sabato 26 dicembre 2015

Un giorno alla volta

 

“La miglior cosa del futuro è che arriva un giorno alla volta”: dicono che sia stato il presidente americano Abraham Lincoln, ad affermare questo concetto pregno di speranza. Un nemico preponderante non può essere sconfitto lanciandoglisi contro: ne verremmo immediatamente travolti. Nel 480 avanti Cristo, quando Serse con i suoi trecentomila persiani invase la Grecia, la strategia ellenica fu di bloccare quell’enorme armata al passo delle Termopili: bastarono trecento valorosi spartani e settecento tespiesi per trattenere per tre giorni le truppe di Serse. Solo il tradimento consentì ai persiani di superare il passo e inondare la Beozia e l’Attica. È un concetto che vale anche per le nostre difficoltà, per i nostri problemi: dovremmo tutti travestirci da spartani e bloccare loro il passo, affrontarli a viso aperto uno per volta. L’atteggiamento più sbagliato sarebbe invece la scappatoia, la fuga dal combattimento: ci trasformeremmo in Efialte, l’abitante del posto che mostrò ai persiani la strada per oltrepassare il blocco.

La saggezza di Lincoln è la stessa di Lao Tzu, filosofo cinese di 2500 anni fa: “Anche un viaggio di mille miglia inizia con un passo” scrisse nel Tao Te Ching. Un giorno alla volta. Un passo alla volta. Dovremmo imparare che nulla è impossibile da affrontare, che nessuna impresa ci deve essere preclusa. Dovremmo considerare le difficoltà con questo spirito e fronteggiarle con ferma volontà e con una certa dose di calma – non sono forse di moda i manifesti con scritto “Keep calm and…”? - Un giorno alla volta. Un passo alla volta. Basta fare il primo…

2013

 

Lincoln

sabato 5 dicembre 2015

Una notte di pioggia

 

Piove. Sento le gocce picchiare sulla grondaia, tamburellare leggera su qualche tettoia. Sento anche il vento soffiare non troppo forte, un frusciare di fronde, un volo di foglie gialle che posso immaginare, così come immagino le luci del parcheggio che a quest’ora è deserta, l’insegna del bar ormai chiuso che si riflette sull’asfalto dove quasi nessuna auto transita.

Perché è il cuore della notte e non riesco a dormire: mi manchi con una forza che non avevo mai provato prima. Mi manchi come se mancasse una parte di me. Il tuo cuscino, la tua parte di letto sono freddi – e quella è la più alta simbologia della tua assenza: un vuoto che mi priva di calore, che mi lascia come una pietra abbandonata su un ruscello. Le pietre non hanno sentimenti, io sì.

È passato un camion, probabilmente quello della raccolta dei rifiuti che tra poco inizierà il suo giro. E mi sorprende un taglio di luce che prima non avevo notato, attraversa la persiana e si posa proprio dove tu avresti avuto adesso probabilmente una mano, morbida nel sonno mentre ti avrei stretta come se non volessi lasciarti più andare. Invece sono disteso a guardare sul soffitto buio timidissimi segni di luce. La sveglia a retroproiezione segna in rosso le 2.59. Mi manchi in maniera insopportabile, fino quasi a soffocarmi. Mi alzo a bere un bicchiere d’acqua. Mi sembra di sentirti respirare dolcemente. Mi sembra di scorgere la tua sagoma sotto le lenzuola. Illusioni degli occhi e del cuore, queste ultime anche più pericolose.

Fa freddo. Mi metto una coperta sulle spalle e controllo il cellulare. Ho la tentazione di chiamarti, ma sono appena passate le tre di notte e non è il caso. Torno a letto e resto a pensare che ormai ho bisogno di te, che formiamo una cosa sola, che siamo una macchina che non può funzionare se un pezzo è separato dall’altro. Ripercorro gli ultimi eventi, le parole che ti ho detto e che ti hanno ferito. Le parole che mi hai detto e che mi hanno ferito. Sembrano senza senso a quest’ora di notte. Sembrano futili i nostri motivi. Anzi, lo sono. Il prezzo da pagare è altissimo, è una ferita che si allarga sempre più, che diventa più profonda ogni minuto che passa. E questa notte è infinita, il tempo non passa: è come dilatato, un minuto ne conta due o più. La pioggia sembra aiuti a rallentarlo con questo quieto cadere, con questo ritmo lento.

Probabilmente la mia anima, il mio cuore – chiamalo come vuoi – non riesce a capire: ti cerca e non ti trova e, come un computer programmato per fare le stesse cose in sequenza, non si capacita e non è in grado di reagire diversamente. Potrebbe impazzire. Si rigira in questa solitudine che è come una siepe di rovi, un cavallo di Frisia di filo spinato, e si ferisce sempre di più. Sempre di più.

Adesso pavento anche il giorno, la luce che verrà con un’alba piovosa a rivelare il vuoto nel letto e nella casa con tutta la sua evidenza: non ti sentirò camminare a piedi scalzi, infilarti sotto la doccia, armeggiare in cucina con la macchinetta del caffè. Perché se adesso la notte mi tormenta, perlomeno attutisce in qualche modo l’intensità dei miei sensi. Il giorno no, il giorno li farebbe deflagrare.

Un messaggio. Ti mando un messaggio su Whatsapp, ecco la soluzione. “Scusami, amore. Perdonami, se puoi. Ti amo immensamente ♥”. Adesso aspetterò il suono di campanella, aspetterò che tu risponda...

 

Monk

ALYSSA MONK, “STAY IN BED, IT’S THE FREAKIN’ WEEKEND”

sabato 28 novembre 2015

La ragazza della porta accanto

 

Dai vetri la ragazza della porta accanto guarda l’inverno cadere: l’alba è una rasoiata che recide il collo dei sogni come la falce che passa sui papaveri nel prato. Il suo letto ha lenzuola a fiorellini e un posto freddo dalla parte destra. Siede con le mani sotto le cosce, sente il calore tra pelle e cotone, lo serba come un ricordo nel cuore senza neppure rendersene conto. Socchiude gli occhi e si abbandona ancora: fuggire nei sogni le sembra sia il solo modo che ha per sopravvivere.

E la ragazza della porta accanto con le sue mani di velluto stringe il suo vuoto, la sua desolazione, sognando palme verticali e mari azzurri dove potrebbe nuotare con il costume giallo comperato nell’ultima vacanza in Portogallo. Amava arrotolarlo sulle gambe quando la spiaggia era ancora deserta, porgere al sole la sua nudità come un’offerta ad un antico dio.

Il suo corpo è un nido di miele, lo sfiora ogni mattina con le dita pensando al cavaliere dell’Algarve, alle sue mani forti che le scesero sul seno quando la issò sul cavallo. Ma si fa tardi e deve correre al lavoro: si veste in fretta, si infila nel cappotto, nel cappellino, nei guanti ed esce pasticciando con le chiavi.

1998

 

girlinbed

HOBBIE, “PINK GIRL IN BED”

sabato 21 novembre 2015

Per i suoi occhi

 

Io e lei eravamo buoni amici, forse di più: tra di noi c’era quella festa, quel bacio in giardino. Forse pretendevo da lei che se ne ricordasse. Un mese dopo la rividi: era alla stazione, aspettava qualcuno in auto. Appena l’ho vista, ho capito: “Non è più la stessa”. Un mese l’aveva cambiata, ma cos’era successo?

Le apparenze non ingannavano, me ne resi conto mentre mi guardava e arrossiva, lo intuii anche dal suo comportamento. E poi dovette ammettere la sua presenza lì: “Aspetto il mio ragazzo” spiegò e lo disse come se tra noi non ci fosse mai stato niente, neanche quel bacio, neanche le volte che eravamo usciti insieme.

“Ciao, chiudi la portiera, per favore” mi disse e mi tremarono le gambe e sentii un vuoto risucchiarmi lo stomaco. Risalii sulla mia auto e ripartii velocemente: volevo scordarla, volevo pensarci sopra, volevo andare via, lontano da lì, lontano da tutto – non so neanch’io cosa volevo – e intanto vagavo per la campagna, correvo nel vento e nel sole. Ferito dalla sua spada di bugie, dai suoi occhi che avevo creduto sinceri.

Poi un passaggio a livello abbassato, un’occasione per pensare con calma: cercavo di ritrovarmi, guardavo nello specchietto retrovisore il cielo metà bianco e metà azzurro, i prati secchi dell’inverno, gli alberi spogli. Un attimo, e poi ancora lei, forse volevo illudermi che non l’avrei rimpianta. Sapevo già che non ci sarei riuscito: lei non era una parentesi, mi aveva dato la sua amicizia, il suo amore. E ora cosa dovevo fare? Legarmi a un ricordo? E dopo?

