sabato 26 gennaio 2019

Una vecchia storia da raccontare

Quattordicesimo secolo: c'è grande festa nel castello di Brivio per il matrimonio tra il barone Oldrado e Ermellina. I cuochi hanno predisposto un grande banchetto con pietanze raffinate e fiumi di vino, ma la bella sposa è triste: nel suo cuore c'è posto solo per il poeta Tibaldo, al quale si è promessa con il pegno di una viola del pensiero legata da una ciocca dei suoi biondi capelli. Eppure, la vecchia indovina di Pontida aveva profetizzato a Ermellina e Tibaldo che avrebbero finito i loro giorni teneramente abbracciati...

Il tempo passa lentamente. Un anno dopo Oldrado è costretto ad abbandonare l'infelice sposa per andare a combattere i Visconti a fianco delle truppe guelfe: Ermellina lo saluta fredda e distaccata ed il barone parte per la guerra con il cruccio di quella moglie così distante e apatica. Ermellina è sola e, la notte, sente la voce di Tibaldo che le fa la serenata da una barchetta sull'Adda, che forma un lago sotto le mura del castello. La donna, come Odisseo davanti al canto delle Sirene, stoicamente resiste, ma Oldrado continua a essere lontano, impegnato in sanguinose battaglie tra guelfi e ghibellini: Bernabò Visconti avanza e conquista città su città. Una sera, vinta dalla passione e dal rifiorire della primavera, Ermellina non riesce a resistere al richiamo: spalanca la porticina che dà sul lago e si getta nelle braccia di Tibaldo. Da quel momento per lei c'è solo il poeta, c'è solo quel grande amore: si incontrano tutte le notti e si abbandonano al desiderio; con il passare del tempo abbandonano anche la prudenza.

Così una notte, scesa dalla porticina che dà sul fiume, Ermellina con sorpresa ed orrore invece del morbido e gentile braccio di panno del bel Tibaldo trova ad accompagnarla sulla barchetta il duro ferro dell'armatura di Oldrado: è perduta, terrorizzata, ma la rincuora sapere che almeno il suo amante è in salvo. Ahimé, non è così: sbarcati sull'isoletta in mezzo al lago il cupo marito le mostra il corpo senza vita di Tibaldo; al centro del petto, fiorito in una macchia rossa, svetta il manico dorato di un pugnale. Ermellina si getta piangendo sul corpo esanime del poeta e Oldrado la trafigge con la stessa arma. L'onore del barone è salvo, la vendetta consumata: i due corpi vengono gettati nel lago, ancora abbracciati. La profezia della vecchia indovina di Pontida si è avverata. Quella notte stessa Oldrado scompare, nessuno sa più dove sia finito.

Raccontano che, molto tempo dopo, durante lavori di restauro del castello, sotto una lapide consunta spuntò il corpo di un guerriero: da quello che restava del costato spuntava un pugnale con il manico dorato...



sabato 19 gennaio 2019

L’altro lato


Da qualche tempo Giovanni si è appassionato ad ascoltare le vecchie cassette audio della sua collezione. Lui dice che è un modo di riappropriarsi del passato, di recuperare i ricordi con un gusto di archeologo. Sono tutte cassette che ha acquistato o che si è registrato personalmente da 33 giri portatigli dagli amici o assemblando pezzi passati dalle radio. Coprono un arco di tempo che riveste essenzialmente gli anni Ottanta, quelli della sua adolescenza e della prima gioventù. L’altro giorno ha ascoltato “A kind of magic” dei Queen, ieri “Avalon” dei Roxy Music.

Ora sul piccolo stereo Panasonic gira “La voce del padrone” di Battiato, il suo album preferito, che ha ricomprato in compact disc. È l’unica cassetta che gli ha registrato un amico, il compagno di banco dei giorni del liceo. È una Denon DX-1 da sessanta minuti, l’album ne dura solo trenta. Giovanni sta lavorando alla scrivania mentre passano in sequenza le canzoni: ognuna gli ricorda qualcosa di quella splendida estate del 1982. A quel tempo era innamorato di una ragazza, follemente. Si chiamava Paola e, ad esempio, cantarono a squarciagola “Il sentimiento nuevo” andando a spasso in bicicletta nella sera che profumava di pini e di olea fragrans.
Si erano persi di vista, si erano allontanati, ma lei rimaneva l’amore della sua vita, la ragazza che ascoltava con lui “Segnali di vita” guardando il cielo azzurro e il mare lontano. La amava ancora. E non glielo aveva mai detto, non l’aveva nemmeno mai baciata.

