sabato 31 maggio 2014

Motivi che non si dicono

 

Una cosa che mi diverte fare è aprire una raccolta di massime o un’antologia di aforismi o ancora la Bibbia o la Divina Commedia e leggerne un estratto a caso, come se fosse un oroscopo o un oracolo – non a caso uno di questi florilegi di massime, quello di Baltasar Gracián, si intitola “Oracolo di saggezza”. Quella frase la si può applicare alle proprie contingenze immediate o a una riflessione di carattere generale.

Oggi ho preso in mano le “Massime e pensieri” di Nicolas de Chamfort, pensatore del Settecento francese, piuttosto critico sulla società e sui rapporti tra gli esseri umani e il sistema. Come se tirassi i dadi, ho lasciato scorrere avanti e indietro le pagine, finché il caso ha aperto davanti ai miei occhi la meraviglia della massima n. 152: «Si è felici o infelici per una quantità di motivi che non sono palesi, che non si dicono affatto o che non si possono dire». Mica male davvero… Quante sono le cose che taciamo di noi, quante sono quelle che vorremmo dire e invece teniamo dentro, quante cose dobbiamo affidare al silenzio perché se le dicessimo scateneremmo una guerra tra bande! E la nostra felicità – o la nostra assenza di infelicità per dirla alla Leopardi – o la nostra infelicità dipendono da questi motivi che non possiamo rivelare, che teniamo dentro, mentre al di fuori mostriamo la nostra maschera di ipocrisia o di quieto vivere.

 

sabato 24 maggio 2014

Il mare dentro

 

Il mare. Eccolo qui. La prima cosa che ho fatto dopo aver posato le valigie nella mia stanza d’hotel è stata aprire la porta-finestra e uscire sul balcone. Una lingua azzurra al di là dei tetti e della strada, al di là della spiaggia e degli ombrelloni sotto un cielo dove flottano nuvole sparse come paperelle in un laghetto. Ne sento la voce anche, un flusso continuo e rilassante. È il suo respiro, è il pulsare del cuore.

Una doccia, una maglietta pulita e sono pronto ad incontrarlo questo mare. Tolgo la chiave magnetica e si spengono le luci nella stanza, la porta è chiusa, scendo per le scale. E questo mi ricorda una scena simile, tanti anni fa, quando mi scapicollai per le scale di un albergo per sedermi accanto a una ragazza che mi piaceva. Ora l’amore ce l’ho. Ora sono molto più maturo, ma mentre scendo sento la stessa eccitazione di allora e mi accorgo di avere anche affrettato un poco il passo.

L’hotel è affacciato sul lungomare. Sono subito in strada, supero una scalinata, attraverso il viale ed ecco i bagni. Entro dal varco, non ho neppure bisogno di togliermi le scarpe: c'è una lunga passerella colorata che porta al bagnasciuga. Resto un istante a guardare le file di ombrelloni ancora chiusi. Sono di vari colori, ma disposti in modo da dare un bel colpo d’occhio. L’effetto cromatico è grazioso, in qualche modo mi riporta alla memoria i dipinti di Walter Lazzaro.

Ora misuro a passi lenti la spiaggia. Sento già l’odore del mare, un misto di sale, iodio e vita. Eccoci qui, amico mare. Ora siamo proprio l’uno davanti all’altro. Ti sento sussurrare il tuo saluto, anche il vento ha aggiunto la sua voce. L'azzurro che ho visto da lontano ora ha punte di grigio e di verde, ma le onde restano bianche creste spumose che giungono da lontano e si infrangono ai miei piedi. Infilo una mano nell’acqua, la ritiro sporca di salsedine. È stato come un gesto simbolico, una stretta di mano, un saluto rituale. Guardo l’orizzonte, mi perdo nello spazio che non ha fine, oltre le boe, oltre le vele bianche. La libertà.