Il treno sfrecciò via borbottando e ripartii a tutto gas. Rivedevo il nostro incontro: me l’aveva presentata un amico ma già la conoscevo di vista. Rivedevo quella festa come un film, quante volte ci avevo pensato prima di quel giorno: la birra, ballare e quel bacio sul dondolo in mezzo ai fiori.

Poi la burrasca, quel ciao che sembrava le avessi estorto, quel ciao che le avevo regalato, che forse avevo sprecato. Non poteva andare così, non doveva finire così. Fermai l’auto: avevo bisogno di pensare con calma, dovevo cercare di capire.

Decisi di smetterla di vagare senza meta e tornai a casa, a rimpiangere i suoi occhi.

 

13 settembre 1984

 

Top inspired

IMMAGINE © TOP INSPIRED

sabato 14 novembre 2015

L’amore

 

L'amore non è una spina che si può togliere, un tumore che scoppia; è un dolore ribelle e insistente che uccide dentro.

Il voler bene non si compra, non si vende, non si impone con il coltello alla gola, né si può evitare: il voler bene succede.

Voler bene è facile, succede quando uno meno se lo aspetta, uno sguardo, una parola, un gesto e il fuoco si propaga bruciando petto e bocca; il difficile è dimenticare.

Sono tre frasi che mi appuntai quando lessi – una quindicina d’anni fa – Teresa Batista stanca di guerra, romanzo di Jorge Amado. Erano su un foglietto che è uscito dall’edizione tascabile mentre facevo ordine tra le mie cataste di libri. Rileggendoli adesso, mi sono trovato a riflettere su alcune cose – pensieri probabilmente già fatti allora, se ho sottolineato proprio quelle frasi:

  1. L’amore è ineluttabile, non ci si può opporre, è una forza che travolge e a cui la ragione non riesce ad opporre che una resistenza limitata

  2. È altresì cieco e casuale: la freccia di Eros spesso colpisce a casaccio oppure, siccome l’amorino è guercio, centra solo uno dei suoi bersagli

  3. L’amore comunque non si può imporre: deve sgorgare spontaneo

  4. Anche se finito, comunque l’amore sopravvive e la sua memoria sa essere ancora una dolorosa spina.

 

Maggio 2013

Cupid-from-Galatea-by-Rap-001_thumb1

sabato 7 novembre 2015

Sinfonia in grigio veneziano

 

Era un giorno di novembre, grigio. Una pioggia sottile e fredda cadeva da un cielo grigio sui canali, si rifletteva nell’acqua stagnante della marea, dipingeva una Venezia grigia ad acquerello dove anche le cupole e i campanili si stemperavano - uniche macchie di colore, ma sbiadite anch’esse, gli stendardi delle mostre e le righe azzurre dei pali d’attracco.

Avevo visitato la Scuola di San Rocco prima di risalire per il dedalo di calli e rii fino a Piazza San Marco a gettare altri sospiri oltre quelli del ponte. Le pietre del piazzale erano lucide, come se qualcuno vi avesse rovesciato un’autobotte di vernice impregnante. C’erano pochi turisti a quell’ora, la gente si muoveva imbacuccata negli impermeabili sotto gli ombrelli. I colombi imperterriti becchettavano come se niente fosse, volavano via a frotte nel grigiore dove l’isola di San Giorgio svaniva in una nuvola di pioggia.

Ero grigio anch’io, grigio il giaccone di Gore-Tex, grigio il cappellino di lana, grigio soprattutto dentro. Era tantissimo tempo fa, non mi ero ancora affacciato a questa consapevolezza del vivere che adesso, più maturo, mi fa accettare le cose. Forse ero soltanto giovane, quella era la mia malattia che mi faceva atteggiare ad un Werther di seconda mano. Era una malinconia cattiva quella che mi pervadeva, una tristezza che avrebbe anche potuto divorarmi. Quel giorno lasciai Venezia in treno, guardando la laguna dissolversi grigia nella luce che svaniva in un tramonto senza sfumature arancioni. Sarei tornato l’anno dopo, a luglio, con un altro sentimento a gonfiarmi il cuore nella luce sfolgorante del sole, con una maglietta rossa sui soliti blue-jeans. Cos’era cambiato? Che cosa mi aveva cambiato? Nulla: avevo conosciuto l’amore...

 

Venezia

FOTOGRAFIA © TUMBLR

sabato 31 ottobre 2015

Aspettando il Grande Cocomero

 

Il mio sogno americano è sempre vivo e vegeto, ma non amo Halloween. O meglio, non amo l’Halloween importato dagli States e diventato mania sociale per le nuove generazioni. Provengo dalla cultura di chi non ha mai festeggiato da bambino con “dolcetto o scherzetto”, un’usanza mutuata da film e telefilm americani e diffusasi da noi, a quanto ricordo, solo dagli Anni ‘90. È la solita zucca che ormai viene tutti gli anni, a differenza del Great Pumpkin atteso invano da Linus in tante strisce dei Peanuts – la festa era talmente ignota da noi che i traduttori del fumetto, negli Anni ‘60 si sono lasciati ingannare e l’hanno definito Grande Cocomero. Ora, dopo tanti anni di assuefazione la festa straniera è entrata profondamente nella nostra società.

Ma non c’è nulla di nuovo sotto il sole: la carnevalata di travestirsi da streghe, da fantasmi, da mummie è il lato moderno delle danses macabres medievali in cui gli scheletri si lanciavano in forsennate sarabande.

Anche le celebri zucche non sono una novità: mio padre mi riferisce che tale uso c’era nelle nostre campagne e ne ha un ricordo ancora vivido; nel Mantovano ancora oggi c’è la tradizione delle “lumere”, zucche intagliate e illuminate, con i bambini che girano di casa in casa a chiedere i “dolci dei morti”. In molte zone della Sicilia sono i defunti a portare i doni e non la Santa Lucia, il Gesù Bambino o i Magi della tradizione cristiana o il Babbo Natale commerciale e consumistico.

Alla fine sempre lì si finisce: al consumismo. Tutto diventa un mezzo per vendere tanto che ieri sera ho visto addirittura il dolce di Halloween, una specie di panettone marrone con fantasmini di cioccolato e zucche glassate. Gli ipermercati, le cartolerie, i negozi di giocattoli sono pieni di oggetti a tema, è spuntata persino la borsa per andare di casa in casa a chiedere “dolcetto o scherzetto”.

Non amo Halloween, lo ribadisco. Lo accetto come un dato di fatto, un’evoluzione della società per influenza culturale americana. Ci passerò sopra, e andrò al cimitero a fare visita ai miei cari che non ci sono più e soprattutto a coltivare il fiore del ricordo.

2013

 

sabato 24 ottobre 2015

Una lezione di politica

 

Da qualche tempo la discarica comunale – chiamata con garbato e ipocrita eufemismo “isola ecologica” - del mio paese è stata dotata di accesso condizionato con Carta Regionale dei Servizi, che il volgo chiama invece “tessera sanitaria”. In pratica questo significa che il sistema controlla non solo che chi viene a depositare i rifiuti è un residente ma anche limita gli accessi a un numero definito di macchine, cioè sei.

Messa così, sembra una cosa asettica, pur parlando di rifiuti, che al massimo attinge alla sfera privata dell’individuo, che si sente da un lato leso nella sua privacy e dall'altro controllato dall’occhio vigile e indomito del Grande Fratello di orwelliana memoria.

Ma, in realtà, l’automazione è anche la parabola di molto altro: prima, quando l’accesso era libero e controllato casomai dagli addetti, non c’erano lunghe code per entrare e l'operazione di conferire i rifiuti ingombranti, le macerie, il vetro, le batterie, l’erba rasata e i rami potati era tutto sommato rapida. Adesso ci sono code, mugugni, liti, battibecchi. Ovvero, in questo caso si può dire che le norme e la loro applicazione senza un minimo di buon senso - gli arcigni controllori non consentono alcuna eccezione all’ingresso - generano un caos tipicamente burocratico, statale, mentre l’anarchia di prima, praticata in armonica collaborazione dagli utenti era in grado di smaltire con maggior velocità l’uso della discarica comunale.

Insomma, ci siamo fatti dare una lezione di politica anche dalla spazzatura.

 

sabato 17 ottobre 2015

La lezione della storia

 

Guardavo la luce del mattino discendere dal cielo, farsi nebbia, ricoprire la neve caduta sulle vette a partire dai duemila metri. Lì, al Passo del Tonale, ottobre disegnava una terra brulla dove spuntavano dalla pioggerella gli impianti per lo sci e le tipiche case di montagna: hotel, bar, rivendite. Sono entrato nel piccolo Sacrario Militare e ho sentito tutto l’orrore della guerra, la sua follia che mai riusciamo a superare.