La cassetta finisce e, grazie all’autoreverse, che il suo vecchio stereo degli anni Ottanta non aveva, il nastro passa sul lato B: silenzio.
Ora Giovanni è intento al lavoro che sta compiendo, non presta attenzione a quel vuoto di suoni nella stanza: c’è solo un rumore di auto lontane nella strada, intervallato da un tubare di tortore. A questo punto, se fossimo in un film, la macchina da presa, con effetto drammatico, inquadrerebbe, magari zoomando, il nastro che gira. Sarebbe impossibile qui, perché la cassetta del Panasonic di Giovanni è alloggiata in un compartimento nascosto - comunque il nostro interesse è ora tutto su quel nastro che gira, silenzioso…

Trascorrono circa dieci minuti, poi, all’improvviso, una voce riempie il silenzio e Giovanni, che la riconosce subito, sobbalza sulla sedia e si volta verso le casse dello stereo, come se, oltre alla voce, vi fosse anche quella persona, lì, nella stanza dove sta lavorando.
È la voce di Paola, giunta come per miracolo da un giorno d’estate del 1982. Giovanni pensa che è come una fucilata sparatagli nel petto - in realtà non è che il suo cuore, che ha preso a battere a un ritmo più sostenuto, lo stesso batticuore di allora, quando la vedeva comparire, lo stesso di quella prima volta che la vide avanzare nella strada assolata di mezzogiorno.

Ma è una coltellata quella che gli inferiscono le parole, che privano di significato un quarto di secolo della sua esistenza e lo lasciano come un otre vuoto, afflosciato sulla sedia girevole: nel nastro Paola gli dice, con un discorso preciso, al contempo piena di coraggio e di timidezza, che è innamorata di lui e che non sa come esprimere il proprio sentimento.
È la Paola del 1982, neanche un minuto, inciso sul lato B di una cassetta che Giovanni ha creduto vuoto per venticinque anni. È il suo amore che torna dal passato, come un fantasma.

Giovanni piange. Una lacrima gli raggiunge le labbra, ne sente il sapore amaro e salato nel silenzio della stanza. Non cantano più neanche gli uccelli… Il sapore amaro e salato del rimpianto…

2007


sabato 12 gennaio 2019

Il gioco del ricordo

Chi scrisse che anche l'Olimpo è deserto senza amore? Kleist, mi pare. Be’, aveva ragione. Leggi certe frasi e le trovi belle, interessanti, però non sai se sono vere. Ora che lei se ne è andata, posso testimoniare che la frase di Kleist è vera.

Nella grande sala che fu teatro del nostro amore c’è il vuoto: non c'è più il caminetto caldo per passare ore insieme davanti al fuoco a leggere o a parlare, non c’è più il pianoforte, non ci sono più la colonna di marmo che lei amava tanto, i dipinti dell'Ottocento, le stampe. Non ci sono più, anche se sono ancora lì: sono ombre prive di senso, vuote. E il vuoto è in me.

Mi sembra di vederla ancora lì con il vestito bianco che prediligeva, seduta a tentare la tastiera del pianoforte, suonare i Lieder tedeschi o il “Sogno d'amore” di Liszt. La vedo accomodare i fiori nel grande vaso di cristallo, è lì con le forbici a recidere i gambi troppo lunghi; sono rose, rose che le ho regalato io. E come brillano i suoi orecchini, ora anche il camino è acceso, in uno scintillio di faville riverbera sulle pareti, sulle tele. Ed ecco che balliamo, suonano i violini; fuori il vento impazza, sibila tra le persiane, ma qui dentro è una festa di colori: c’è lei. Si danzi, si balli: c’è lei. Si libi, si brindi: c'è lei!

Tutto è svanito, tutto è spento: il gioco del ricordo è finito senza lasciare cenere. La stanza è ritornata come prima: scialba, buia, anche il pianoforte sembra più piccolo, polveroso. Solo la malinconia e la tristezza pungono di più.

1994


IMMAGINE © PAINTING AND FRAME

sabato 5 gennaio 2019

Metropolitana


Sotterranea. Metropolitana, un pomeriggio sul tardi sulla linea verde, ma potrebbe essere qualsiasi ora: qui dentro il tempo non esiste se non nei grandi orologi al quarzo che ne scandiscono lo scorrere. Una fermata qualunque, si somigliano un po’ tutte: la grande fascia verde con il nome della stazione scritto in bianco, i cartelloni pubblicitari che inghiottono lo spazio dei muri. Luci notturne. Fredda musica di sassofono nell’aria come colonna sonora di un film.

Cammino sulla gomma nera, lentamente. Mi sento come se fossi sdoppiato, come se recitassi la mia parte in questo mondo che vive una sua esistenza indifferente nelle viscere oscure della città. Sopra pulsa il cuore di Milano, i tram e gli autobus avanzano lentamente nel traffico, pachidermi in un percorso obbligato di automobili, taxi e furgoni dell’ATM. I turisti si affollano in Piazza del Duomo, seguono le guide con l’ombrellino negli androni del Castello, tra i negozi della Galleria. Ma qui sotto nulla esiste, né il giorno né la notte, né dentro né fuori… Su una panchina una ragazza legge una rivista di moda. Bambini circondano il distributore rosso e bianco della Coca-Cola, giovani madri li assecondano discorrendo.

La musica. È la musica che dà la sensazione di essere in un film, quel jazz che fa di Milano Los Angeles e della mia vita un film, quel sassofono ossessivo che crea una magia. Quando arriva la metropolitana il sogno cessa: svanisce la musica, io torno io e il film non è mai stato.

1999