le buganvillee e i limoni, che accarezza con mano leggera. Dove partono i battelli della Navigarda c’è la statua di Catullo: dopo tanti anni il suo busto è diventato verde. Eccoci qui, Gaio Valerio: odio e amo anch’io, non Lesbia come te, non la mia ragazza che ha preferito stendersi al sole nella spiaggetta davanti all’hotel. Odio e amo questo splendido paese che si chiama Italia.


DSC_6886

FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 31 agosto 2019

Nell’attraversare il ponte

Aspettavo la sera per passare il ponte, quando il fiume mulinava verde di giada e i sassi del greto erano indeterminate forme chiare. Nell'ultima luce la corona dei monti vicini appariva nera, le cime aguzze più lontane invece erano chiare, come se fossero coperte di neve. Si accendevano le stelle, il disco o la falce della luna.

Attraversavo il ponte più lontano, solitario, non il ponte grande che usavano tutti, pieno di traffico e di automobili tanto che c'era anche un semaforo a regolarne il transito. Quel ponte aveva un che di plebeo, di sciatto, con la ringhiera lavorata verde e gli ampi marciapiedi dove si poteva sostare e guardare l'acqua correre via tra le rocce. E poi c'erano troppe luci: i fanali, i fari delle auto, l'illuminato imbocco della Piazza del Teatro.

Non attraversavo neppure il ponte delle Poste, vicino all'antica chiesa di Santo Spirito, dove si aprivano la zona ricca, le colline, il Grand Hotel, con i bandieroni bianchi e rossi svolazzanti sui pennoni i giorni delle feste e lo stemma civico a mosaico sulla spalletta. Da lì la città appariva in tutto il suo barocco ridondare: le costruzioni in stile Liberty, le cupole tondeggianti, il Duomo con l'orologio, la Porta, il lusso della fontana e della Banca subito dopo il ponte.

No: amavo attraversare nel buio il ponte pedonale, largo due metri, illuminato da pochi lampioni dalla luce fioca. Lì lentamente finiva il viale alberato per far posto ai negozi dei turisti e una via altrettanto oscura riconduceva al centro della città sotto la chioma di immensi ippocastani.

Non so perché prediligessi quel ponte, al quale si arrivava con un cammino un poco tortuoso, deviando dalla strada principale e passando dietro i campi da tennis e il supermercato: passavo di lì perché nell’attraversare il ponte, guardando l'acqua, i monti e le stelle, provavo un'emozione.

1994

FOTOGRAFIA © TRIPADVISOR

sabato 24 agosto 2019

Una fotografia


“Noi siamo nati per un’altra gioia”
ANDRÉ GIDE, La porta stretta

Però com’eri bella tu. Soltanto adesso me ne accorgo, adesso che tanto tempo è passato e il calendario è un fiume in piena. Nel ricordo diventi ancora più bella e io ancora più stupido e impacciato. Non so se darmi dell’idiota o se incolpare gli eventi, addossare le colpe alla mano lunga del Fato, alle catene del caso, all’incidenza della probabilità. “La prima che hai detto” mi sembra di sentirtelo dire e poi ridere con quel modo che avevi di inclinare il capo all’indietro e di scuotere l’onda dei capelli. “La prima che hai detto”, ma sapessi come sono cambiato e che cosa ho passato...

Di quelle sere con te mi resta il ricordo dolce e amaro, sento in bocca il sapore di qualcosa che forse era soltanto la nostra incoscienza, l’acerbo frutto della giovinezza. Mi inebrio della dolcezza che mi dava stringerti a me, guardarti con aria sognante o solo stanca, abbandonata tra le mie braccia mentre cadeva la notte. Adesso è come una febbre pensarti: un bruciore che arde sulla pelle e scotta nella mente, il fuoco tenuto costantemente acceso dalle Vestali negli antichi templi latini, la fiamma perenne dedicata ai caduti per la Patria nel Mausoleo di Largo Gemelli.

Non è rimpianto, non è neppure nostalgia. È un sentimento che fatico ad analizzare: forse una rassegnata resa all’ineluttabilità degli eventi, un comprendere che le cose non potevano andare diversamente, che ciò che potremmo chiamare destino o contingenza non è stato altro che il naturale corso delle cose. Era un amore puro, nel quale credevamo, e si è consumato in se stesso, si è esaurito così, spontaneamente, come una candela posta sotto una campana di vetro. Non come una pianta che si inaridisce e secca, ma proprio come un fuoco che si spegne per mancanza di ossigeno.

Separammo le nostre strade, cambiai città, amici, prospettive. Le nostre relazioni si limitavano a cartoline, a qualche telefonata di cortesia, ad appuntamenti da programmare che sapevamo bene non avremmo messo mai in calendario. Il tempo cominciò a scorrere più veloce, i giorni, i mesi, gli anni si accumularono come pietre. Oggi, cercando una mia vecchia foto da bambino in cui sono vestito da astronauta per Carnevale, da un fascio di istantanee è uscita la tua immagine, i colori leggermente sbiaditi: indossi quell’abito chiaro che tanto mi piaceva, stretto in vita da una cintura di cuoio e nei tuoi occhi brilla la scintilla dell’amore. Come Juan Ramón Jiménez anch’io posso dire: “In seguito la primavera più non eri tu, più non eri tu!”. Però com’eri bella, e com’era bella la nostra gioventù...

Marzo 2011

FOTOGRAFIA © BRIAN C. CHILLEMI

sabato 10 agosto 2019

Il dottor Ross


Mi hanno detto che adesso hai un fidanzato. Notizia sparata lì come se neppure mi dovesse interessare, come se tu non fossi stata da sempre la mira segreta del mio amore. Del resto, per essere sensibili nei miei riguardi, avrebbero dovuto essere a conoscenza di questo mio recondito sentimento. Io, come il poeta Nicanor Parra, ho risposto che quella notizia non poteva affatto riguardarmi. Non fiorivano le mimose come in quella poesia, ma un grigio novembre si perdeva nelle sue malinconiche spire fatte di pioggia e di nebbia.

Mi hanno detto anche che ci vai a letto – quello in realtà lo sospettavo, anche senza che me lo dicessero, evidentemente – ma, in realtà questa notizia era funzionale a un’altra: tua madre ci è rimasta male quando vi ha trovati abbracciati e nudi nel suo letto. Io mi sono immaginato la scena: tu nuda, lui nudo – aveva la faccia da fesso del dottor Ross di “Medici in prima linea” e una mascella che avrei contribuito volentieri a slogare a forza di pugni. In questo modo tua madre è venuta a scoprire che lo nascondevi in soffitta perché lei non sospettasse niente. Adesso è ridotta uno straccio, continua a borbottare e rischia che le venga un colpo. È andata a sfogarsi da un’amica pettegola e così il telefono senza fili ha portato la notizia fino a me.

Io intanto continuavo a dissimulare, facevo l’indifferente, il finto tonto. Ma eravamo a tavola e il boccone mi era andato di traverso. Cercavo di non tossire e guardavo con avidità il bicchiere dove scintillava un Chianti che pensavo sarebbe stato più piacevole. E continuavano a parlarmi di quel tipo – il dottor Ross, o insomma quello che mi immaginavo con il suo volto: “Dovresti conoscerlo” mi stava dicendo Ermete, che poi era il padrone di casa e mi aveva invitato a cena. “Era animatore in un club della Riviera” aggiunse Ileana, sua moglie ed eccellente cuoca, nonostante il rospo che mi si era piazzato in gola. Ma io non lo conoscevo, io non mi ricordavo di averlo mai incontrato, di averci mai avuto a che fare, se non per interposta persona e quella persona, accidenti! eri tu nel tuo letto, nuda, avvinghiata a lui...

Il televisore era acceso, a volume bassissimo: all’improvviso in uno spot ti vidi fuggire, inseguita da tua madre. Il tuo ganzo con la faccia del dottor Ross stava salendo su una scala a pioli, tentavate di arrampicarvi su un gigantesco ulivo centenario. Come in “Amarcord” quando lo zio matto interpretato da Ciccio Ingrassia sale su un albero e grida “Voglio una donna!” E a quel punto finalmente capii che tutto quanto non era che un sogno, uno spaventoso incubo in cui tu mi tradivi con il dottor Ross, e che il mio amore rimaneva salvo, almeno per il momento. Ero finalmente sveglio, sveglio come mai ero stato nella mia vita e presi la decisione di abbandonare gli indugi e di dichiararti quanto prima tutto il mio amore.

1996



FOTOGRAFIA © NBC

sabato 27 luglio 2019

In veranda


Siedo in veranda guardando Giovenzana e bevendo tè freddo, come un gentiluomo del Sud, di quelli che popolavano le scene di Via col vento o i romanzi di Maurice Denuzière. Certo, loro non guardavano Giovenzana, ma dalle verande di quelle belle ville bianche di legno con le alte colonne e le enormi scalee interne, lo sguardo spaziava sui campi di cotone, sugli ampi giardini dove svettavano pioppi, olmi, querce e noci di pecan. In redingote, sorbivano la loro bevanda ghiacciata dondolandosi sulle sedie.