Mi sono portato quella sensazione poi a Forte Strino: fuori abeti e larici, un cielo che era divenuto intanto azzurro, dove galleggiavano fiocchi bianchi di nuvole – avevo davanti un paesaggio da mozzare il fiato e alle mie spalle una fortificazione, uno strumento bellico in mezzo a tanta bellezza. All’interno del forte faceva freddo: ascoltavo la guida parlare di quei soldati acciambellati accanto alla mitraglia e i loro brividi erano i miei. Pensavo a quanti stenti e a quanta fatica dovettero sopportare, così come gli abitanti del vicino paese di Vermiglio, distrutto dalla guerra, deportati, profughi, obbligati a ricominciare la loro vita dal nulla.

Ripetevo con Ungaretti: Non ho più nulla / da dare / che questa durezza / di vita battuta / come una strada / di guerra. Ripetevo con Wilfred Owen: Se a ogni sobbalzo sentissi il sangue / sgorgato dal marcio dei polmoni, / osceno come un cancro, amaro come un rancio / amico mio, con tanto zelo non ridiresti / a bambini arso di disperata gloria, / la vecchia menzogna: Dulce et decorum est / pro patria mori”.

Sono uscito nel sole: il Monte Vioz era lì, cento anni dopo, qualche batuffolo di ovatta impigliato ai suoi larici. E la lezione della storia nuovamente dimenticata dagli uomini.

 

Forte Strino

FORTE STRINO – FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 10 ottobre 2015

Scene di vita quotidiana

 

Studenti e pendolari scendono dal treno in quell'immenso cantiere che è la stazione di Porta Garibaldi. Sotto un cielo grigio fumo i binari luccicano alla pioggia che cade fitta sulla dolce malinconia di novembre. Nel tunnel oscuro che porta alla metropolitana le scarpe si divertono a stridere amoreggiando con la gomma nera del pavimento. Il treno arriva e parte snodandosi come un grosso bruco nei meandri sotterranei, perfora le viscere della città.

E sbuco alla luce incerta della Vecchia Milano aprendo l'ombrello, una ragnatela di gocce si forma sul mio impermeabile bianco. Sbrigo i miei affari e sono ancora all'aperto, nel grigio asettico di questo cielo; una sirena urla a squarciagola tra i clacson impazziti. L'autobus si annuncia da lontano, una scatola arancione che emana un fumo nero. C'è folla e non c'è posto. Tre militari discutono di cinema, una signora con la borsa della spesa scende e libera un posto, si siede una ragazza con un libro di testo sotto il braccio. Cordusio, domina il grigio, sullo sfondo i pinnacoli del Duomo. Ed eccolo questo Duomo di marmo di Candoglia, imponente simbolo di questa città. Tra i piccioni in piazza una marea di ombrelli colorati e giacche a vento di una scolaresca in gita.

San Babila, Largo Augusto, piove sempre più fitto, le strade sono coperte da cellofan - questa pioggia che lucida il pavé. Piazza del Tricolore, poi la Prefettura, Corso Monforte. Scendo e cerco il numero civico che mi interessa. Ragazze alla moda camminano alte e slanciate davanti a me. Ecco la società di informatica, c'è l'insegna sopra il citofono. Chiedo al portiere a che piano si trovi l'ufficio che cerco; è proprio una portineria da Vecchia Milano, con l'androne buio e i fiori. C'è un ascensore di vecchio tipo, quelli con le grate; non mi fido: preferisco salire le scale. Ed ecco la porta: suono e mi apre un ragazzo. "Sono venuto per quei floppy-disk". Lo seguo e mi consegna la scatola con i programmi. Sono ancora in strada sotto la pioggia: le automobili si rincorrono fra uno stridore di gomme, qualche donna con la borsa della spesa, due ragazze parlano d'amore: scene di vita quotidiana.

12 gennaio 1989

 

Milano

FOTOGRAFIA © NICOLE TANZINI/FLICKR

sabato 3 ottobre 2015

I buttadentro

 

Nel mio recente viaggetto a Venezia ho rivisto i “buttadentro”: ogni ristorante, pizzeria, trattoria delle strade centrali, quelle più frequentate dai turisti, ne ha uno. È un cameriere se non il ristoratore stesso o anche una ragazza giovane e bella che negli orari canonici di pranzo e cena – molto vari, visto che alle cinque e mezza i giapponesi e gli americani già si siedono a  tavola -  “accalappia” i clienti. Non è neppure necessario avvicinarsi al leggio con il menù: basta camminare per la via. “Uno spritzino?” mi ha chiesto un affabile cameriere, che somigliava al detective Munch di Law & Order Unità Vittime Speciali, davanti alla chiesa di San Geremia e Santa Lucia. Volentieri, amico, ma sono le tre del pomeriggio e ho ancora in bocca il caffè…

Una cosa simile mi capitò di vedere a Lissone, capitale italiana dei mobilieri: fuori dal Palazzo del Mobile 100 Firme, che raccoglie in esposizione i prodotti di più artigiani, si materializzarono, come in un film degli Anni Cinquanta, i procacciatori della concorrenza: aspettavano al varco le automobili che lasciavano il parcheggio per intrufolare un biglietto da visita, per chiedere se si aveva bisogno di qualcosa, che tipo di mobile si cercava e, infine, per invitare a seguirli nella loro esposizione.

Gli affari sono affari, e serve anche questo genere di faccia tosta per emergere, per sopravvivere. Che sia allettamento o lusinga, sta in un percorso in cui si possono incontrare la prostituta che offre la sua mercanzia, il venditore del mercato che grida: “Carciofi! Carcioooofi!” e le sirene della pubblicità che ci incantano dai cartelloni stradali, dalle pagine dei giornali e dagli schermi televisivi.

Ottobre 2013

 

FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 26 settembre 2015

Ma

 

Leggo su Tuttolibri – numero 1845 di sabato 5 gennaio 2013 – l’intervista a Mana Neyestani, disegnatore iraniano incarcerato dal regime e poi rifugiatosi in esilio a Parigi con la moglie:

“Tutto sommato, mi è andata bene. Sono stato in galera tre mesi, ma c’è chi è lì anche da dieci anni. Sono in esilio, ma qui ho libertà di parola. Ho la mia matita e posso usarla. Ho solo questo. Ma non può immaginare quanto sia prezioso”.

Cos’è che mi ha colpito tanto da segnare con un rigo di penna questa frase tra le tante altre che appaiono nel supplemento della Stampa? Sono quei tre MA. L’avversativa che dovremmo sempre usare quando consideriamo la nostra situazione: forse quello che abbiamo al momento non è il massimo, non è ciò che esattamente desideravamo, però sicuramente non ci troviamo nell’opposto, nella negazione totale dei nostri desideri e delle nostre opportunità e il cambiamento è comunque un’opzione ancora praticabile. Quei tre MA sono le scialuppe di salvataggio che permettono a Neyestani di non affondare, come tanti altri MA ci consentono di non vedere nero, ma di scorgere la luce della speranza illuminare la via diversa che – obtorto collo o per propria decisione – si è intrapresa.

2013

 

DISEGNO DI MANA NEYESTANI

sabato 19 settembre 2015

In coda sulla A4

 

In coda sulla A4 tra Rho e Pero, avanzo a passo d’uomo: la mia auto è inscatolata fra i transfughi che tornano in città la domenica sera. Ripenso a te che ho lasciato lassù, partendo mentre la notte calava: sorridevi alla luce del tramonto di maggio e mi salutavi tra i gerani, riesco a rivedere la scena, la mano destra che agitavi, il bacio che mi hai mandato. Sei una fragrante mela di settembre e odori anche di mare e di conchiglie, hai l’aroma di rose e di gardenie. Perché tu assommi tutti i miei ricordi, perché vivi di tutti i miei sensi e sei i miei viaggi e i miei pellegrinaggi. Così quando percorro strade e fiumi, quando risalgo monti verdeggianti, quando solco quegli infiniti mari è il tuo corpo che navigo e cammino, i suoi avvallamenti, le colline, le sue asperità. le sue depressioni.

Il cielo è un arco blu scuro di navata affrescato di grigie nuvole. Il nuovo clima giunto a primavera accende i colli come sale, li dipinge di collane luminose, fa luce delle chiese, delle torri gialle a mezza costa. Il resto sono solo forme blu disperse nel chiarore lunare. Tu, ignara dei lumini rossi degli stop e del rock duro che mi tiene sveglio, dormirai già? O guarderai il cielo sereno ricordando la giornata festiva, riandando ai nostri discorsi, agli eventi? Ti stringerai nella maglia di lana osservando le stelle tremolare nell’infinito sulle vette, con lo sguardo sognante e una dolcezza nel cuore? Vorrei chiamarti, sussurrarti parole che suonino come gocce di pioggia nella notte o la voce del vento in un giardino, riversarti nell’orecchio le mie emozioni che vengono dal cuore ma non sono altro che parole d’amore.

Invece è tardi, qui nella notte: bloccato in questa periferia urbana, attendo solo che la coda finisca per riprendere la strada verso casa.

