sabato 25 maggio 2019

Vittorio


Martedì 21 maggio, San Vittorio. Non è un incipit originale: confesso di averlo copiato dalla Signorina Felicita di Guido Gozzano. In fondo, il meccanismo è lo stesso: leggendo il nome del santo del giorno sul calendario, l’ho associato subito all’immagine di un amico scomparso ormai da troppi anni, portato via da un male di quelli che vengono definiti “incurabili”.

Quel nome, come un tappo tolto da una bottiglia scatena l’aroma del vino, ha dato la stura ai ricordi: Vittorio che un pomeriggio d’inverno quando ero bambino, durante le vacanze di Natale,  incontrò per strada me e mio padre che andavamo a prendere il treno per Bergamo e, saputo che ci stavamo recando in città per vedere l’ultimo film di Bud Spencer e Terence Hill, “Più forte ragazzi”, non volle sentire altro e ci accompagnò lui stesso al cinema con la sua Cinquecento blu chiaro. Fu un pomeriggio indimenticabile di cazzotti e risate e amicizia.

E ancora Vittorio che una sera che tornavo in licenza quando ero militare incontrai a Peschiera del Garda dove mi ero fermato per una sosta e mi portò a mangiare una pizza in un locale galleggiante sul lago mentre le luci della costa si riflettevano tutto intorno a noi. Ero un giovane uomo allora e parlammo, noi soli, di cose molto profonde: delle donne e dell’amore, di come la vita sa fregarti…

Sembrava presagire quella sera sul Garda: anni dopo lo incontrai alla stazione di Sesto San Giovanni, sulla banchina aspettava come me il treno che ci avrebbe riportato a casa. Capii che era malato dalla luce dei suoi occhi, come se volesse dirmelo e non osasse. Si sforzò quel tardo pomeriggio di essere affabile, di essere il simpatico amico più grande che mi aveva insegnato a risolvere i rebus. Ma io avevo intuito, io avevo capito e tenevo le lacrime ben strette, quelle stesse lacrime che ora si sfogano e rigano le mie gote mentre ricordo, quelle stesse lacrime che versai dietro un paio di occhiali da sole il mattino in cui lo salutai per sempre, venti anni fa, in un piccolo cimitero di campagna.

21 maggio 2019



DIPINTO DI JOHN LAUTERMILCH


sabato 18 maggio 2019

Dopo il temporale


Il temporale era quasi passato ormai: le pesanti nuvole grigie colme di pioggia gravavano a levante sulla costa, dipingendo strie di fumo sul mare. Avevamo trovato riparo in uno dei bar della spiaggia, seduti con il tuo tè al bergamotto e la mia birra a osservare l'uragano scatenarsi sull'arenile, sugli alberi del lungomare: sembrava volesse svellerli e scagliarli lontano e intanto trasformava la strada in un fiume. Il juke-box suonava canzoni che pesavano sul cuore e si mescolavano ai rombi dei tuoni, allo scroscio incessante e violento sulle grondaie, sui vetri del bar. Le nostre parole erano di due che si erano amati un tempo e forse si amavano ancora ma che il corso degli eventi aveva separato e condotto su strade diverse. Eppure non era trascorso che un anno.

Quando la pioggia finalmente cessò e già un occhio azzurro si apriva nel cielo, uscimmo dal nostro rifugio e ci dirigemmo verso il pontile. Il vento ci incollava addosso i vestiti, il mondo si specchiava difforme nelle vaste pozzanghere lasciate dal fortunale, dove le tue ballerine rosse si bagnavano. Mi raccontavi di come avevi conosciuto lui, di come le cose si fossero incastrate simili alle tessere di un puzzle o a una serie di ingranaggi e ti eri ritrovata senza saperlo in una storia. Fingevo indifferenza ma ribolliva in me un lago amaro di malinconia, un dolore sotterraneo che non sapeva decidersi ad uscire. Sapevo da tempo che la tua strada poteva divergere dalla mia, sapevo che questa possibilità non era remota, eppure mi ero costruito il mio bel castello di illusioni e ora andava in pezzi, scivolava carta dopo carta sul tavolo dei sogni. E ogni carta diventava di piombo, sfondava il tavolo e cadeva sul pavimento. Non mi rimanevano che fragili e taglienti pezzi di cristallo.