Io invece guardo Giovenzana, lassù, adagiata con il suo campanile sul Monte San Genesio, una ferita bianca nel verde scuro del colle adesso che l’estate è ancora al suo colmo sebbene stia declinando verso la dolcezza di settembre. Indosso jeans e maglietta, ma il bicchiere di tè freddo è lo stesso, i cubetti di ghiaccio vi danzano regalando al bicchiere minute goccioline che contrastano con la calura di questo giorno d’agosto. Quella del colle è la visione consueta, quella che mi si presenta da questa veranda guardando a nord, ben prima che il Resegone o la Grigna si staglino nel cielo. Sono le prime propaggini delle Prealpi, quelle che ospitano i laghetti morenici di Annone, Alserio, Pusiano e Segrino. Appena di qua dal San Genesio la conca in cui riconosco l’imponente edificio dell’ospedale e la torre caratteristica della cittadina. Devo guardare un po’ più a ovest per scorgere il santuario di Montevecchia. Di solito mi soffermo ad ammirare il tramonto cadere lento su questa valletta, sciogliersi in tinte che vanno dall’arancione al rosa, innescando talora con le nuvole incredibili reazioni d’oro e d’argento, di porpora e di viola.

Sono le tre di pomeriggio e il sole picchia forte. Per fortuna, sono all’ombra con il mio libro di racconti. Ho letto troppo, ho la vista annebbiata. Tolgo gli occhiali, chiudo gli occhi. Ed è lì con gli occhi chiusi che mi viene l’idea, mentre nella strada passa un camion che forse con il suo rumore di gomme ha inconsciamente risvegliato un antico ricordo: adesso riapro gli occhi e non sono più qui, su questa veranda a guardare Giovenzana allungarsi nella foschia del San Genesio, ma mi trovo su un’altra veranda, quella dell’Hotel C*** di Lignano Pineta e davanti ho il grande palazzo bianco con i portici e decine di appartamenti affittati per le vacanze. Per la strada passano turisti austriaci e tedeschi, olandesi e italiani con i materassini e le infradito, turiste con le borse da spiaggia e il pareo, oppure con il reggiseno del bikini e i pantaloncini. E dal bar arriva rumore di bicchieri, di cucchiaini che tintinnano nelle tazzine di caffè. Nell’aria il salmastro del mare e l’aroma di resina che proviene dai pini. Così, come per incanto, come avviene in certi film americani senza pretese o in misteriosi racconti di Buzzati o di Kafka. Adesso riapro gli occhi e mi trovo davvero là… Ma intanto continuo a figurarmi quella scena, per paura che svanisca se dovessi riaprire gli occhi: il tavolino sotto i pini, lo stesso libro davanti, lo stesso tè, i palazzoni bianchi di Pineta, i turisti per la strada.

Poi gli occhi li devo riaprire per forza, mica posso restare tutto il pomeriggio così, a sognare di trovarmi altrove: non c’è Lignano Pineta, non è la veranda dell’Hotel C*** ma il mio solito balcone di tutti i giorni con le vecchie mattonelle porose grigie e rosse, con la ringhiera verde e le gazanie nelle fioriere appese, gli ibischi e le piante grasse nei vasi. E Giovenzana abbarbicata al colle. Come mi piace la sera quando nell’ultima luce il San Genesio si tinge di viola…

2011


FOTOGRAFIA © REAL ESTATE

sabato 6 luglio 2019

Afa

Dalla finestra socchiusa entrava il caldo della prima estate. Il rumore lontano di una trebbiatrice persisteva pesante nell’aria. Sdraiato sul letto, Cesare contemplava il soffitto bianco; immaginava che i propri pensieri fossero acrobati e che volteggiassero intorno al lampadario.

Nella strada passò una motocicletta. L’immobilità assoluta era l’unico modo di vincere l’afa, restare fermi come un sasso sul greto di un fiume, perfettamente immobili. Una mosca volava nella stanza e il suo ronzio si confondeva con il rumore della trebbiatrice lontana. Cesare pensò a Teresa: l’altro giorno, insieme agli altri ragazzi, era stato alla gita lungo il fiume. E c’era anche lei.

Teresa aveva lunghi capelli scuri e un’aria molto furba. Ciò che più gli piaceva in lei era la voce, quella voce calda e dolce. Erano stati insieme tutta la giornata eppure lui non le aveva rivolto neanche una volta la parola, se non nel saluto corale, quando a sera ognuno aveva ripreso la via di casa. E pensare che si era immaginato tante volte il giorno in cui sarebbero stati insieme lui e Teresa in una delle famose gite degli amici. Come quando erano stati in montagna e avevano detto che sarebbe venuta anche Teresa ma poi lei non c’era e lui quante volte aveva pensato a lei quel giorno...   

Cesare meditò sul fatto che non solo con Teresa si era comportato così ma con tutte le ragazze. Proprio tutte no: c’era Lucia, che lui considerava ormai come una sorella, con lei parlava anche per ore. Poi c’era Maria, così sensibile, così simile a lui. Forse era proprio quella compatibilità di carattere che lo aveva spinto a parlarle. Cesare pensò ancora una volta a Teresa, così dolce, così desiderabile. Si voltò su un fianco e fantasticò su come fare per dichiararsi a lei… Con la sua immagine negli occhi e nei pensieri, si addormentò.

(Maggio 1989)



ASHA CAROLYN YOUN, “RAGAZZO CHE DORME”

sabato 15 giugno 2019

Decadenza


I.

L’impero è ormai nella fase discendente sulla parabola della decadenza. Tra nani e ballerine a corte langue in una miasmatica palude, il circo del potere si rivolta nel suo fango, ché i maiali nel brago non fanno diversamente, se non per quel loro naturale essere animali. Le amanti prezzolate percorrono i corridoi delle ville, sfilano senza veli passando da una stanza all’altra, si lasciano stringere e toccare con violenza e a loro volta si avvinghiano e si muovono su corpi di uomini che il giorno dopo ritrovi sugli alti scranni, su corpi di donne che riempiranno i postriboli e le suburre.

È una tranquilla notte di questa decadenza, la luna taglia a fette il cielo, riversa sui palazzi la sua luce fredda, incapace di purificare il lerciume che colma le strade. I savi, gli onesti si rintanano nelle loro case, leggono alla fioca luce, cercano risposte alle domande più irrisolte, scaldandosi alla fiamma del genio. Rari passanti scolpiscono le loro ombre nei vicoli, avanzano con l’aria di congiurati. Ma tutti sanno quello che accade nelle alte sfere, tutti conoscono gli sfarzi esagerati, i lussi sfrenati che i senatori si concedono, le connessioni segrete tra le milizie e gli affari sporchi. Nessuno fa niente, nessuno può denunciare quello che è sotto gli occhi tutti: lo fanno i guitti nei cantoni dei teatri, ma nessuno può credere a chi indossa una maschera, a chi ghigna e non prende sul serio la vita.

Le scolte si aggirano sulle mura mentre a palazzo le odalische agitano i loro ombelichi. Dicono che l’imperatore brucerà Roma, che ne farà una catasta di legna annerita. Niente di più facile. Adesso sarà avvinghiato alle reni di qualche danzatrice o di una suonatrice di flauto, o forse avrà voluto provare il brivido di una schiava nubiana. Ma intanto, perso ad inseguire questi pensieri di lussuria e di potere, sono arrivato alla mia meta. Il portone è sprangato, i grossi cardini arrugginiti sembra impossibile che possano girare su se stessi. Busso con il segno convenzionale e attendo, guardandomi intorno se mai qualcuno mi avesse seguito. La porta si apre cigolando: sembra che non ci sia nessuno, ma so che nell’ombra scura c’è un gigantesco pescatore pronto ad assalire un centurione o un sicario mandato dall’imperatore.


II.

Dentro, nel ricco palazzo, le solite facce, sempre più impaurite. Caio Licinio Scrofola sta narrando l’ultima trovata dell’imperatore: si fa imbandire la tavola su una schiava nuda e prende a piene mani dal suo corpo le pietanze. “Mai si era visto un triclinio simile” commenta a metà tra l’indignato e il sorridente Giunio Tranquillo Vatinio. Lo schiavo intanto gli versa il Falerno nella coppa, quello stesso Falerno che scorre a fiumi nelle feste dell’imperatore. Voci incontrollate dicono addirittura che ci fanno il bagno le amanti più prestigiose.

Ma adesso è il tempo di abbandonare le facezie e le dicerie, è l’ora di mettere a punto la strategia. Adesso che ci siamo tutti, Lucio Nonio Bestia dice che è meglio parlare di cose serie. Come salvare Roma, come salvare l’impero da questa corruzione di costumi che infanga ogni cosa, che travolge porci e colombe, che colpisce colpevoli e innocenti allo stesso modo. Ci sarebbe il fratellastro dell’imperatore: possiamo contare su di lui? Lo possiamo sostenere? Publio Valerio Gavio dice di no, se poi somiglia a sua madre, che fu voluttuosa amante dell’imperatore e del padre di questi contemporaneamente, allora c’è poco da farci assegnamento. Il filosofo Marco Bruto Rufino disquisisce di forme alternative di governo, ma è lui il primo a sapere che non è possibile sbaragliare l’impero, le connessioni tra potere politico e militare. Bisognerebbe tornare ai tempi di Cincinnato, ai consoli dell’età repubblicana.