 

Fhm

FOTOGRAFIA © FLICKR HIVE MIND

sabato 12 settembre 2015

Dieci anni dopo

 

Siamo ancora qui, seduti a questo tavolino di caffè mentre fuori febbraio nevica luce e una nuova primavera si annuncia dietro i vetri opachi. C’è odore di caffè e di caldo, il clangore delle tazzine ogni tanto si mescola alle voci dei pochi avventori e alla musica soffusa che esce da altoparlanti invisibili. Il tempo sembra sospeso, potrebbe essere quello di allora, potrebbe essere allora nonostante qualche nuova ruga di espressione intorno ai tuoi occhi, nonostante qualche brillio grigio tra i miei capelli.

Proprio di quello stiamo parlando adesso, di come il tempo ci abbia cambiati, non solo esteriormente - ora porti i capelli più corti, io li ho rasati cortissimi, “Un marine” mi hai detto appena arrivata, ancor prima che mi alzassi per baciarti sulle guance, per aiutarti a toglierti il cappotto, per spostare la sedia e farti accomodare. Siamo cambiati dentro. Siamo altre persone rispetto a quelle che eravamo dieci anni fa. I caratteri si smussano quando perdono l’esuberanza della prima gioventù, a furia di cozzare contro i muri alla fine si accettano anche questi arrotondamenti. E l’esperienza, vuoi mettere, l’esperienza non può essere soltanto un fardello, un inutile peso: a qualcosa dovrà pure servire.

Era una sera di pioggia allora. L’ultima volta. Era un altro caffè, in un’altra città. Aveva tavolini color vermiglio e sedie bianche. Sotto il bancone navigava un acquario bulinato in vetro, fuori scrosciava una notte buia di fine estate, la malinconia aleggiava nell’aria ancor prima del nostro addio. Ero timido allora, lo sono ancora ma l’età ha saputo in qualche modo sconfiggere quel difetto, ho dovuto giocoforza aprirmi, espandermi, incattivirmi per poter resistere in questo mondo, per non essere sopraffatto e andare avanti. Ci ho messo coraggio, ci ho messo volontà. Ne avessi avuta allora, probabilmente le cose tra noi sarebbero andate in modo diverso. È giusto che tu lo sappia, è doveroso che faccia ammenda.

Nel parlare ho posato la mano sul tavolo. La sfiori, poi la prendi nella tua. Io sono di un’altra. Tu sei di un altro. Lo sai bene. Lo sappiamo bene. Eppure quel gesto, le nostre mani che si allacciano dopo tanti anni, non vogliono ricucire: sono una condivisione, la consapevolezza che non rimane nulla di non detto, che ci siamo finalmente capiti.

È tardi ormai, è l’ora dorata del crepuscolo: dalla vetrina la luce arriva a disegnare riflessi gialli sulla teiera, sulla tovaglia, sulle tazzine. Guardi l’orologino al tuo polso. Devi andare. Mi alzo, ti aiuto a infilare il cappotto. Mi ringrazi con un bacio sulla guancia, prolungato un poco più del dovuto, direi. Il tuo profumo sa ancora inebriarmi. Te ne vai nella via inondata di luce, infili la stazione della metropolitana verso casa. Torno a sedermi, ordino un altro caffè. Sento ancora il contatto della tua mano...

 

Iain Faulkner

IAIN FAULKNER, “IN FROM THE STORM”

sabato 5 settembre 2015

La luna (86 volte piena)

 

La luna (86 volte piena senza lei, 2557 notti senza lei, notti di luna appesa in cielo o a stento indovinata o addirittura del tutto assente nel suo ciclo sinodico).

La luna (le piaceva quando era piena, grande e rotonda come una moneta d’argento sotto un fascio di luce - quante volte disputammo riguardo a cosa somigliasse: “Un’unghia” diceva - “No, una falce, un amuleto, un boomerang” replicavo. O ancora “Un piattino, una particola” e “Un disco di platino, una perla”).

La luna (come due ubriachi la vedevamo doppia ma era solo il mare che la rifletteva una sera fresca ai primi di settembre con la malinconia di un’altra estate finita e nel naso l’odore di salsedine e di resina).

La luna (“Lo sai che influisce sulle maree, sul vino, sulla semina, non so se hai letto Pavese”, “L’ho letto sì. E anche su noi donne, cosa credi?” ...E le stelle intorno alla bella luna tornano a nascondere l’immagine splendente quando piena e d’argento illumina come non mai tutta la terra).

La luna (“Fisicamente parlando è solo sassi e la bandiera senza vento a stelle e strisce e le orme dei piedi di Neil Armstrong”, “Ma tu pensa a Collins che rimase nel Lem, che rimpianti...”, “Mi sa che tu sei un po’ lunatica!”, “Sarà che sono nata di lunedì”).

La luna (il punto sopra l’I gigante, la promessa degli innamorati. “Baciami!”, “Ma ci vede la luna!” e il suo bacio era ancora più dolce per quel non so che di proibito. Ora che seduto qui da solo la guardo splendere nel cielo di un altro settembre, il mio sguardo è come magneticamente attratto dal disco bianco e dal ricordo di lei).

 

1992

 

Lee

FOTOGRAFIA © HENGKI LEE

sabato 29 agosto 2015

Peanuts

 

Sono stato Schroeder, quando picchiavo sui tasti del mio pianoforte giocattolo e accanto avevo Stefania che divideva con me i giochi - la mia Lucy.

Sono stato Linus quando credevo di poter mettere una stella caduta dentro un secchiello. E ancora più avanti, quando presi come coperta il ricordo di una ragazza e la sua nostalgia.

Sono stato Charlie Brown, tutte le volte che esitavo e maledicevo la mia timidezza. Non trovavo il coraggio di fare le cose, di entrare in un bar, di dire una frase a una ragazza. E mi crogiolavo nella mia solitudine.

Sono stato Snoopy, sono ancora Snoopy, quando mi affido al sogno, alla dolcissima follia dell'immaginazione, alla fiaccola della poesia…

 

2013

 

Peanuts

IMMAGINE © CHARLES M. SCHULZ

sabato 22 agosto 2015

Ode all’immaginazione

 

«Non sono montanaro di nascita, ma sono giunto alla montagna per passione. Il mio input avventuroso è dato senza dubbio dalla curiosità, una irriducibile curiosità, via via sempre più associata alla fantasia, al sogno, al bisogno insopprimibile di dare a tutto una concreta realtà. Fare dell'alpinismo estremo per me non è stata una fuga dal campare quotidiano e neppure è stata una ribellione alle miserie di una società ben poco stimolante, a quel tempo; è stato invece, e soprattutto, un bisogno ostinato e irriducibile di raggiungere e sempre più raggiungere. Le mie imprese hanno cominciato a esistere nel momento stesso in cui prendevano forma nella mia mente. Tradurle poi nella realtà non è stato che un seguito logico di quella prima scintilla, di quella prima invenzione. È quando immagini che vivi intensamente, come è soltanto quando credi che inventi per davvero. Lassù mi sono sentito sempre più vivo, libero, vero. Ho anche potuto soddisfare il bisogno innato che ogni uomo ha di misurarsi e di provarsi, di conoscere e di sapere. Fin dall'inizio l'alpinismo è stato per me avventura e l'avventura ho sempre voluto viverla a misura d'uomo e nel rispetto della tradizione».

Doveva essere per forza un uomo capace di solitudine, abituato agli spazi sconfinati dove nessuna voce umana si ode, e se per caso la si dovesse udire riecheggia per chilometri. Un uomo che non si accontenta di vivere giorni piatti e tutti uguali, ma che si lancia all’inseguimento della vita. E lo era, Walter Bonatti, che scrisse queste parole sulle sue esperienze di alpinista. Capace di vincere K2, Bianco, Cervino, Karakorum, il Gasherbrum, il Kilimangiaro, il Ruwenzori, i monti delle Ande e della Patagonia.

C’è una frase che mi ha particolarmente colpito: “È quando immagini che vivi intensamente, come è soltanto quando credi che inventi per davvero”. È quello che serve a tutti noi, senza avere bisogno di scalare montagne estreme o di scendere negli abissi, di lanciarci a capofitto da un ponte legati con l’elastico o di buttarci da un aereo con il paracadute. È la capacità di immaginare che ci fa progredire, che ci eleva, che ci conduce un passo più in là sulla strada della conoscenza: attraverso di essa, non solo ci redimiamo dalla realtà, come scrisse Nicolás Gómez-Dávila, ma evadiamo da essa abbracciando l’universo.