Salimmo sul pontile, sotto di noi il mare si agitava tra i piloni, formava onde spumose che alzavano alti spruzzi e si dirigevano minacciose verso riva. L'odore di salmastro riempiva le narici, scendeva dentro. Il maestrale soffiava forte, sospingeva i tuoi capelli chiari sul mio viso. Era una beffarda carezza adesso che tu non eri più mia, adesso che il tempo ci aveva condotto su strade che non coincidevano se non in rari approdi. Il temporale era passato ormai ma persisteva in me con il sapore amaro che hanno le cose perdute.

2010



sabato 11 maggio 2019

Il riconoscimento


Ti conoscevo già da anni, ma fu solo in quel pomeriggio di giugno che ti rivelasti a me improvvisamente. Erano le ore più calde del giorno d'estate e il sole era tornato a splendere dopo una notte e un mattino di pioggia. Mi apparisti nella luce, come una Madonna, ti vidi con occhi diversi; fu come se all'improvviso uno zoom riconoscesse te in una folla immensa, una su centomila, una su un milione, una sui miliardi di abitanti che popolano la Terra. Te sola in uno stadio, te sola in un concerto rock, te sola in una spiaggia che si snoda per chilometri di ombrelloni e sedie a sdraio.

Ti riconobbi come la squaw che realizzai un giorno con il mosaico Quercetti, quelle tessere colorate da inserire negli appositi spazi di un telaio bianco seguendo uno schema di posizioni e di colori. Ricordo che mi piacque tanto che fotografai l'opera ottenuta e ancora adesso conservo nel mio album quel viso dolce incorniciato da trecce corvine, una fascia a cingere la fronte. Me n'ero innamorato a dieci anni, sì. È per questo che l'ho riconosciuta in te: ho riconosciuto l'amore.

E in quella strada assolata lo capii subito: dicesti «Ciao» e sentii il cuore martellare impazzito come un pistone, sentii un calore invadermi istantaneamente, il rossore salirmi alle guance, gli occhi tendersi a comprenderti tutta, come a fotografarti per ricordare, proprio allo stesso modo con cui avevo immortalato la squaw. Eri stata il nulla per anni, eri il nulla un istante prima, una via prima di quella e adesso d'un tratto diventavi l'universo mondo, il sole cui orbita attorno ogni pianeta, la calamita che attira il metallo, la mia Afrodite sorta dalla spuma del mare, l'isola alla quale si aggrappa il naufrago.

Ti riconobbi in quell'istante - forse è quello che chiamano colpo di fulmine, io preferisco pensare a un atto di riconoscimento, a un capire, prendere coscienza. Ti riconobbi e sentii cambiare la mia vita: eri appena passata accanto a me, eri a qualche passo da me, a dieci metri, stavi per svoltare l'angolo e sapevo che il mio fine da quel momento eri tu, che ogni mio pensiero, ogni mia azione era rivolta a te, doveva fare i conti con te, mia squaw.


1997

FOTOGRAFIA DA PINTEREST

sabato 4 maggio 2019

In questa uniforme di tuo soldato (3)

 

14. Merano, Delegazione Presidiaria, Lunedì 6 marzo 1989 (44 all'alba)

Sono le cinque. Il Maresciallo e i Carabinieri hanno ormai varcato il cancello verde e stanno tornando alle loro case. La primavera diffonde i suoi effluvi, con i ciliegi in fiore sulle colline; un tepore piacevole aleggia nell’aria. Questa infinita dolcezza che viene con il tramonto nasce dal tiepido sole o dalle nuove sirene di libertà che mi incantano? Lancio la pallina da tennis nel cortile. Cominciamo a giocare a calcio con quella piccola sfera utilizzando il solido cancello verde come porta. Al di là dell’inferriata pulsa la vita: scorrono automobili, motorini, biciclette. Gli autobus arancioni dell’azienda municipale sostano e ripartono caricando e scaricando gente, quelli blu della società Dolomite entrano nel vicino deposito, altri ne ripartono. Il sole cala e nella conca dei monti scende ormai l’oscurità. Mancano pochi giorni al congedo, mi crogiolo in questa nuova situazione, sento che tutti gli sforzi di un anno svaniscono lentamente nel sapore della libertà che mi appresto a gustare di nuovo.