La notte si è fatta ancora più silenziosa, se tendi l’orecchio puoi sentire la voce delle cascatelle del Tevere. Non si conclude niente, neppure questa sera: queste riunioni di intellettuali si vanno trasformando sempre più in una consorteria dove si rovesciano vane e belle parole. Poi giunge un messo, è allarmato, affaticato. Porge il suo dispaccio al padrone di casa, a voce bassa, a occhi bassi. Gaio Cornelio Agrippa lacera il sigillo rosso, svolge il rotolo, muove rapidi gli occhi sul testo, poi mi guarda e sbianca in viso. “Siamo perduti”. Non riesce a dire altro. Con la daga estratta dalla toga gli taglio la gola. Poi, rapidamente, passo a fil di spada gli altri cinque. Era da tempo che sospettavo ci fosse qualche spia a palazzo. Lo stesso mio mestiere, guarda che combinazione... L’imperatore stanotte mi ricompenserà: vorrà ripagarmi con una schiava della Pannonia, ma io voglio sesterzi, solo sesterzi...

(2009-2011)



FOTOGRAFIA © PERMANENTLY SCATTERBRAINED

sabato 25 maggio 2019

Vittorio


Martedì 21 maggio, San Vittorio. Non è un incipit originale: confesso di averlo copiato dalla Signorina Felicita di Guido Gozzano. In fondo, il meccanismo è lo stesso: leggendo il nome del santo del giorno sul calendario, l’ho associato subito all’immagine di un amico scomparso ormai da troppi anni, portato via da un male di quelli che vengono definiti “incurabili”.

Quel nome, come un tappo tolto da una bottiglia scatena l’aroma del vino, ha dato la stura ai ricordi: Vittorio che un pomeriggio d’inverno quando ero bambino, durante le vacanze di Natale,  incontrò per strada me e mio padre che andavamo a prendere il treno per Bergamo e, saputo che ci stavamo recando in città per vedere l’ultimo film di Bud Spencer e Terence Hill, “Più forte ragazzi”, non volle sentire altro e ci accompagnò lui stesso al cinema con la sua Cinquecento blu chiaro. Fu un pomeriggio indimenticabile di cazzotti e risate e amicizia.

E ancora Vittorio che una sera che tornavo in licenza quando ero militare incontrai a Peschiera del Garda dove mi ero fermato per una sosta e mi portò a mangiare una pizza in un locale galleggiante sul lago mentre le luci della costa si riflettevano tutto intorno a noi. Ero un giovane uomo allora e parlammo, noi soli, di cose molto profonde: delle donne e dell’amore, di come la vita sa fregarti…

Sembrava presagire quella sera sul Garda: anni dopo lo incontrai alla stazione di Sesto San Giovanni, sulla banchina aspettava come me il treno che ci avrebbe riportato a casa. Capii che era malato dalla luce dei suoi occhi, come se volesse dirmelo e non osasse. Si sforzò quel tardo pomeriggio di essere affabile, di essere il simpatico amico più grande che mi aveva insegnato a risolvere i rebus. Ma io avevo intuito, io avevo capito e tenevo le lacrime ben strette, quelle stesse lacrime che ora si sfogano e rigano le mie gote mentre ricordo, quelle stesse lacrime che versai dietro un paio di occhiali da sole il mattino in cui lo salutai per sempre, venti anni fa, in un piccolo cimitero di campagna.

21 maggio 2019



DIPINTO DI JOHN LAUTERMILCH


sabato 18 maggio 2019

Dopo il temporale


Il temporale era quasi passato ormai: le pesanti nuvole grigie colme di pioggia gravavano a levante sulla costa, dipingendo strie di fumo sul mare. Avevamo trovato riparo in uno dei bar della spiaggia, seduti con il tuo tè al bergamotto e la mia birra a osservare l'uragano scatenarsi sull'arenile, sugli alberi del lungomare: sembrava volesse svellerli e scagliarli lontano e intanto trasformava la strada in un fiume. Il juke-box suonava canzoni che pesavano sul cuore e si mescolavano ai rombi dei tuoni, allo scroscio incessante e violento sulle grondaie, sui vetri del bar. Le nostre parole erano di due che si erano amati un tempo e forse si amavano ancora ma che il corso degli eventi aveva separato e condotto su strade diverse. Eppure non era trascorso che un anno.

Quando la pioggia finalmente cessò e già un occhio azzurro si apriva nel cielo, uscimmo dal nostro rifugio e ci dirigemmo verso il pontile. Il vento ci incollava addosso i vestiti, il mondo si specchiava difforme nelle vaste pozzanghere lasciate dal fortunale, dove le tue ballerine rosse si bagnavano. Mi raccontavi di come avevi conosciuto lui, di come le cose si fossero incastrate simili alle tessere di un puzzle o a una serie di ingranaggi e ti eri ritrovata senza saperlo in una storia. Fingevo indifferenza ma ribolliva in me un lago amaro di malinconia, un dolore sotterraneo che non sapeva decidersi ad uscire. Sapevo da tempo che la tua strada poteva divergere dalla mia, sapevo che questa possibilità non era remota, eppure mi ero costruito il mio bel castello di illusioni e ora andava in pezzi, scivolava carta dopo carta sul tavolo dei sogni. E ogni carta diventava di piombo, sfondava il tavolo e cadeva sul pavimento. Non mi rimanevano che fragili e taglienti pezzi di cristallo.

Salimmo sul pontile, sotto di noi il mare si agitava tra i piloni, formava onde spumose che alzavano alti spruzzi e si dirigevano minacciose verso riva. L'odore di salmastro riempiva le narici, scendeva dentro. Il maestrale soffiava forte, sospingeva i tuoi capelli chiari sul mio viso. Era una beffarda carezza adesso che tu non eri più mia, adesso che il tempo ci aveva condotto su strade che non coincidevano se non in rari approdi. Il temporale era passato ormai ma persisteva in me con il sapore amaro che hanno le cose perdute.

2010



sabato 11 maggio 2019

Il riconoscimento


Ti conoscevo già da anni, ma fu solo in quel pomeriggio di giugno che ti rivelasti a me improvvisamente. Erano le ore più calde del giorno d'estate e il sole era tornato a splendere dopo una notte e un mattino di pioggia. Mi apparisti nella luce, come una Madonna, ti vidi con occhi diversi; fu come se all'improvviso uno zoom riconoscesse te in una folla immensa, una su centomila, una su un milione, una sui miliardi di abitanti che popolano la Terra. Te sola in uno stadio, te sola in un concerto rock, te sola in una spiaggia che si snoda per chilometri di ombrelloni e sedie a sdraio.

Ti riconobbi come la squaw che realizzai un giorno con il mosaico Quercetti, quelle tessere colorate da inserire negli appositi spazi di un telaio bianco seguendo uno schema di posizioni e di colori. Ricordo che mi piacque tanto che fotografai l'opera ottenuta e ancora adesso conservo nel mio album quel viso dolce incorniciato da trecce corvine, una fascia a cingere la fronte. Me n'ero innamorato a dieci anni, sì. È per questo che l'ho riconosciuta in te: ho riconosciuto l'amore.

E in quella strada assolata lo capii subito: dicesti «Ciao» e sentii il cuore martellare impazzito come un pistone, sentii un calore invadermi istantaneamente, il rossore salirmi alle guance, gli occhi tendersi a comprenderti tutta, come a fotografarti per ricordare, proprio allo stesso modo con cui avevo immortalato la squaw. Eri stata il nulla per anni, eri il nulla un istante prima, una via prima di quella e adesso d'un tratto diventavi l'universo mondo, il sole cui orbita attorno ogni pianeta, la calamita che attira il metallo, la mia Afrodite sorta dalla spuma del mare, l'isola alla quale si aggrappa il naufrago.

Ti riconobbi in quell'istante - forse è quello che chiamano colpo di fulmine, io preferisco pensare a un atto di riconoscimento, a un capire, prendere coscienza. Ti riconobbi e sentii cambiare la mia vita: eri appena passata accanto a me, eri a qualche passo da me, a dieci metri, stavi per svoltare l'angolo e sapevo che il mio fine da quel momento eri tu, che ogni mio pensiero, ogni mia azione era rivolta a te, doveva fare i conti con te, mia squaw.


1997

FOTOGRAFIA DA PINTEREST

sabato 4 maggio 2019

In questa uniforme di tuo soldato (3)

 

14. Merano, Delegazione Presidiaria, Lunedì 6 marzo 1989 (44 all'alba)

Sono le cinque. Il Maresciallo e i Carabinieri hanno ormai varcato il cancello verde e stanno tornando alle loro case. La primavera diffonde i suoi effluvi, con i ciliegi in fiore sulle colline; un tepore piacevole aleggia nell’aria. Questa infinita dolcezza che viene con il tramonto nasce dal tiepido sole o dalle nuove sirene di libertà che mi incantano? Lancio la pallina da tennis nel cortile. Cominciamo a giocare a calcio con quella piccola sfera utilizzando il solido cancello verde come porta. Al di là dell’inferriata pulsa la vita: scorrono automobili, motorini, biciclette. Gli autobus arancioni dell’azienda municipale sostano e ripartono caricando e scaricando gente, quelli blu della società Dolomite entrano nel vicino deposito, altri ne ripartono. Il sole cala e nella conca dei monti scende ormai l’oscurità. Mancano pochi giorni al congedo, mi crogiolo in questa nuova situazione, sento che tutti gli sforzi di un anno svaniscono lentamente nel sapore della libertà che mi appresto a gustare di nuovo.