2013

 

sabato 15 agosto 2015

Dondolato dal vagone

 

Hopper era affascinato anche dai treni. Ad attirarlo era l'atmosfera delle carrozze semivuote che si fanno strada nel paesaggio: il silenzio che regna al loro interno mentre fuori le ruote sferragliano ritmicamente sui binari e lo stato di trasognamento indotto dal rumore e dal panorama esterno, un trasognamento che pare quasi strapparci a noi stessi e indicarci la via d'accesso a pensieri e ricordi che non riuscirebbero a emergere in circostanze più ordinarie. La donna di Scompartimento C, Vettura 293 (1938), che legge e fa vagare lo sguardo tra carrozza e paesaggio, sembra trovarsi proprio in questo stato mentale.
ALAIN DE BOTTON, L’arte di viaggiare, Guanda, 2002, pagina 58

Sì, sogno, anzi “trasogno” anch’io quando viaggio in treno, lasciandomi cullare dal paesaggio che cambia velocemente dietro il finestrino: è bellissimo riuscire a vedere, specie nelle giornate di pioggia, il proprio volto riflesso e contemporaneamente il panorama, come in certe fotografie dalla doppia esposizione.

Ed è capitato spesso, visto che ho usufruito per anni dei servizi molte volte inadeguati delle patrie ferrovie, sin dai tempi del ginnasio e delle panche di legno – era il 1980, non l’Ottocento! – quando quei vagoni, talora con gli scompartimenti, furono il teatro dei primi amori e dei primi rossori, di amicizie che si sono poi anche perdute ma che restano vive nel ricordo, di scherzi memorabili, di idiozie come salutare “Ciao, Nanni!” rivolti verso il quadretto turistico (erano i tempi in cui andava in onda Viaggio in seconda classe, un programma di Nanni Loy con candid camera proprio in scompartimenti simili a quelli).

Poi, più compunto, in direzione Milano, viaggiai verso l’Università – e allora si parlava di diritto penale, del possesso come elemento fondamentale dell’usucapione, ma anche di calcio e di donne, come in quella famosa canzone di Battisti. Per un anno viaggiai anche qualche volta sulla tratta Milano Centrale-Verona-Bolzano-Merano Maia Bassa: il militare, certo, con i capelli corti e il borsone, la nostalgia a tracolla e il tempo che scorreva lento dietro i finestrini. Ma troppi erano i cambi, troppe le attese nelle stazioni: preferii da subito il comodo pullman di linea Bergamo-Merano. E ancora mi capitò più avanti di sedermi con la mia elegante borsa da avvocato su sedili più moderni, simili a quelli della metropolitana.

Anch’io, come la misteriosa signora del celebre e celebrato dipinto di Edward Hopper citato da De Botton, in treno amo leggere – aborro la conversazione, quindi mi isolo con le cuffiette dell’iPod – e di tanto in tanto mi perdo con lo sguardo a inseguire i miei pensieri, quasi che si manifestassero nel vetro spesso sporco di una carrozza come se fosse uno schermo magico. Piacevolmente “dondolato dal vagone” come il Guccini di Incontro, metto ordine nelle cose che mi sono capitate nella giornata, organizzo le idee, le associo a ricordi, le annodo in speranze. Se mi vedete “trasognato”, vi prego di non chiedermi se il treno ferma a Milano Greco Pirelli o se mancano tante fermate a Terno d’Isola: spezzereste il mio sogno come una bolla di sapone e magari per vendetta vi farei scendere a Ponte San Pietro…

 

2013

 

EDWARD HOPPER, “COMPARTMENT C, CAR 293” (1938)

sabato 8 agosto 2015

Marcovaldo

 

Ho rimesso mano a "Marcovaldo", che ho letto alle medie - sì, è lo stesso volume, conservato da allora, quello tutto bianco con tre righe rosse della collana Einaudi "Letture per la scuola media": c'è anche un bel disegno astratto in bianco e nero di Paul Klee. Tutto qui? - mi direte - fai solo estetica, parli di copertine e di vecchi ricordi, ti lasci andare come fai talora alla nostalgia per un tempo che non tornerà...

D'accordo, allora. È un Calvino per ragazzi, tanto che i racconti furono pensati proprio per quella fascia d'età, ma ciò non toglie che siano bellissimi, che Marcovaldo anticipi con la sua ingenuità strampalata Palomar, altro personaggio che ho amato, negli anni Ottanta. In Marcovaldo c'è tutto: anticipa anche Fantozzi con la Sbav, che altro non è che la madre della Megaditta di Paolo Villaggio. C'è l'ambientalismo, perché la città non nominata è un grigio alveare di cemento e scritte pubblicitarie. Memorabile è il racconto in cui la luna si mescola al lampeggiante GNAC della Spaak-COGNAC. E spettacolare risulta il contrasto tra una società industriale e moderna e i nomi medievali dei personaggi: Marcovaldo, la moglie Domitilla, la figlia Isolina, il caporeparto Viligelmo, Fiordiligi, la signora Diomira, il signor Rizieri, il dottor Godifredo.

È stato uno spasso ripercorrere tanti anni dopo, con occhi ormai maturi le strade di Marcovaldo: le sue preoccupazioni per la crisi economica ma anche il sogno, la libertà di camminare per le strade deserte di agosto proprio sulla linea di mezzeria, salvo poi ripiombare a terra per lo spavento di un'auto passata a grande velocità. È stato uno spasso mettersi al fianco di quell'uomo buffo  - e qualche volta anche dentro di lui, dentro il suo cuore, perché "Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l'attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c'era tafano sul dorso d'un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse"...

2012

 

Marcovaldo

sabato 1 agosto 2015

La poesia

 

Il primo libro di poesie che acquistai fu "Vita d’un uomo", la raccolta di Ungaretti. Le mie prime poesie dunque nacquero in quello stile e con quella metrica. A dire il vero, specialmente in età più avanzata, Ungaretti abbandonò i versicoli e scrisse ad esempio "Ultimi cori per la Terra Promessa". Fu "Nostalgia" a folgorarmi: la copiai in un quaderno e cominciai a pensarvi, forse perché così estranea al mondo della guerra che costituiva gran parte delle poesie raccolte. Era quella signorina in un canto di ponte a intrigarmi, quell'uomo dall'altra parte, la solitudine che invece di dividere unisce.

L'occasione che mi spinse a scrivere fu invece un'agenda che mi venne regalata all'inizio dell'anno: cominciai a vergarvi i miei versi, avevo poco più di 15 anni. Era un'altra epoca, anche della mia vita: le mie poesie di allora fanno sorridere per l'ingenuità, però non me ne vergogno, sono come le fotografie di allora...

Qualche anno dopo mi appassionai ai sonetti e ai madrigali, mi intrigava il gioco obbligato della rima, l'incasellare le sillabe nei versi rispettando gli accenti. Il mio scopo era in effetti quello di nascondere la rima, fare in modo che non risultasse banale, che passasse quasi inosservata. Quando trovai in Gozzano la rima "Nietzsche" - "camicie" vidi la luce. 

Montale fu in seguito il modello cui tendevo, sia per il ritmo metrico, sia per l'uso di parole ricercate: “Debole sistro al vento di perduta cicala” è inarrivabile: come pensare a quell'antico strumento musicale? Eppure quando ne vidi un’immagine sull‘enciclopedia, capii che non poteva essere che quello il suono delle cicale: lo sfregamento di una lamina di metallo.

Ungaretti diceva che non leggeva Montale per "non sporcare la sua poesia". Invece leggere opere di altri poeti è  fondamentale: si impara sempre qualcosa, sia sulla metrica, sia sul modo di esprimere le proprie sensazioni. Alla fine credo di avere sviluppato uno stile mio, basato sulla musicalità dell’endecasillabo, anche se non sono un fondamentalista e, se gioca a mio favore, piego gli accenti del verso e persino la misura alla linearità del discorso.

La poesia non è altro che scrivere con il cuore, estrinsecare un'emozione o un sentimento che altrimenti andrebbero sprecati. Per questo scrivo poesie: per sfogare quello che ho dentro, per riuscire a comprenderlo. Vederlo sulla carta mi conforta, mi fa meno paura.

Agosto 2001

 

Man in the moon

CATRIN WELZ-STEIN, “THE MAN IN THE MOON”

sabato 25 luglio 2015

Fotografie di Lecco

 

Sono stato a Lecco e il lago era splendido: da lontano sembrava avere il colore di un acciaio temperato, da vicino era verde come una pietra preziosa. Soffiava una leggera brezza che ne increspava la superficie e faceva ondeggiare le barche ormeggiate in porto. I gabbiani stridevano, i piccioni elemosinavano cibo ai pescatori, le anatre galleggiavano tranquille in piccoli gruppetti.

Ho scattato alcune fotografie al lago, alle barche e alla zona della città antistante Piazza Cermenati. Le nuvole bianche sparse nell’azzurro come bioccoli di lana mi hanno suggerito inquadrature particolari: così ho ritratto la statua al centro della piazza affiancata da una grossa nuvola, in modo da far risaltare il contrasto fra le dimensioni sullo sfondo uniforme e brillante del cielo; ho dato una degna cornice al campanile di San Nicolò, così simile a un minareto. Ho pensato che, mostrata a una persona che non è mai stata a Lecco tale fotografia e chiestogli dove fosse stata scattata, questi avrebbe potuto rispondere Mostar, o Ankara, o Istanbul...