Raccolgo conchiglie: quando tornerò a casa le metterò in un vaso di vetro e mi sembrerà di averti sempre accanto. In realtà sarà solo un’illusione, perché in fondo lo so che sei dentro di me, mare...

mare

sabato 17 maggio 2014

Il treno delle otto

 

Era un giorno di maggio caldo di sole e dei fragranti profumi di primavera, il cielo terso d'uno splendido azzurro ospitava i voli delle rondini e il volteggiare dei pensieri. Fausto aveva un'interrogazione di storia, l'ultima del trimestre, im­portante per il voto finale. Era venerdì e prendeva il treno delle otto perché le lezioni iniziavano un'ora dopo. L’elettrotreno arrivò con un leggero ritardo, come al solito semivuoto. Fausto salì e scelse un posto vicino al finestrino. Subito aprì il libro di storia moderna senza neppure aspettare che il treno partisse.

All'improvviso si sentì chiedere "È storia?" e gettò uno sguardo un po' indispettito verso la voce: era la ragazza che sedeva oltre il corridoio.

Fausto rispose "Sì" con un'ombra di stupore.

La ragazza si alzò e indicando il sedile di fronte a Fausto "Ti dispiace se mi siedo lì?" disse. Si sedette senza attendere la riposta. "Non vorrai mica studiare?" aggiunse con un tono come recitativo.

"No... Non è una cosa importante" mentì Fausto.

La ragazza forse intuì che non era vero ma non replicò. Disse solo "Io mi chiamo Silvia. E tu?"

"Fausto" rispose e nel parlare le tese la mano e strinse la mano della ragazza. Pensò che Silvia era molto misteriosa e aveva un'aria strana. La osservò meglio rinunciando del tutto a guardare il libro di storia: era elegantissima, pantaloni blu, giacchina a bolero dello stesso colore, una camicia con i pizzi, l'ampia scolla­tura, il lucidalabbra. Notò che la borsa stonava con gli abiti: Silvia aveva uno zainetto da "marine" pieno di scritte a biro, nomi di rockstar e un'ossessiva ripetizione del suo nome. Le stazioni passavano veloci con le loro edicole, i loro bar e i vasi di fiori. Il capostazione fischiò e il treno ripartì: ora dietro i finestrini non c'erano più le campagne ma la squallida periferia, la città era ormai vicina.

Fausto e Silvia scesero insieme dal treno e all'uscita della stazione si salutarono e si separarono. Fausto si diresse verso la scuola con l'amara sensazione che non avrebbe mai più rivisto quella ragazza. Una libreria gli rammentò l'interrogazione. Scosse il capo e affrettò il passo.

1984

 

Roumen

FOTOGRAFIA © SVEN ROUMEN

sabato 10 maggio 2014

Discorsi sulla spiaggia

 

La luce del pomeriggio scivolava via: il cielo, la spiaggia stingevano come una cartolina lasciata al sole. La costa si perdeva in una lenta foschia che ne faceva una lingua di terra informe, cirri bianchi la avvolgevano quasi amorosi. Il mare ormai calmo appariva quasi metallico, rari bagnanti ancora vi si attardavano, una vela al largo navigava bianca come una cavolaia tranquilla in un giardino.

I nostri discorsi scorrevano con quella stessa calma, la avresti forse potuta chiamare monotonia, ma non c’era noia alcuna, soltanto la consapevolezza di vivere il momento, di vivere in quel momento, in quello spezzone di tempo che presto sarebbe irrimediabilmente mutato. Ci sentivamo immersi nel suo flusso, neanche fosse un fiume e noi alla deriva nella corrente su una piccola canoa, su una barchetta verde, assolutamente giovani e fatalisti, incapaci di opporci in un qualsiasi modo agli eventi.