Ora non si vede quasi più, si accendono le luci della strada, si illuminano le finestre dei palazzi. Ripongo la pallina e chiudo l'ufficio. Ferrario serra la porta del Nucleo Carabinieri. Rossi ci guarda nella sua divisa nuova e con la solita aria del "Che cosa ci faccio io qui?". Non trovo parole ma un altro sguardo di malinconia oltre quel cancello dove scorre la strada rumorosa. L’apatia di un lunedì in cui nulla più soccorre l’inesorabile continuo fluire nella clessidra della sabbia fine. Guardo l'ultima luce cadere sui monti: ho un’infinita dolcezza nel cuore.

15. Merano, Caserma Battisti, Giovedì 30 marzo 1989 (20 all'alba)

Sono la "Max" adesso. È piacevole entrare in una camerata di nipoti ed essere invidiato perché il prossimo a congedarmi sono io. Non approfitto della situazione, non è nel mio stile. Voglio che mi ricordino come una "Max" umana e comprensiva. Del resto, atti di nonnismo non ne ho mai subiti. Solo qualche "sbrandata" da parte dei congedanti. Bastava rifare il letto e tutto finiva lì.

No, non mi mancherà questo gergo di caserma: non mi mancheranno i "vurìa mai", i "giassài", gli "un po' massa". Non mi mancheranno i "non ti passa più", i "tralicci", la "Superpippo". Chiaro che è un linguaggio per iniziati, che non ha senso fuori di qui: tradotti sarebbero "proprio no", "certo", un atteggiamento irrispettoso verso un grado di scaglione più alto, un modo di dire che il tempo non passa a fare una certa cosa, gli altoatesini e i mutandoni di lana.

Mi mancherà la città, quello sì. Mi mancheranno gli amici che ho conosciuto in questa esperienza e che difficilmente so che rivedrò. Ma, bando alle malinconie, entro in camerata e grido: "Ritti, perdio, entra la Max!"

16. Verona, Porta Nuova, Martedì 4 aprile 1989 (15 all'alba)

Verona lancia luci al neon nel vetro del finestrino opaco e impolverato. Torno a casa per l'altra metà della licenza ordinaria. Ho preferito spezzarla in due: invece di undici giorni filati ho scelto la modalità cinque e sei. Tornerò a Merano lunedì. E comincerò a pregustare la libertà in questi sei giorni a casa. Il treno sosta a Porta Nuova: c'è uno sciopero di un'ora del personale di macchina. Dietro la stazione c’è un cielo illuminato, lo stesso cielo di Romeo e Giulietta - mi viene di pensare. Conosco quel balcone e quel cortile, le scritte colorate degli innamorati sui muri della casa. Conosco l'arca dove ogni amante prega e getta la sua lettera colma di passione.

È una sera sanguigna e fatata questa di Verona: la osservo dal piazzale antistante la stazione. È come se la città avesse assunto il volto di Giulietta, le sue dita affusolate, il suo modo di sorridere, il pudore: come se fosse davvero fatta della stessa stoffa dei sogni. Non ho tempo per raggiungere il centro: tra poco il treno ripartirà. Lo annunciano. Saluto Giulietta, saluto Verona, salgo in carrozza pensando che tra due settimane mi congederò...

17. Merano, Lungopassirio, Martedì 18 aprile 1989 (1 all'alba)

Ci hanno dato il permesso di uscire per il pomeriggio: siamo sciamati tutti dalla Bosin nel sole di aprile, leggeri come fantasmi - del resto i congedanti nel gergo della caserma vengono detti “fantasmi” o “borghesi”. Avviene dopo il prelievo obbligatorio di sangue. Prima di allora, in quest’ultimo mese ci hanno chiamati “Max” e quando entravamo nella stanza, gridavamo “Ritti, perdio, entra la Max!”. Ora invece cantiamo "Allarme, siam borghesi! / Son giorni e non son mesi!".

Da qualche giorno stanno piantando dei pali dentro il fiume, grandi draghe sostano sul greto sassoso del Passirio presso il ponte a passerella che conduce in zone un poco periferiche. Com’è verde l’acqua: sembra quasi opale! Sarà per via della primavera.

E camminando sulla passeggiata, alle spalle la Chiesa protestante, ci siamo soffermati a guardare gli operai che lavorano nell’aria tiepida, chiedendoci lo scopo di quei pali, ben sapendo con una punta d'orgoglio che partiremo prima che loro finiscano, senza conoscerlo.

Il pomeriggio scorre leggero, l’aria di primavera ci riscalda i cuori. Nelle antiche vie andiamo finalmente assaporando quella libertà che domani ci porterà. Ammiriamo le vetrine e le commesse dei negozi del centro, sulle panchine Liberty del lungofiume sostiamo oziando e osservando i bianchi gorghi, ben consapevoli che questa nostra compagnia domani si disgregherà. Beviamo birra al banco della Forst, girovaghi perduti nel pomeriggio. Personaggi di un libro di Hermann Hesse, ceneremo insieme come a celebrare il ritorno alla vita, presto liberi quando tornerà a risplendere il sole.

18. Merano, Caserma Bosin, Mercoledì 19 aprile 1989 (L'alba)

Non siamo riusciti a dormire questa notte. Noi congedanti abbiamo aspettato ansiosi che venisse l’alba: il nuovo sole che avrebbe portato la libertà, una svolta nelle nostre vite dopo un anno trascorso lontano da casa. L’adrenalina, l’ansia, l’angoscia ci hanno consentito solo brevi sonni intermittenti. E parlavamo, sottovoce. Finalmente alla grande finestra della camerata, che dà sul giardinetto interno, a Oriente, è filtrata la prima luce. «È finita! È finita!» si sentiva gridare, «Finita! Finita!» replicavano altre voci, «È finita!» ho gridato anch'io entusiasta.

Ho fatto colazione, pensando che per l’ultima volta avrei avuto quella scodella di metallo, quei biscotti secchi confezionati in cubi di stagnola, quel succo di frutta da stappare con il manico della forchetta. E poi l’adunata, l’ultima. Noi congedanti già vestiti in borghese, con il cappello alpino in testa, sull’attenti mentre suonava l’inno, mentre la bandiera era issata sul pennone. «Rompete le righe!», l’ultimo comando. Quindi in camerata a prendere materasso e lenzuola per riconsegnarle in magazzino. «È finita!»

Il comandante ci ha dato appuntamento per le dieci nel salone ricreativo. È venuto con i congedi, e uno per uno abbiamo firmato. Il maggiore Cornacchione ci ha tenuto un discorsetto sul futuro, su quello che ci aspetta fuori di qui, su quello che ci si aspetta da noi. Come un padre di famiglia, quell'uomo apparentemente burbero dalla barba scura quasi si è commosso. Siamo corsi in camerata a prendere le borse, il prezioso foglio arrotolato in mano.

Varco per l'ultima volta il cancello della caserma: tra me e la libertà ci sono ora solo pochi metri. Saluto la guardia che mi apre il cancello, mi volto indietro ancora una volta a guardare i muri tinteggiati di giallo e marrone, la bandiera che sventola nel cielo incerto di aprile sul pennone nel piazzale dell’adunata, i camion che viaggiano per i viali della caserma, la corvée che ramazza i marciapiedi, la vita che continua immutabile in questo piccolo mondo.

Sono fuori, mi tolgo il cappello con la penna nera, avanzo verso la vita e mi rendo conto solo adesso di aver ritrovato la libertà, ne sento subito il sapore salendo per la stradina sterrata che conduce alla strada principale. Guardo il fiume scintillante sotto il sole del mattino: non l'avevo mai visto così neanche quando lo attraversavo al ponte di Santo Spirito tornando dalla Posta. Ora lo vedo con gli occhi della libertà e sembra ancora più bello, con le nuvole cerulee che vi si frantumano.