Sono queste le fotografie che mi piacciono, non quelle meramente turistiche, lo scatto in un luogo per dire poi ai conoscenti: “Io ero là”, come fanno i giapponesi davanti al Duomo di Milano, che si fanno immortalare da un compagno di viaggio con la cattedrale sullo sfondo. No: le fotografie che preferisco sono quelle che sanno dare un’emozione, un senso di stupore, quelle insomma che possono essere - immodestamente – considerate poesia.

Luglio 2001

 

Lecco

FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 18 luglio 2015

Sicilia

 

Le palme, i fiori di campo appena fuori da Fontanarossa, il pennacchio di fumo del vulcano, le arance della Conca d’Oro, gli agrumeti lungo la statale; i fichi d’India sui muri a secco fanno da siepe e da cancellata.

La processione in Duomo a Siracusa, i ragazzi che portavano i gonfaloni e aspettavano l’inizio, la gente seduta ai tavoli della piazza; San Giorgio a cavallo nel Duomo di Ragusa, lo splendore del barocco, il fascino della devozione.

La terra così brulla e secca, le serre di primizie, il contadino con i pomodori sul motocarro vicino a Gela; il mercato ai due lati della strada, gli ortaggi venduti in mezzo al traffico; l’uomo che vendeva pistacchi sull’Etna, al Rifugio Sapienza, nel baule della 127 verde oliva.

Le case inghiottite dalla lava nell’eruzione del 2001, i tetti che spuntavano dal nero: “Questo era un albergo, questa la chiesa” diceva la guida; il liquore dell’Etna, rosso di fuoco e di peperoncino in vendita tra i souvenir.

Il sole a picco sui templi di Agrigento, l’ombrello a fiori della guida, la Magna Grecia, il mito; la granita di limone mangiata a cucchiaiate fuori dal tempio di Zeus, quella di caffè sorbita in un bar di Pozzallo; il liquore di fichi d’India, dolce e forte, in tre colori: arancione, rosso e giallo.

Il fiume Ciane, le canoe che scivolavano leggere poggiando tra le rive di papiri; i fiori d’ibisco, rossi, le bougainvilles viola, le siepi d’erba grassa; il cielo azzurro e le nuvole bianche dietro Piazza Armerina, la città disposta sul colle come un presepio; il mare di San Leone, lo smeraldo o il turchese, la sabbia scura, lavica, i ciottoli levigati, le alghe sui lastroni.

Il petrolchimico di Gela, l’odore di petrolio nell’aria, il divieto di balneazione “per ordinanza sindacale”, gli enormi tubi del complesso; il ponte di Modica, uno dei più alti d’Europa, la città minuscola in basso.

Le ville disabitate del litorale, le seconde case costruite a ridosso delle spiagge e del mare; le strade senza traffico, l’impressione di trovarsi in un altro mondo, all’estero; i ponti autostradali, gli svincoli costruiti nei campi e non collegati.

La Wunderkammer del nobile ragusano che viveva con l’anziana madre: le stanze arabescate, i ninnoli, i tappeti, gli strumenti musicali. Non c’era un centimetro libero. Il circolo nobiliare di Ragusa, il soffitto affrescato, i giornali, il pavimento a losanghe; l’acustica del Teatro di Siracusa: un apparecchio scenico caduto dava l’impressione del tuono.

E il mare, il mare ovunque: calmo, agitato, sentito tutta notte, guardato splendere all’alba, intravisto dietro un tempio, dentro un teatro, oltre una curva.

 

2002

 

POZZALLO – FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 4 luglio 2015

Siete parcheggiati sui miei ricordi

 

C’è una vignetta dei Peanuts in cui Snoopy si reca all’allevamento della Quercia, il luogo dove è nato, e non lo trova più. Ci hanno costruito un autosilo di sei piani. Snoopy inveisce: “Stupida gente!! Siete parcheggiati sui miei ricordi!!!”

Ho provato la stessa amarezza di Snoopy, perché un luogo a me caro, la caserma “Leone Bosin” di Merano, dove trascorsi parte del mio anno di servizio militare, è stato demolito e destinato a discarica. “Siete parcheggiati sui miei ricordi!!!”, sì, cara amministrazione comunale di Merano/Meran, sei parcheggiata sui miei ricordi, anzi peggio: ne farai frammenti, rottami, sfasciumi e ferrivecchi, li ridurrai ad un immondezzaio.

Ma non li distruggerai, non li annichilirai, non riuscirai a incenerirli: mi riempiono il cuore, mi affollano la mente le emozioni provate là dentro, le amicizie fiorite come un papavero nel cemento in quelle camerate dal pavimento di cotto dove ogni settimana bisognava fare la “saponata”, la noia delle ore di guardia sull’altana, l’allegria delle canzoni scelte sul juke-box dello spaccio, le figure ora quasi leggendarie degli ufficiali e dei sottufficiali. Io ricordo. Tanti che sono passati per la “Leone Bosin” ricordano. E, come i ribelli di Fahrenheit 451 ricordavano a memoria i libri ormai dati alle fiamme, ognuno di noi porterà con sé un pezzettino di memoria.

2013

 

Bosin

MERANO, CASERMA “LEONE BOSIN”, APRILE 1989

sabato 27 giugno 2015

Sotto un cielo incerto

 

In quelle mattine al mare restavo sulla spiaggia a guardare le alghe trascinate a riva dalla marea sotto un cielo incerto, respiravo a pieni polmoni l’aria incrostata di iodio e di salsedine. Le nuvole si ammassavano l’una sull’altra mentre il sole dell’alba provava ad attraversarle donando loro dei riflessi dorati, rivestendole di broccati veneziani. E nello specchio d’acqua si raddoppiavano, tanto da non sapere quasi più quale fosse il cielo e quale la terra.

Sedevo sulla veloce barchetta rossa del salvataggio e riordinavo i miei pensieri: provavo a far combaciare le varie tessere della mia vita in un puzzle che sembrava complicato: mi sentivo come se la soluzione fosse una complicatissima formula matematica, come se l’unica via d’uscita fosse la quadratura del cerchio o la trasformazione alchemica dell’oro.

Ora molto tempo è trascorso. Eppure stamattina, attraversando il giardino sotto il cielo incerto di prima estate ho riprovato quell’emozione, come un dejà vu. Non c’era il mare, non c’era la barca del bagnino: soltanto nuvole che si inseguivano nel chiarore dell’alba e un tratto di terra arida dove spuntavano certe erbacce a ombrello. Mi sono sentito per qualche istante il ragazzo di quegli anni. Poi, con una punta di tenerezza, ho riflettuto che la soluzione che andavo cercando in quei mattini di un giugno lontano era molto semplice e si è imposta da sé, come spesso accade nella vita. Ho ripreso i miei passi e sono andato fischiettando a cogliere i lamponi ormai maturi.

 

DSC_2101

FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 20 giugno 2015

Un moderno Sisifo

 

Mi manchi. Mi manchi da sempre. Mi manchi da una vita. Eravamo insieme e già mi mancavi. Era qualcosa di te che mi sfuggiva, che non riuscivo a comprendere interamente. Neppure quando ero dentro di te ed eravamo una cosa sola fino a sentire le stelle scorrerci per la colonna vertebrale: ci vedevo come da fuori in quella posa francamente un po' ridicola - come se io fossi lì sopra di te e contemporaneamente fuori dal mio corpo che si agitava sul tuo.

Forse esiste un altro luogo, un diverso possibile, un universo parallelo in cui ci amiamo felici e sediamo compunti tenendoci per mano su una panchina, tu con il berretto di lana azzurro, io con la sciarpa e il bavero rialzato. Forse c'è un tavolino di ferro smaltato di bianco che ci aspetta in uno di questi infiniti universi e in un altro un letto di lenzuola candide di bucato profumate di lavanda e in un altro ancora neppure ci siamo mai incontrati.

Perché dev'essere così difficile amarci? Perché sono condannato a spostare il masso del tuo ricordo su per la china della mia memoria come un moderno Sisifo? Perché devo cercarti e ricercarti e poi quando credo finalmente di raggiungerti mi scappi tra le dita, mi sfuggi come la lucertola che abbandona la sua coda e si rintana tra le pietre? Quale dio mi sono inimicato? O quale dea...

 

sisyphus1

IMMAGINE © LITTLEBEBOOP

sabato 13 giugno 2015

Universi separati

 

Rileggevo il passato nelle carte nautiche della memoria ieri sera, servendomi della mappa di un tramonto che fasciava di violetto e giallo il cielo sopra la pianura come i flessuosi fianchi di una donna con un velo di seta colorata. Come Julia in “1984” di George Orwell – “Una sottile fascia rossa, che fungeva da distintivo della Lega Giovanile Anti-Sesso, era avvolta ripetutamente attorno alla vita, abbastanza stretta in modo da far risaltare più che fosse possibile le sue anche formose”.