Ora non si vede quasi più, si accendono le luci della strada, si illuminano le finestre dei palazzi. Ripongo la pallina e chiudo l'ufficio. Ferrario serra la porta del Nucleo Carabinieri. Rossi ci guarda nella sua divisa nuova e con la solita aria del "Che cosa ci faccio io qui?". Non trovo parole ma un altro sguardo di malinconia oltre quel cancello dove scorre la strada rumorosa. L’apatia di un lunedì in cui nulla più soccorre l’inesorabile continuo fluire nella clessidra della sabbia fine. Guardo l'ultima luce cadere sui monti: ho un’infinita dolcezza nel cuore.

15. Merano, Caserma Battisti, Giovedì 30 marzo 1989 (20 all'alba)

Sono la "Max" adesso. È piacevole entrare in una camerata di nipoti ed essere invidiato perché il prossimo a congedarmi sono io. Non approfitto della situazione, non è nel mio stile. Voglio che mi ricordino come una "Max" umana e comprensiva. Del resto, atti di nonnismo non ne ho mai subiti. Solo qualche "sbrandata" da parte dei congedanti. Bastava rifare il letto e tutto finiva lì.

No, non mi mancherà questo gergo di caserma: non mi mancheranno i "vurìa mai", i "giassài", gli "un po' massa". Non mi mancheranno i "non ti passa più", i "tralicci", la "Superpippo". Chiaro che è un linguaggio per iniziati, che non ha senso fuori di qui: tradotti sarebbero "proprio no", "certo", un atteggiamento irrispettoso verso un grado di scaglione più alto, un modo di dire che il tempo non passa a fare una certa cosa, gli altoatesini e i mutandoni di lana.

Mi mancherà la città, quello sì. Mi mancheranno gli amici che ho conosciuto in questa esperienza e che difficilmente so che rivedrò. Ma, bando alle malinconie, entro in camerata e grido: "Ritti, perdio, entra la Max!"

16. Verona, Porta Nuova, Martedì 4 aprile 1989 (15 all'alba)

Verona lancia luci al neon nel vetro del finestrino opaco e impolverato. Torno a casa per l'altra metà della licenza ordinaria. Ho preferito spezzarla in due: invece di undici giorni filati ho scelto la modalità cinque e sei. Tornerò a Merano lunedì. E comincerò a pregustare la libertà in questi sei giorni a casa. Il treno sosta a Porta Nuova: c'è uno sciopero di un'ora del personale di macchina. Dietro la stazione c’è un cielo illuminato, lo stesso cielo di Romeo e Giulietta - mi viene di pensare. Conosco quel balcone e quel cortile, le scritte colorate degli innamorati sui muri della casa. Conosco l'arca dove ogni amante prega e getta la sua lettera colma di passione.

È una sera sanguigna e fatata questa di Verona: la osservo dal piazzale antistante la stazione. È come se la città avesse assunto il volto di Giulietta, le sue dita affusolate, il suo modo di sorridere, il pudore: come se fosse davvero fatta della stessa stoffa dei sogni. Non ho tempo per raggiungere il centro: tra poco il treno ripartirà. Lo annunciano. Saluto Giulietta, saluto Verona, salgo in carrozza pensando che tra due settimane mi congederò...

17. Merano, Lungopassirio, Martedì 18 aprile 1989 (1 all'alba)

Ci hanno dato il permesso di uscire per il pomeriggio: siamo sciamati tutti dalla Bosin nel sole di aprile, leggeri come fantasmi - del resto i congedanti nel gergo della caserma vengono detti “fantasmi” o “borghesi”. Avviene dopo il prelievo obbligatorio di sangue. Prima di allora, in quest’ultimo mese ci hanno chiamati “Max” e quando entravamo nella stanza, gridavamo “Ritti, perdio, entra la Max!”. Ora invece cantiamo "Allarme, siam borghesi! / Son giorni e non son mesi!".