 Alba

Merano, Caserma “Leone Bosin”, 19 aprile 1989: L’alba

sabato 27 aprile 2019

In questa uniforme di tuo soldato (2)


7. Merano, Caserma Battisti, Sabato 15 luglio 1988 (278 all'alba)

C'è stato temporale questa notte. Ora il cielo è azzurro e si riflette nelle pozzanghere sull'asfalto. I monti mi tentano come un'Eva dei paradisi perduti, mi fanno intravedere la libertà, quella che le gazze si portano in giro volando da un abete a un campanile romanico. Sto cominciando a conoscere questa caserma, la Cesare Battisti. Da una settimana mi hanno trasferito al Battaglione Logistico Orobica: sono assegnato alla Delegazione Presidiaria in qualità di scritturale. Vesto ogni giorno la divisa della festa: adesso quella estiva con pantaloni e camicia chiara: gli stivaletti hanno preso il posto delle pedule. Dopo due mesi ho finalmente la mia collocazione definitiva nell'ambito dell'esercito italiano. Sono contento di trovarmi qui, anche se rimpiango un po' la Bosin: qui non c'è la mensa, che hanno iniziato a ristrutturare, e si pranza e si cena in un locale di fortuna servito dalle cucine da campo. A pranzo arrivo sempre tardi, perché l'ufficio chiude alle 12 e la cosiddetta mensa apre alle 11.30. Quando mi siedo al tavolo sono già le 12.15 e mi porto sul vassoio quello che c'è: riso scotto o pasta, pollo, una bistecca, quando va bene la cotoletta appena impanata. La sera esco sempre, anche perché non ho né mai avrò servizi da svolgere, essendo il nostro ufficio, per il suo status particolare di appendice del Presidio di Bolzano, esentato dai compiti di caserma. Esco da solo, qualcuno poi trovo sempre per la città. Raramente ceno solitario. "Rainer", il "Pic-nic Grill" e la "Marinara" sono le mie mete solite. Qualche volta sperimentiamo posti nuovi.

Al momento sono alloggiato nel Minuto Mantenimento, ma appena ci sarà il congedo del 6°/87, Danilo, che è del mio paese, mi ha già trovato una branda nella sua camerata della Comando. L'ufficio si affaccia su Via Palade, proprio davanti all'ippodromo e ha una sua uscita privata. Mi hanno dato le chiavi e già fantastico sulla possibilità di uscire di soppiatto. Per arrivarci devo attraversare un bel pezzo di caserma: i depositi degli automezzi e dei cingolati, la casetta del sarto, il magazzino delle trasmissioni, le caldaie. Eccomi arrivato. La ramata verde, il cancelletto: entro nella mia nuova oasi.

8. Merano, Delegazione Presidiaria, Sabato 23 luglio 1988 (270 all'alba)

“Solo ciò che è trascorso o mutato o scomparso ci rivela il suo volto reale" c'è scritto nel racconto di Cesare Pavese che sto leggendo seduto nell'ozio del sabato estivo alla mia scrivania. Il maresciallo Ciulla è andato in città, il mio collega Ferrari è partito per la licenza ordinaria e tra un mese si congederà. Mi fa riflettere quella frase, mi fa pensare quanto mi manchi il sapore del sabato mattina adesso che sono qui. mi manca come l'aria. Era giorno di spesa il sabato: si andava al supermercato o nel grande negozio di ortofrutta. Poi c'erano da sistemare i meloni in cantina, la frutta nel locale lavanderia, le scatole di pasta e riso nella dispensa. Intanto il caffè bolliva sul gas e l'aroma si spandeva per la cucina. Mi sedevo a leggere il giornale guardando le lame di sole che entravano dalla finestra, sbocconcellavo il pane appena comprato.

Invece sono qui nella Delegazione Presidiaria, in questi freschi locali che un tempo furono il Circolo Sottufficiali, e guardo dalla finestra le ragazze con i vestiti a fiori che attendono l'autobus alla fermata. Invidio loro quella libertà di salire in città, di entrare in un negozio. Quando saliremo noi, sarà già passata l'una e i negozi saranno già chiusi. Magari con Miglio, il mio nuovo amico del Nucleo Carabinieri qui di fronte, scenderemo a Bolzano a bighellonare per il centro e a mangiare una fetta di torta nella pasticceria lungo i portici.

9. Merano, Kota Radja, Lunedì 8 agosto 1988 (254 all'alba)

Questa sera soffia vento d'Oriente: con Miglio e altri tre della camerata siamo venuti a cenare al Kota Radja, il ristorante cinese di Via Manzoni. Varcato il cancello siamo entrati in un mondo tutto nuovo. Tra le canne di bambù e il fruscio delle sete, ci gustiamo le "nuvole di drago" e la birra di Shanghai. Dal pergolato pendono lampioni di carta di riso, nel patio accogliente si aprono ombrelli di Nanchino.

Ceniamo mentre la brezza suona leggera le campane a vento e le cameriere ci insegnano a usare le bacchette ridendo appena come sanno fare solo gli orientali. Scherziamo come se fossimo degli antichi sodali stasera: Merano e le caserme sembrano così lontane mentre mangiamo pollo speziato e riso alla cantonese. Fingiamo di non sapere che oltre la porta scorre il Passirio e centinaia di militari sono a passeggio lungo il fiume e riempiono i cinema, i bar e le gelaterie.

10. Merano, Via Palade, Domenica 2 ottobre 1988 (199 all'alba)

Siamo usciti dal cancello su Via delle Palade e camminiamo lentamente verso la stazione ferroviaria di Maia Bassa. Io e Miglio, una coppia di amici ormai affiatata: lo affascinano la mia conoscenza dei classici e certi miei atteggiamenti. Io, al contempo, ammiro la sua abilità nel suonare la chitarra, la sua predilezione per la musica classica e la sua sincerità. Se i primi due elementi si traducono in qualche serata trascorsa al Teatro ad ascoltare quartetti d'archi, l'altro, la sincerità intendo, si manifesta in domande che fioriscono improvvise come un colpo di mitragliatrice. Come adesso: stiamo andando a prendere il treno per Bolzano e mi spara: "Ma tu che cosa pensi di me? Che persona credi che io sia?". Sono tre mesi che ci conosciamo e lontano da qui non so nemmeno neanche cosa faccia. Eppure glielo dico. Prima impressione, certo, ma è quella che di solito non sbaglia. Probabilmente sarà un'amicizia che non passerà Natale: a dicembre lui si congeda. Credo che non ci incontreremo più, eppure questa amicizia è intensa, concentrata, forse anche perché siamo consci di questa sua effimera durata. "L'espace d'un matin" gli dico e gli spiego che cosa significhi. Alla stazione troviamo altri ragazzi che conosciamo e il discorso che andava indagando nel nostro io si zittisce. Scendiamo guardando i campi di meli insieme agli altri. Li lasceremo al Mc Donald's di Piazza Walther o in qualche cinema. Scommetto che Miglio vuole andare a fare il filo alle cameriere della pasticceria lungo i portici. Cappuccino, Sacher e un po' di corte.

11. Merano, Haisrainer Weinstube, Piazza Duomo, Domenica 1° gennaio 1989 (108 all'alba)

L'anno nuovo è cominciato con bottiglie di spumante e fette di panettone, un'ora dopo il contrappello. Ero - straordinariamente, in quanto uno dei pochi graduati rimasti - caporale di giornata. Fuori, lampeggiava la grande scritta LAS VEGAS di un luna park nell'area dell'ippodromo. Tutto era così irreale, compresi gli auguri scambiati in camerata e i brindisi nei bicchieri di carta con vino scadente. La mia fascia rossa di caporale di giornata pendeva da uno dei pioli della branda, le luci azzurre di guerra riverberavano nella notte. "1989" mi ripetevo "1989, è l'anno dell'alba".

La festa non è ancora finita: per le strade ci sono bottiglie vuote e botti esplosi, carte colorate e stelle filanti. Noi reduci della camerata, quelli che hanno preferito la licenza di Natale a quella di Capodanno, pranziamo da Haisrainer, la taverna proprio di fianco al Duomo. Sono il più "anziano" come scaglione e il più alto in grado. Da queste cose si riesce ad apprezzare quanto tempo sia passato da quel 29 aprile. Ferrario, Bettoni, Perego, Cantoni che condividono con me questo pranzo del primo dell'anno si congederanno tra settembre e ottobre, mi considerano con un pizzico di invidia e con molto rispetto... Mangiamo pasta al sugo e spiedini alla zingara e parliamo del nuovo anno: siamo tutti più spensierati, come se avessimo attraversato una porta e fossimo entrati in una nuova stanza. Siamo oraziani coglitori di attimi.

Il gelato lo andiamo a mangiare da "Bruno". Quando ci portano il resto ci sono mille lire fior di stampa, quelle con Maria Montessori e i bambini. Ferrario prende una penna rossa, scrive la data sulla banconota e la firma. Poi ci invita tutti a siglarla. Alla fine, quando ognuno ha apposto la sua firma, la ripone come un santino nel portafogli: "Ragazzi, non sapete che ricordo mi avete regalato". Negli occhi gli si legge già il lampo di quando, tra qualche tempo, quando si sarà congedato, frugherà nel portafogli e ritroverà per caso quelle mille lire. Saremo simulacri allora, ricordi a cui la sua memoria cercherà di associare un volto. Resteremo sempre i ragazzi di oggi, 1° gennaio 1989, su quella banconota.

12. Merano, Delegazione Presidiaria, Mercoledì 11 gennaio 1989 (98 all'alba)

E ho varcato anche la fatidica soglia dei 100 giorni: il mach pi cento dei cadetti. Niente di che: una sera normale. Nella mia condizione di aggregato sono tagliato fuori dalle cene di scaglione, dai gruppi che si conservano nelle piccole caserme. Con il congedo del 1°/88 diventerò "vice", un grado di scaglione che sfiora l'onnipotenza. Già i servizi di scopa in camerata non mi toccano più. Le divise cominciano ad essere sformate, i cappellini hanno la tesa sempre più arcuata, il mio cappello è più largo e indurito grazie al trattamento con il cordiale. È prerogativa di chi ha passato i 100 giorni all'alba portarlo così.