Non lo sapevamo che più avanti, nel corso degli anni, avremmo ripercorso le parole di allora, quei discorsi interminabili sulla spiaggia al tramonto, e che molto più arduo sarebbe stato andare contro corrente, risalire la strada come un sentiero di montagna non più battuto, dovendo tagliare gli sterpi e le fronde per poter ritrovare il tragitto. E infine ritrovarsi delusi perché il ricordo non riesce a ricostruire, può solo arguire, supporre connessioni, trovare un senso alle decisioni solo per sentito dire, solo con la mediazione del sogno e del desiderio, con l’interpretazione. E passare alla realtà dà un gusto denso, lascia il sapore di amare illusioni.

 

HEIDI MALOTT, “PEOPLE WATCHING”

sabato 3 maggio 2014

Una nenia triste e desolata

 

“Era la notte bianca di Natale
ed era l’ultima notte degli alpini;
silenzioso come frullo d’ale
c’era il fuoco grande nei camini”

Ascolto “L’ultima notte” e non riesco a non pensare alle enormi sofferenze che patirono quei giovani italiani, acuite dalla sprovvedutezza del governo fascista. Non erano equipaggiati, non erano adatti a quel terreno pianeggiante, non era colpa loro se l'Italia era alleata della Germania e Mussolini non perdeva occasione di compiacere Hitler, trovatosi impantanato nell'inverno russo come già Napoleone. Dalle trincee scavate nel ghiaccio ma riscaldate in riva al Don, dove si trovavano il 16 gennaio 1943- a Novo Kalitva, a Kulakovka, a Pavlovsk, a Belogorie, a Karabut - questa massa di soldati in ritirata nell'inferno bianco percorse centinaia e centinaia di chilometri, un passo dopo l'altro nella tormenta a 30 gradi sottozero, le barbe lunghe incrostate di ghiaccio, gli occhi cisposi.

Nella pianura grande e sconfinata
e lungo il fiume - parea come un lamento -
una nenia triste e desolata
che piangeva sull’alito del vento”

Ascolto "L'ultima notte" e cammino anch'io con quei soldati, con i sergenti e i capitani che ancora incitano a resistere, con chi ha perso il suo plotone ed è sbandato, con la coperta troppo leggera sulle spalle e un bastone in mano, con il fucile che sega il braccio.

Cammino e guardo chi si è fermato per sempre bocconi nella neve sognando l'Italia lontana, chi dà fuori di matto e gioca con la rivoltella, chi butta via tutte le scartoffie della fureria che portava sulla slitta e ci mette i feriti, li copre come può e li trasporta aiutato dal mulo fedele. Centomila, forse più, in marcia nel deserto bianco, tra un giorno e l'altro, tra una notte e l'altra, un po' di riposo in un'isba affollata, a litigare con i tedeschi che vogliono per loro i posti migliori. E poi gli scontri con i partigiani russi, il parabellum e la stufa, il grasso dei mitragliatori.

Nella testa un pensiero solo: casa. La casa, l'Italia, le valli di montagna, i paesi di campagna, le città. La mamma, la moglie, la fidanzata. Casa. Per andare avanti, per non fermarsi e diventare un'altra croce che poi i girasoli copriranno nell'estate russa.

E alla fine, dopo l'ultimo combattimento a Nikolajewka, ecco la meta: C'è il generale Reverberi in piedi su un cingolato tedesco a salutare gli eroici superstiti. Eroici perché sono rimasti vivi: il bollettino delle autorità russe lo conferma: "Il Corpo d'Armato Alpina deve considerarsi imbattuto in terra di Russia". Erano partiti in 60.000, ne sono tornati solo 12.000. Ma ce n'è di strada da percorrere: prima a piedi nella campagna ucraina, poi sui camion, infine sui treni, per poter arrivare in Italia, a Bolzano, e non essere neanche ringraziati...

Cammina cammina
la guerra è lontana
la casa è vicina
e c’è una campana
che suona, ma piano:
Din, don, dan...
Che suona, ma piano:
Din, don, dan...

 

ritirata