La dolcezza del tramonto connessa con il ricordo e con quella reminiscenza letteraria è riuscita a originare una magia ancora più dolce perché ti sapevo inarrivabile, irrimediabilmente già perduta. A Ovest il cielo bruciava, nel cuore mi bruciavi allo stesso modo tu. Nel languore romanticamente dolce del crepuscolo ti ho implorata di ritornare dalle tue lontane età, da quel ghiaccio che congela le fontane dove scorreva limpido il ricordo. Sarei capace ancora di amarti, di instillare fiati di primavera per riscaldare quel che non è più. Ti ho pregata di raggiungermi da quelle tue azzurrità che si riempivano di tanto fascino, dallo spazio, dal tempo, da quell’universo in cui ti infilasti un giorno come in un buco nero lasciando in cenere le mie emozioni, polvere di petali rinsecchiti che furono corolle di papaveri riposti in una scatola da scarpe insieme ai miei ricordi e ai souvenir, a cartoline e a lettere d’amore. Tra il nulla e ieri rivedevo tutti i nostri giorni vissuti accanto a collimare le anime, graduando l’alzo ai sentimenti: fluttuano nell’aria della memoria come dei candidi fiocchi di neve. Quel tempo pioveva sulle estese province del mio sogno: era, ed era quello che solo contava alle inesperte guarnigioni poste a difesa di quella lontana illusione, bene armate ma non equipaggiate di saggezza finché nella battaglia - invero epica – furono ben presto sopraffatte.

Delle nostre parole che cosa resta? Chi serberà memoria dopo noi se già noi stessi le dimentichiamo? Dei nostri giorni insieme si è perduto perfino il calendario, troppo in fretta gettato in un cestino un San Silvestro. Dei nostri giochi, delle nostre sere, della panchina azzurra presso la fontana, dell’isola felice nell’estate che cosa resta già ora, che cosa? Le nostre lettere poi si disperdono, accantonate in remoti cassetti, divise come già siamo noi stessi. “Fu dove il ponte…” ma questa è già un’altra poesia che sento mia nel più profondo del cuore; fu in qualche luogo che adesso precisamente non saprei indicare o forse per lasciare tutto vago io non desidero identificare. Fu. Quel che importa è solo questo: fu. E adesso non è più e un’anima sola si è scissa in due, come fanno le cellule, dando vita a universi separati.

1995

 

Passage

MATTHEW CUSICK, PASSAGE

sabato 6 giugno 2015

Nostalgia

 

Nostalgia. Etimologicamente è il dolore per un ritorno, un dolore dolce, però. E traslando e parafrasando, anche il passato, soprattutto quando è passato da tanto tempo, è un luogo a cui si anela di ritornare, per rivivere quella dolcezza impossibile da gustare adesso. Perché c’è Internet, perché c’è quella stramaledetta televisione, e lo stramaledetto Grande Fratello e la dannatissima Isola dei Famosi. Non si potrà avere nostalgia di tempi così.

Invece le partite a carte di una volta, quando il tempo era davvero “libero” e lo si poteva tracannare d’un fiato per tutto un pomeriggio, per una sera intera, quelle sì che sono degne di memoria e di rimpianto. Anche perché molti di quelli con cui si giocava purtroppo non ci sono più. Ricordo interminabili partite nelle sere d’estate, seduti nella veranda al fresco passabile dell’ombra, con i cugini e il nonno, con lo zio Carletto, con tanti che passavano magari per un saluto e rimanevano fino a mezzanotte a giocare.

Non tressette, quello non lo si gioca qua… Scopone scientifico, il classico intramontabile con carte, ori, primiera e settebello e il miraggio di ottenere la “napola” più alta con le carte di quadri. O la briscola chiamata, quando si era in cinque, dove chi ha più fortuna o più coraggio sceglie di giocare contro gli altri tre pescando un compagno che cerca di rimanere segreto il più possibile. O addirittura con un pizzico di follia scegliere di chiamarsi da soli e giocare contro tutti gli altri quattro, diventando un conradiano compagno segreto di se stesso… Sempre litigando un poco, ma rimanendo amici a carte riposte e con un bicchiere di vino davanti. Nostalgia? Sì, provo nostalgia… non ci penso e mi collego a Internet…

2010

 

Cezanne

PAUL CEZANNE, “LES JOUEURS DE CARTES”

sabato 30 maggio 2015

Un mare lontano

 
Forse sul ponte di una nave che va in America. Forse, ma non adesso, non in una crociera troppo organizzata. Sul ponte di una nave che va in America ne­gli anni Venti, e il sogno di vedere spuntare la Statua della Libertà. Sul ponte di una nave tra dame vestite di bianco con l’ombrellino e la noia di una lunga traversata. Sentire il transatlantico fendere l’Oceano, dividere in due cielo e mare come nelle poesie di Juan Ramón Jiménez. E come lui inseguire l’amore o la sua ombra con l’ansia di non riuscire a raggiungerlo, come il bambino cui resti la coda della lucertola tra le dita mentre questa corre via al sicuro. E poi sbarcare in una città dove desideri e paure si intarsiano, anzi di più, si intrecciano strettamente come la trama e l’ordito di un tessuto tanto che non riesci neppure a distinguere dove finisca l’una e cominci l’altro.

Ma ora cala la sera e la luce si affievolisce fino a restare il lontano globo di un lampione stradale e il giardino nell’ombra diviene una dar­sena. Mi godo il fresco nella sera d’estate sul balcone ascoltando la radio e oltre le piante mi immagino di scorgere il mare. Mi sembra quasi di sentire lo sciabordio delle onde. Ma è un mare lontano anche nel tempo, è un mare di memorie perdute eppure ancora così vive: è un’immensa distesa che scintilla di riflessi d’argento e mi dice che le occasioni perdute non ritornano e che questa è la legge più dura del mondo. Baci non dati e parole taciute, rimpianti e nostalgie che ardono in petto, pozze d’acqua distese nel deserto e quando scendi per bere ti accorgi che è un miraggio e che con un po’ d’acume lo potevi intuire, potevi capire… Oppure davanti a me si estende la campagna di una piccola città del Midwest americano, lontano i serbatoi dell’acqua e il treno che passa, i rumori e le note che provengono da un ballo campestre mentre la luna si alza lentamente al ritmo dolce della steel guitar. È una scena di film o telefilm, di quelle con cui abbevero il mio “American Dream”: potrebbe essere la cittadina di “Footloose” o quella in cui vivono allegri i ragazzi di “Happy Days”.

Perché mai i miei sogni sono così irrealizzabili? Perché mai se riguardano un luogo, comunque si rivolgono ad un tempo ormai passato o avviluppato nelle pagine del cinema o della letteratura? Che la nostalgia che provo sia quella per un periodo trascorso e non per un luogo lontano? Infatti non è quel luogo a mancarmi, ma l’atmosfera di quel luogo. Se anche vi tornassi, non troverei quello che cerco, lo so benissimo.

Luglio 1995

 


FOTOGRAFIA © THE ENCHANTED STORYBOOK






sabato 23 maggio 2015

Quel vestito stampato

 

Devo ammettere di averci pensato anch’io qualche volta: il tema di una poesia di Andrew Motion è che fine abbia fatto un vestito indossato tanto tempo prima dalla donna amata – un vestito che diventa un feticcio, che passa a simboleggiare l’amore com’era nel suo nascere, nel suo primissimo albore fatto di tenerezze e gesti romantici. L’aver scelto una tovaglia che ne richiama colore e disegno è per il poeta inglese un segno dell’antico amore, un risveglio della fiamma mai sopita.

Motion scrive nella sua biografia per il British Council: “Voglio che i miei versi siano chiari come acqua. Nessun linguaggio ornato, solo qualche ovvio accorgimento. Voglio che i lettori possano vedere tutto il percorso attraverso lo specchio della palude. Voglio che sentano di trovarsi in un mondo che pensano di conoscere, e che diventa poi straniero, più carico, più turbato di quello che credevano”.

Bene, Sir Andrew Motion, ci sei riuscito: ho ripensato a quel vestito azzurro riempito di lei, a come si ricopriva della luce d’estate… Sarà diventato stracci per pulire i vetri o è finito nel sacco giallo della Caritas o forse è passato di mano, dopo essere finito in qualche mercatino?

 

2012

 

The Mad Hairdresser study

JACK VETTRIANO, “THE MAD HAIRDRESSER”, STUDY

sabato 16 maggio 2015

Una normalissima foto ricordo

 

Una normalissima foto ricordo, di quelle che tutti noi abbiamo ben incollate nei nostri album oppure dimenticate alla rinfusa in un cassetto o in una vecchia scatola da scarpe, legate con un elastico che si secca.