Quell'asfissia che ho provato il primo giorno, quando i camion ci hanno condotto dalla stazione alla caserma, quel senso di soffocamento che ho sentito appena oltrepassata la sbarra a righe bianche e rosse, si è allentata notevolmente, va svanendo giorno dopo giorno. È proprio vero, come recita la cartolina che ho comprato al "Pandemonium": "Chi naja non prova libertà non apprezza”. Ora so che bene prezioso essa sia, ti rendi conto di quanto ti manchi solo quando non l'hai più: è una donna amata e perduta che desideri infinitamente.

13. Merano, Delegazione presidiaria, Mercoledì 1° febbraio 1989 (77 all'alba)

Ho fatto un sogno strano questa notte: ero in riva al mare e rientravano nel mattino i dragamine, lontane sagome scure nell'alba. Con me c'era Paola. Ci togliemmo le scarpe e lei, sbarazzina, mi trascinò nella bassa marea. Correvamo tra le pozze e la felicità ci gonfiava i cuori. Amaro è stato il risveglio quando il caporale di giornata è passato battendo manate sugli armadietti: "Giù dalle brande!" Mi ci è voluto un po' per raccapezzarmi, per capire che non mi trovavo nel comodo letto di un albergo sul mare, ma nella mia branda di militare.
Lavandomi, ho ripensato al sogno. Non era mai avvenuto nulla di simile. Ma l'inconscio è l'espressione dei nostri desideri, il sogno non fa altro che realizzarli. Strano che sia giunto solo adesso, che sia arrivato in una caserma di Merano. Un'alba d'amore per chi attende un'altra alba. A proposito, 77 giorni...


  5412_1147761105832_4711828_n
Merano, Delegazione Presidiaria, Ottobre 1988: Al… lavoro

sabato 20 aprile 2019

In questa uniforme di tuo soldato (1)


1. Merano, Stazione ferroviaria, giovedì 12 maggio 1988 (336 all'alba)

Merano... Stazione di Merano... Meran... Meran Bahnhof... gli annunci si susseguono con il loro ritmo metallico. Tra i binari nella luce incerta del tramonto volano i lanuginosi semi dei pioppi. Nel mio sguardo triste di soldato - anzi, di "recluta alpina", come mi definiscono i caporali del CAR - si riflettono i treni che scendono verso sud, che partono volando verso la pianura, verso casa. Quando l'ultima carrozza è passata e restano le rotaie, il cuore sembra perdere un colpo e la sua canzone segue un ritmo stonato. Allora conto i giorni che mi restano da trascorrere e sono un'enormità quelle albe che dovrò vedere sorgere dove sarò destinato dopo il CAR: a Vipiteno, Silandro, Malles, Bolzano o più probabilmente ancora qui, in un'altra caserma. Li ho contati e ricontati: 336. Dovrà arrivare e passare l'estate e poi l'autunno e l'inverno, Natale, Capodanno e Pasqua e un'altra primavera finalmente comincerà sull'ultimo mese.

Intreccio le dita sul collo infilandole dietro il bavero del giubbino di jeans. Massaggio il collo indolenzito da tante marce per i cortili della caserma - ora ho imparato: nóp dué nóp dué, e so fare decentemente anche il dietrofront. E mi dolgono anche i muscoli delle gambe: oggi ci hanno fatto sbalzare nell'erba: passo del gattino, passo del leopardo, con il fucile e la maschera antigas e il dannato elmetto. Il mio amico altoatesino con cui ho legato già dal primo giorno è di poche parole: meglio così, mi lascia tempo per riflettere. In compenso parla tedesco e questo è un vantaggio perché nei bar e nei ristoranti ci trattano con riguardo. Lui spera di avvicinarsi a casa, a Bressanone. Gli andrebbe benissimo Silandro. Lasciamo la stazione con i nostri giornali e un po' di malinconia. Quando siamo arrivati c'erano nuvole gialle sulla palazzina Liberty e ci siamo fermati a mangiare patatine al chiosco del piazzale; ora splende la luna e, percorrendo la strada del ritorno, sembra giocare a rimpiattino con i lampioni. Mi sembra vuoto il mio passo, inutile, mentre scendiamo per Via Petrarca verso le caserme gialle.

2. Merano, Piazza del Teatro, domenica 22 maggio 1988 (326 all'alba)

Ieri c'è stato il giuramento. Ora aspettiamo la nostra destinazione. Ci vorrà una settimana, dicono, o forse più. Probabile che mi mandino anche in licenza venerdì prossimo. Sembra di essere nella Fortezza Bastiani: non c'è altro da fare che attendere. Ora non facciamo più istruzione, ci limitiamo a bivaccare qua e là per la caserma, a oziare sul cubo, i caporali ci danno piccoli incarichi come spolverare o pulire i pavimenti. Aspettiamo. E pensiamo. L'amore, per esempio, ora non è che un fiore secco rimasto senza linfa e senza nutrimento, pende inanimato come il becco di un tordo in un carniere. Così mi capita di camminare solo per la città, a numerare i giorni - 24 fatti, 326 da fare - e le mie malinconie: Paola, Anna, Laura. Mi rendo conto che le mie amiche non ci sono, che mi mancano, che vivono i loro giorni altrove e i loro passi percorrono vie diverse da questa: è la bella Piazza del Teatro. Sono in libera uscita per il pomeriggio della domenica.

Le montagne di pietra e cielo, chiare nel sole, fermano lo sguardo. Il Passirio scorre rumoroso tra le rocce, i pali per gli slalom delle canoe sospesi nel cielo. Sì, il sogno è molto facile anche qui ma lei non vi rientra, ne rimane esclusa proprio come il vento non riesce a scavalcare quei crinali: non è una storia ormai conclusa, è solo indifferente a questo luogo.

3. Merano, Caserma Bosin, domenica 12 giugno 1988, Corpus Domini (311 all'alba)
 
Dieci giorni fa ho avuto la mia destinazione: sono alla Caserma Leone Bosin, a Merano, un chilometro dalla Caserma Rossi dove ho svolto il CAR. Sono in forze al Reparto Comando e Trasmissioni Orobica, alla compagnia Comando, e mi hanno fatto cambiare la nappina sul cappello da verde a blu e il distintivo dell'Edolo sulla divisa con quello del reparto. Sono "alpino" ora e non più recluta, ma nelle gerarchie della caserma appartengo all'ultimo gradino, il "nipote di terza". Ci spettano molte più incombenze che agli altri. Ho già svolto due corvée cucina e una corvée caserma e questa è già la mia seconda guardia. Sono sull'altana, la piazzola coperta e sopraelevata che domina dall'alto il perimetro della caserma. Il soldato che monta di guardia con me sta pattugliando lo stesso lato da sotto: lo vedo camminare su e giù. Poi, nel secondo turno, ci daremo il cambio. Sarà notte e a me va bene così: preferisco camminare per mantenermi sveglio.

Sta calando la sera breve di giugno: gazze volano con la loro livrea bianca e nera, me le immagino sui tetti del centro, sul campanile del Duomo, sull'antica chiesa di Santo Spirito. Mi immagino le ragazze a passeggio sul Lungopassirio, le gelaterie, i tavolini dei bar, i colori dei fiori, le insegne che si accendono. E io qui, con l'arma a tracolla che mi priva della mia libertà e i caricatori che pesano nelle tasche della mimetica. Poi d'improvviso sulle colline del Tirolo si accendono i cuori di lumini, decine di fiamme che vibrano nell'oscurità. Quasi non mi accorgo quando giunge il cambio, ma riesco a pronunciare le parole di rito: "Altolà chi va là?" "Capoposto con il cambio" "Capoposto avanti per riconoscimento" "Cambio avanti". Saluto il militare che mi sostituisce sull'altana, è un compagno dei tempi del CAR, e seguo il capoposto fino al Corpo di guardia. Appoggio fucile ed elmetto e mi sdraio. Riposo il corpo e la mente sulla brandina spigolosa.

4. Ponte di Legno, Val Sozzine, domenica 19 giugno 1988 (304 all'alba)

“Un bel aprés-midi de garde a l’écurie" mi ripeto questo verso di Apollinaire da quando sono montato di guardia tra i sacchetti di sabbia del bunker. Sacchetti che abbiamo riempito sulle rive del torrente Narcanello, qui in Val Sozzine, a Ponte di Legno, dove mi hanno spedito per il campo estivo. Devo dire che non mi dispiace: essere lontani dalla caserma è un'avventura nuova, e qui nei boschi è facile nascondersi. Devo trascorrere un'ora qui dentro, ma sono comodo e guardo i motorini e le automobili passare sulla strada: ragazze e ragazzi che vanno al luna park, un chilometro più a valle. Il tenente colonnello, il maggiore, il maresciallo e un sergente stanno giocando a carte a un tavolino posto all'ombra di un larice. Certo, mi piacerebbe essere in paese, percorrere le stradine e fermarmi a bere una birra in un bar con i miei commilitoni, ma il dovere è il dovere. Meglio qui che in cucina a lavare le stoviglie metalliche e i pentoloni. E con l'arrivo del nuovo scaglione, sono salito anche di un gradino: ora sono "nipote di seconda" e ho almeno qualcuno sotto di me. Le auto che corrono veloci verso Ponte di Legno fanno vibrare l'aria: i miei pensieri scivolano via veloci e il tempo passa in fretta.