Da qualche giorno stanno piantando dei pali dentro il fiume, grandi draghe sostano sul greto sassoso del Passirio presso il ponte a passerella che conduce in zone un poco periferiche. Com’è verde l’acqua: sembra quasi opale! Sarà per via della primavera.

E camminando sulla passeggiata, alle spalle la Chiesa protestante, ci siamo soffermati a guardare gli operai che lavorano nell’aria tiepida, chiedendoci lo scopo di quei pali, ben sapendo con una punta d'orgoglio che partiremo prima che loro finiscano, senza conoscerlo.

Il pomeriggio scorre leggero, l’aria di primavera ci riscalda i cuori. Nelle antiche vie andiamo finalmente assaporando quella libertà che domani ci porterà. Ammiriamo le vetrine e le commesse dei negozi del centro, sulle panchine Liberty del lungofiume sostiamo oziando e osservando i bianchi gorghi, ben consapevoli che questa nostra compagnia domani si disgregherà. Beviamo birra al banco della Forst, girovaghi perduti nel pomeriggio. Personaggi di un libro di Hermann Hesse, ceneremo insieme come a celebrare il ritorno alla vita, presto liberi quando tornerà a risplendere il sole.

18. Merano, Caserma Bosin, Mercoledì 19 aprile 1989 (L'alba)

Non siamo riusciti a dormire questa notte. Noi congedanti abbiamo aspettato ansiosi che venisse l’alba: il nuovo sole che avrebbe portato la libertà, una svolta nelle nostre vite dopo un anno trascorso lontano da casa. L’adrenalina, l’ansia, l’angoscia ci hanno consentito solo brevi sonni intermittenti. E parlavamo, sottovoce. Finalmente alla grande finestra della camerata, che dà sul giardinetto interno, a Oriente, è filtrata la prima luce. «È finita! È finita!» si sentiva gridare, «Finita! Finita!» replicavano altre voci, «È finita!» ho gridato anch'io entusiasta.

Ho fatto colazione, pensando che per l’ultima volta avrei avuto quella scodella di metallo, quei biscotti secchi confezionati in cubi di stagnola, quel succo di frutta da stappare con il manico della forchetta. E poi l’adunata, l’ultima. Noi congedanti già vestiti in borghese, con il cappello alpino in testa, sull’attenti mentre suonava l’inno, mentre la bandiera era issata sul pennone. «Rompete le righe!», l’ultimo comando. Quindi in camerata a prendere materasso e lenzuola per riconsegnarle in magazzino. «È finita!»

Il comandante ci ha dato appuntamento per le dieci nel salone ricreativo. È venuto con i congedi, e uno per uno abbiamo firmato. Il maggiore Cornacchione ci ha tenuto un discorsetto sul futuro, su quello che ci aspetta fuori di qui, su quello che ci si aspetta da noi. Come un padre di famiglia, quell'uomo apparentemente burbero dalla barba scura quasi si è commosso. Siamo corsi in camerata a prendere le borse, il prezioso foglio arrotolato in mano.

Varco per l'ultima volta il cancello della caserma: tra me e la libertà ci sono ora solo pochi metri. Saluto la guardia che mi apre il cancello, mi volto indietro ancora una volta a guardare i muri tinteggiati di giallo e marrone, la bandiera che sventola nel cielo incerto di aprile sul pennone nel piazzale dell’adunata, i camion che viaggiano per i viali della caserma, la corvée che ramazza i marciapiedi, la vita che continua immutabile in questo piccolo mondo.

Sono fuori, mi tolgo il cappello con la penna nera, avanzo verso la vita e mi rendo conto solo adesso di aver ritrovato la libertà, ne sento subito il sapore salendo per la stradina sterrata che conduce alla strada principale. Guardo il fiume scintillante sotto il sole del mattino: non l'avevo mai visto così neanche quando lo attraversavo al ponte di Santo Spirito tornando dalla Posta. Ora lo vedo con gli occhi della libertà e sembra ancora più bello, con le nuvole cerulee che vi si frantumano.


 Alba

Merano, Caserma “Leone Bosin”, 19 aprile 1989: L’alba