5. Autostrada del Brennero, Venerdì 1° luglio 1988 (292 all'alba)

È la sera di venerdì e sto tornando a casa in licenza, un quarantott'ore. Guardo i campi di meli scorrere via ai lati della strada, i papaveri rossi che ondeggiano alla brezza, e penso che avrei dovuto essere al mare adesso, sdraiato sulla sabbia, seduto sotto l'ombrellone a leggere un libro o a riempire cruciverba, a scambiare parole con gli amici dell'estate. Ma, riflessi nel vetro del pullman della Peroni che compie il tragitto Merano-Bergamo, vedo i miei capelli corti, la mia espressione stanca e malinconica. Ecco luglio che cosa mi porta quest'anno. E i ricordi si affollano, si dispongono in fotogrammi come una pellicola cinematografica: io e lei seduti davanti alla fontana di Piazza del Mare, le serate con gli amici al luna park della City o nei locali dove tiravamo mezzanotte prima di andare a vedere la luna in spiaggia e a spingerci sulle altalene. Tabula rasa. Il cubo, la colazione, l'adunata, la corvée, il rancio, la guardia, la libera uscita, il silenzio. I sogni si presentano così, ora: e le colline del Trentino sono corpi di donne distesi nel sole di luglio. Il mare non c'è. Le cose sono mutate come quando interviene una guerra a recidere i fili del tempo. Il pullman corre verso sud. Mi addormento...

6. Merano, Caserma Bosin, martedì 5 luglio 1988 (288 all'alba)

Δυσζήλοι γάρ τ΄είμεν επί χθόνι φώλ ανθρώπων”. Facili all'ira sopra la terra siamo noi stirpi umane: è il settimo canto dell'Odissea. È quella che ho provato stasera, quando ormai pronto per la libera uscita, il sottotenente Manfredi mi ha fatto chiamare nel suo ufficio di comando e mi ha ordinato di montare di PAO all'armeria. È la terza sera consecutiva che mi mettono di servizio: prima corvée cucina, poi mi hanno inviato al Passo del Tonale come capomacchina sull'Alfa 133 del generale. Ho dormito là e stamattina mi hanno dato un passaggio a Merano con una jeep. E ora tocca di nuovo a me. Al sottotenente Manfredi l'ho spiegato senza arrivare alle male parole, anche perché è un ufficiale che rispetto. Alla fine mi è sembrato accennare a un cenno di scusa davanti all'ineluttabilità della decisione. Mi sembrava stanco, probabilmente deve fare assegnamento su poco personale e fatica a riempire i turni. Poi è arrivata questa scocciatura del PAO alla Compagnia Trasmissioni: si dev'essere rotto un allarme, a quanto ho capito, e servono un paio di alpini per la guardia. Un paio. E uno sono io, che non sono neanche della compagnia.

Ma l'ira, la rabbia, quella è rimasta in me. E cerco di lasciarla sbollire in queste due ore in cui sono comandato a stare seduto con il fucile davanti a una grata di ferro che chiude il passo verso l'armeria. Cerco di non pensare a quel nodo di bile che mi stringe lo stomaco, che mi prende la gola e scalda i nervi. Non voglio lasciarmi dominare da questa passione che avvampa in breve e poi ti fa pentire. Sono panni che non mi sono connaturati. Poi, se Dio vuole, finisce. Consegno l'arma e vado. Sono ormai passate le nove. Non c'è neanche più tempo di uscire: se arrivo in centro, devo subito tornare. Mentre attraverso le camerate dei trasmettitori, mi sento chiamare: è Spertini, un varesino di lago che era nella mia squadra al CAR. Ci siamo sempre trovati simpatici. Mi offre da bere, del vino rosso in una tazza smaltata. È Bonarda e disegna una schiuma rosa. Restiamo a bere nella sua camerata con altri due o tre. L'ira oramai è un ricordo lontano. Sono contento di passare la sera così, in amicizia. Quando rientrano i primi che erano andati in libera uscita, saluto e torno alla Compagnia Comando, attraversando il piazzale dell'Adunata nella sera di luglio. Nel cielo brillano migliaia di stelle, approfittando della luna nuova.

  CAR
Merano, Caserma Rossi, CAR, Maggio 1988

Sono il secondo da sinistra in piedi. L’amico altoatesino Christian Ritsch è l’ultimo a destra, Massimo Spertini è al centro, seduto.

sabato 13 aprile 2019

Terrazza sul mare

Le dita di Paola scompaiono nell’onda castano chiara dei capelli profumati di shampoo alla mela e di balsamo - quella lucentezza è anch’essa una sorta di profumo - e come i denti di un rastrello li solcano lasciandoli morbidi e leggeri. Poi scoprono l’orecchio, piccolo, ben disegnato, caratteristica che definisce bene anche i suoi seni. Così facendo rivela l’orecchino che riflette le luci della sera. Il suo sguardo è sicuro, lo è sempre stato, è sempre stata lei a comandare.

Non la troverò mai scossa dal pianto, come la ragazza che addossata a un muro singhiozzava con il viso arrossato. Parlava al telefono e piangeva. Le ho chiesto se andasse tutto bene, se avesse bisogno di aiuto. Ma era solo l’amore… Era l’amore che la faceva lacrimare, che la rivelava fragile agli occhi della gente. Paola no. Paola non piange. Paola è la samaritana che ti prodiga cure, è la bambina curiosa che vuole vederti dentro, come un giorno aveva aperto la sua bambola, come rovesciava i sassi per osservare il brulichio di insetti, il lombrico scoperto che si rinserrava nella terra smossa, lo scarafaggio che correva via veloce sulle zampette esili. È la bambina che prende in mano la chiocciola e attende paziente che tiri fuori le antenne dal guscio per poi darle una foglia di insalata come premio.

Ora Paola è seduta sul grande tappeto, la gonna è risalita e le lascia scoperte le gambe. Stringe al petto un mazzo di rose chiare, cerca un vaso per mettercele, quelle rose carnose e lucenti. Infine lo trova, un vaso di cristallo lavorato a onde: vi pone le rose con un gesto aggraziato e tenero, a metà tra la ballerina e la madre.

Il mare è un frantumarsi e ricomporsi di riflessi, un grande caleidoscopio monocromo: lo si vede oltre il balcone, lontano, nell’azzurro pomeriggio. Qualche vela bianca, qualche wind-surf vi galleggia come una mezza dozzina di farfalle. Poche barche, lasciate sulla spiaggia sembrano gusci vuoti di chiocciole.

Tra poco sarà il tramonto e già il mare cambia di colore, tingendosi di un grigio ardesia. Paola mi dice che ama quest’ora, quando tutto diviene rarefatto. La guardo e studio quel suo modo di parlare, come si pongono le labbra, come la luce plana nei suoi occhi scuri, come il respiro le muove il seno nella canottiera leggera.

So già che un giorno se ne andrà via e mi porterò nella memoria l’eco dei suoi passi, quelli che adesso vibrano elastici sulla passerella di legno, e quel calore dolce sulle labbra dove marchierà l’addio l’ultimo bacio... So che sussulterò nel ritrovare in un cassetto il nastro per legare i capelli o le conchiglie che raccoglie subito dopo l’alba o la matita verde con la gomma mordicchiata nel risolvere un cruciverba.

Ma ora ci apparteniamo, su questa terrazza, dove lei, sorpresa una goccia tra i petali della gardenia, mi fa partecipe di quel mondo riflesso a rovescio: è come sbirciare l’universo da uno spioncino. “In una goccia pensa quante cose possono stare” mi dice, “pensa che l’infinito può racchiudersi in così poco”. La abbraccio forte e mi sento anch’io universo infinito guardando il mondo riflesso nei suoi occhi.

2009


FOTOGRAFIA © GEORGE MEIS

sabato 16 marzo 2019

Da un poggio


Qui, dall'alto, da questo poggio che è l'ultimo avamposto prima della pianura, si domina uno spicchio di mondo, come se una mappa a tre dimensioni fosse distesa davanti ai miei piedi. Nella calura che vela la visione d'una foschia leggera, addensata sopra le città, disegno gli scenari apocalittici che i guerrieri del riscaldamento globale continuano a propinarci dai media, ora fronteggiati dai teorici della nuova glaciazione: e dunque sullo sfondo ecco il deserto di Milano, dune di sabbia dove corrono i dromedari e i beduini si rinfrancano tra le palme delle oasi; dove sorge Piacenza, scintillerà il mare...

Ma su questa collina verdeggiante, una mammella ubertosa sorta dal corpo fertile della Brianza, fiorisce ancora il sambuco e i gatti sonnecchiano al sole tra le antiche mura. La brezza soffia lungo le vie, porta l'odore muschioso degli anditi, il fresco umido delle cantine. Gazze volano tra le fronde, si inseguono con le code bianche ridendo sguaiate come rane. È in posti così che amo fermarmi a riflettere, a farmi i conti in tasca, come adesso, seduto davanti al panorama in questa larga piazza pavimentata a ciottoli.

Lo so che è umano amare. E che ancora più umano è sbagliare. Umano è anche ricordare. Così io so che ho idealizzato la sua figura, usandola come un salvagente per rimanere a galla nel naufragio dei giorni. L'ho usata come un relitto cui restare aggrappato con tutte le mie forze, come una zattera di fortuna su cui andare alla deriva. Mi sentivo come chi dovesse saltare un ostacolo o chi in quei film d'azione americani passa da un tetto all'altro nella fuga o nell'inseguimento. Prendevo la rincorsa ma risultava sempre troppo corta e rimanevo a penzolare nel vuoto. Per salvarmi ho dovuto tagliare la corda con lei, perderla e tenerla con me sotto forma di ricordo.

Fu un errore, lo ammetto soprattutto con me stesso. Lo so, adesso che da questa collina spazio lontano con lo sguardo e osservo non soltanto i fiumi che tagliano la valle e le città avvolte in una cappa di smog, le autostrade che si snodano, i campanili... Vedo anche il mio passato, i giorni perduti e vigliaccamente conclusi, le fughe davanti alla realtà, le illusioni spacciate per sogni. Mi rattristo, ma non dovrei: rimpiangere è una medaglia al valore che non si è meritata.

Mi alzo, riprendo il sentiero che attraversando filari di viti riporta giù, alle strade trafficate, ai grandi ipermercati, alle zone industriali, alla vita...

2010


FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 9 marzo 2019

La coperta di Linus


È la tua voce che sento, la tua bella voce appena un po’ nasale. Mi invita da lontano e io non riesco a distinguere se tale distanza sia spaziale o temporale, se tu mi chiami dalle isole Andamane o da un giorno perduto nell’estate di qualche anno fa, se tu mi stia aspettando o se invece mi aspettavi e l’occasione è oramai perduta. Sono Odisseo ora e la tua voce è quella melodiosa di una Sirena: io legato all’albero maestro, i miei compagni alacri ai remi, al timone, alle corde, con la cera versata nelle orecchie per non poterti udire, per non impazzire d’amore come invece faccio io. E tu chiami e chiami e canti e mi inviti e sussurri il mio nome...

Mi sveglio. Comprendo che questi sogni sono una specie di coperta di Linus per la mia timida insicurezza. Una coperta troppo corta però, che mi riscalda solo in minima parte, che mi lascia indifeso, allo scoperto di sguardi. Poteva andarmi peggio, potevo essere Charlie Brown... Sono le quattro, l’alba è ancora lontana. Nel buio un vago chiarore disegna ombre e riflessi, la luna si diverte a giocare con lo specchio, quello specchio vuoto d’amore che un tempo accoglieva le voluttuose cascate dei tuoi capelli, i nostri visi vicini, i baci, le scintille della passione. Ora non mi restano che questi sogni ricorrenti, non mi resta che il tuo ricordo: l’altro giorno si è presentato improvviso dalle parti di Via Vitruvio. Voltavi le spalle ai marmi bianchi della Stazione Centrale, alle tende rosse dell’Hotel Gallia: eri bellissima ed elegante, vestita come quel giorno che partimmo per Venezia all’inseguimento dei pittori manieristi nei musei della città lagunare. Il cielo era di piombo fuso, identico. Ma dovevo lavorare, la mia tracolla nera mi batteva sull’anca, mi ricordava pressante che dovevo andare in ufficio, che c’erano pratiche e atti ad attendermi sulla scrivania. Ho rivolto anche un gesto di saluto, fugace, vergognandomi un po’. Ma il tuo ricordo è rimasto con me tutta la mattina, mi ha scortato sui documenti, mi distraeva, mi faceva commettere errori.

E dunque non sei più che ricordo. Il sogno in effetti altro non è che una elaborazione di ricordi e desideri. Sei come quei fiori che si conservano nelle scatole e lentamente seccano per poi sfarinare lasciando una minuta polvere. Il velluto dei petali diventa carta e poi cenere. Non ho che scaglie di te, frammenti che ricostruiscono com’eri. Ma l’amore non vive in terra arida e sterile, vuole una terra buona perché il suo fiore possa sbocciare e fiorire. Forse è seme, di certo non è seccume. Mi volto sul fianco, magari riesco a riprendere sonno. Magari riesco anche a sognarti e se le tue labbra sfioreranno le mie, mi accontenterò di quella languida illusione.

2011


IMMAGINE © SCHULZ/PEANUTS

sabato 2 marzo 2019

Italia-Argentina


Stiamo tornando dalla spiaggia un po' in anticipo: di solito torniamo dopo le sei e ora sono le cinque appena passate. È che tra poco comincia Italia-Argentina per i campionati del mondo di calcio e faremo un tifo sfrenato davanti al televisore.

Non è che l'Italia giochi poi così bene: i giocatori sono in silenzio stampa e hanno eletto portavoce Dino Zoff, che forse è l'uomo meno loquace del mondo, e hanno ottenuto solo tre pareggi nella fase eliminatoria di Vigo e La Coruña, con Polonia, Perù e Camerun; così la nostra nazionale è finita nel girone difficile, direi quasi impossibile, con Argentina e Brasile. Ma tant'è, speriamo sempre nel genio italico.

Con me ci sono Anna e Maria Sole e stiamo ascoltando la radio: ora cantano i Secret Service, "A Flash in the Night". Io ho la mia sacca a righe bianche e azzurre con il telo da spiaggia, la crema abbronzante, "Eutanasia di un amore" di Giorgio Saviane e "La Settimana Enigmistica". Anna ha la solita borsa di paglia con tutto l'occorrente per la spiaggia e il barattolo di crema Nivea, oltre a "La ragazza di Bube" di Cassola e a un bikini azzurro di ricambio. Maria Sole porta il pallone da pallavolo e le bocce.

Ora alla radio cantano i Quarterflash, "Harden my Heart" e siamo quasi arrivati all'hotel. Altra gente torna in fretta dalla spiaggia per l'incontro di calcio. E già alcune persone sono sedute nella saletta del televisore. Stanno per essere eseguiti gli inni. Gentile ha la faccia di un mastino, dovrà marcare Maradona, che molti definiscono il nuovo astro del calcio mondiale. Forse ce la faremo. Mi siedo tra Anna e Maria Sole sulle poltroncine rivestite di tela scozzese a base vermiglia in seconda fila. Un brivido mi percorre il corpo mentre la banda spagnola suona "Fratelli d'Italia". Finalmente la partita comincia. Sembriamo tonici, nonostante l'importanza dell'incontro. Si levano urla e imprecazioni quando Paolo Rossi si mangia un gol già fatto e gli viene quasi da piangere.

Poi segna Tardelli e Anna mi abbraccia, nell'euforia generale non riusciamo a vedere i replay: una staffilata dal limite che ha fulminato il portiere argentino. Restiamo lì a sperare che le iniziative dei biancocelesti si esauriscano, ma quando Cabrini manda in rete la palla respinta dal portiere su tiro di Rossi sembra fatta davvero. Anche perché gli argentini perdono la testa e Gallego si fa espellere. Peccato che non riusciamo ad approfittarne e che Bruno Conti fallisca il 3-0. Abbiamo visto tutti la palla in rete mentre ancora era attaccata al suo piede. Invece no...

Manca poco alla fine quando l'arbitro romeno Rainea assegna una punizione dal limite inesistente a favore dell'Argentina. "Attenti a Passarella, è un ottimo tiratore" dice qualcuno. È proprio Daniel Passarella che si incarica del tiro. Bum! Fa secco Zoff e temiamo la beffa. Resistiamo cinque minuti insieme agli "azzurri" e tiriamo un sospiro di sollievo al fischio finale. Sono quasi le sette, aspettiamo di andare a lavarci commentando le azioni decisive.

Siamo seduti ai tavolini del bar, Maria Sole gioca con le frange della tovaglietta plastificata a scacchi bianchi e rossi, beviamo Coca-Cola ghiacciata e guardiamo nella strada la gente che torna dalla spiaggia. A loro della partita non interessava poi molto. E infatti sono quasi tutti tedeschi e austriaci. "Stasera che si fa?" chiede Anna con la sua bella voce un po' nasale. "Decidi tu, come sempre: sei così brava a inventare qualcosa" le dice Maria Sole, masticando la fetta di limone che era nella Coca-Cola. "Ci penserò" replica Anna, "Potremmo andare al Luna Park, se vi va bene." Io e Maria Sole annuiamo senza parlare e allora lei rompe gli indugi: "Vado a lavarmi. Ciao. Ci vediamo più tardi".

Salgo nella mia camera e mi faccio la doccia. Resto a lungo indeciso sulla maglietta da mettere con i blue-jeans Levi's. Poi scelgo una polo rossa. Rossa come l'amore, dico tra me e me pensando ad Anna.


FOTOGRAFIA © LIUKAJ0823