Un bambino ritratto tra i giochi, forse dei gonfiabili o delle moderne altalene, su una spiaggia; dietro scintilla il mare. E poi c’è il tempo, grande protagonista di ogni fotografia: quel tempo che ferma l’attimo per sempre, che lo ingabbia in quel rettangolo – ora digitale, ma un tempo solidamente cartaceo – nel quale rimane cristallizzato, immobile come un insetto intrappolato in una goccia d’ambra.

E con il tempo arriva il ricordo, la memoria di un altro bambino che in un altro tempo giocava sulla spiaggia con paletta e secchiello, che costruiva una pista di sabbia per farci correre le biglie con il viso di celebri corridori dai nomi oggi ormai persi nella leggenda. Il tempo, già fermo nello scatto.

Febbraio 2011

 

Biglie

FOTOGRAFIA © SITOGRAFICO

sabato 9 maggio 2015

La felicità

 

Ci sono certe mattine di martedì, quando sono a Milano, in cui mi capita di attraversare il Parco Sempione e uscire dal Castello Sforzesco dalla Porta del Filarete: fuori c’è la grande fontana che eleva al cielo i suoi getti; dietro, il sole si leva sui palazzi ottocenteschi di Via Dante, dipingendo riflessi iridescenti sull’acqua.

In quel momento io mi sento felice, senza un perché. Immotivata felicità e forse per questo ancora più apprezzata. Per il resto, io non credo alla costituzione americana che mette il diritto alla felicità tra i suoi requisiti fondamentali. Si può provare a essere felici ma niente e nessuno può garantire la felicità. La vita ha i suoi colpi, il destino sa essere crudele.

Se Gesualdo Bufalino scrisse che “la felicità esiste, ne ho sentito parlare”, io posso dire che esiste perché so di averla provata, di provarla, anche se non può essere uno stato continuativo. Dobbiamo soltanto coglierla, quando si presenta, come un bel frutto dorato sull’albero dei giorni…

 

Febbraio 2011

 

Filarete

FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 2 maggio 2015

Una sera di pioggia

 

Eravamo seduti in macchina in una sera di pioggia, fermi sotto casa sua. Le gocce cadevano sul parabrezza, si raccoglievano in rigagnoli, disegnavano vene nelle quali fluivano le luci gialle della città. Di tanto in tanto, un’auto passava nella strada illuminando per qualche istante i nostri visi persi nella semioscurità dell’abitacolo. Era primavera e sui vetri cadevano petali dai pruni ornamentali del viale, l’acqua che scrosciava fitta li incollava sui vetri.

La musica di Sade che usciva dal cd si armonizzava bene a quella situazione: “Ti ho dato tutto l’amore che avevo, ti ho dato tutto l’amore che potevo”. Lei mi stava parlando del tempo: pianificava il suo futuro, lo costruiva mettendo insieme gli elementi come se fossero carte e stesse realizzando un castello – la differenza è che non sarebbe stato fragile anzi, solidissimo, con tutte le sue certezze che spesso andavano a cozzare con i miei ghiribizzi di sognatore, con le mie visioni di poeta.

Era un futuro senza di me, l’avevo compreso da tempo: non ero certo uno sprovveduto né un ingenuo, sapevo leggere tra le righe, collegare i segnali, farli combaciare. Che l'amore finisca, dunque, pensavo che si sgretoli... “Continuo a volare, sto cadendo” stava ripetendo ossessiva Sade, la pioggia aggiungeva spazzole jazz a quella musica. Cercavo di misurare le parole, di sostenere una conversazione dignitosa, senza tradire quel groppo in gola che sentivo. Non ferirmi, non ferirmi, pensavo. Lasciamoci così. Meglio il silenzio, meglio il vuoto.

Quando lo disse, quando sputò quel rospo che – anche lei – aveva in gola, mi sentii meglio. “Credo che dovremmo chiuderla qui” era il succo di quell’argomentato discorso, com’era sua abitudine aveva seguito uno schema, facile che si fosse esercitata a casa, che avesse stilato anche un prospettino con tutti i punti, scritti con la sua calligrafia ordinata, senza una sbavatura.

Sollevò il suo volto biondo e sottile e mi guardò seria e compunta. Rimasi zitto e la guardai. Una lacrima le rigò la guancia. La abbracciai. Era tutto finito, ma l’amore ancora in qualche parte del cuore pompava il suo sangue. Era difficile parlare, era difficile persino staccarsi da quell’abbraccio, l’ultimo. “Piove meno, ora. Sali, che è tardi. Tua madre sta in pensiero”. Mi sfiorò le labbra con le dita, poi aprì la portiera e scese nella strada. La pioggia si mescolò alle sue lacrime.

 

Pioggia

FOTOGRAFIA © THE STARLITE CAFE

sabato 25 aprile 2015

L’appostamento

 

1.

“Che ore sono?”

“Manca un quarto a mezzanotte, Jack… non è che se me lo domandi ogni cinque minuti il turno finisce più in fretta. Lo so che vuoi tornare a casa dalla tua mogliettina…”

“Sei il solito insensibile, Vincent. No, è che gli appostamenti mi sfiancano e poi non succede nulla e Jimmy Tredita non si è fatto vedere neanche stasera.”

“Eh, Jackie, Jackie, si vede proprio che tu sei giovane e sei sposato. Se avessi qualche anno di più come me e il pelo sullo stomaco che mi hanno lasciato due matrimoni e tante nottate come questa a fumare e a lasciare gli occhi dentro un cannocchiale, non ti lamenteresti. Anzi, ringrazieresti tutti i santi – tu sei irlandese, vero? – ringrazieresti San Patrizio che ti permette di vedere quella carne fresca al di là della strada. Una ballerina, una ragazza di venticinque anni con addosso solo una sottoveste rosa che lascia le finestre aperte e le luci accese per farsi vedere da tutto il quartiere, e tu mi chiedi che ore sono!”

 

2.

Tutte le sere. Tutte le sere che verso mezzanotte spalanco le finestre e lascio entrare la brezza. Tutte le sere che mi metto qui in sottoveste a girare seminuda per casa, a sculettare e a dimenarmi, a inventare un mezzo passo di danza. Tutte le sere, da una settimana almeno, da quando ho scoperto che nel palazzo dall’altra parte della strada c’è un bel ragazzo che mi osserva con il cannocchiale. Un gran bel figo, non c’è che dire. Un biondino, chissà quanto sarà alto e chissà come bacia bene! Tutte le sere… e aspetto che finalmente si svegli e mi venga a trovare. Ma lui niente. Continua a restare là a guardarmi. Adesso però mi tolgo anche la sottoveste e vedrai se non scende, il biondino!

Dietro il cannocchiale il detective Jack O’Riordan spalanca gli occhi e dice “Vincent, non ci credo: la troietta si è spogliata completamente e fa cenni verso di noi… Sta lì nuda e continua a dire qualcosa. Leggi un po’ le labbra, tu che sei più esperto”

“Dunque, dice: «Vieni giù, bel biondino»… Ehi, Jack, hai mai pensato di farti un’amante?”

 

2013 – scritto appositamente per “Nom de plume”

 

EDWARD HOPPER, “NIGHT WINDOWS”

sabato 18 aprile 2015

Laozu a Porta Nuova

 

Dunque, io stavo lì che guardavo il cielo afoso di luglio dove nugoli di moscerini si inseguivano e frotte di zanzare-tigre stavano in agguato dietro le fronde in un minuscolo ristagno d’acqua – non l’ho detto, ma la scena si svolge a Milano, mica a Venezia che hanno tutti quei bei canali. Stavo lì in mezzo al traffico con il mio bel camion con rimorchio e intralciavo tutta la carreggiata proprio davanti alla stazione ferroviaria di Porta Garibaldi, dove stanno sorgendo gli enormi grattacieli del centro direzionale e la strada è un cantiere unico in vista della realizzazione della linea 5 della metropolitana. Stavo lì immobile da qualche minuto e la coda dietro di me cominciava a diventare rabbiosa: nessuno poteva imboccare il tunnel di Porta Nuova e correre alle sue faccende, tuffarsi nel suo mare di stress quotidiano. Qualche automobilista minaccioso si era anche affacciato sotto la portiera, ma troppo in alto e troppo irraggiungibile sono. Quando vennero due ghisa con una scala a parlamentare e mi chiesero perché non mi muovessi, risposi «Agisco senza agire, mi occupo di non faccende, assaporo l’insapore, ingrandisco il piccolo…» A questo punto uno dei due ghisa mi disse «Favorisca patente e libretto». Glieli diedi. Il ghisa li sbirciò e poi disse: «Signor Laozu, non le faccio la multa che meriterebbe perché qui intasa la strada, ma se ne vada un po’ velocemente».

Sorridendo, ingranai la prima e partii verso il tunnel. Due farfalle si inseguivano amorose nel cielo carico di smog.

 

2010

 

Porta Nuova

FOTOGRAFIA © PANORAMIO

sabato 11 aprile 2015

PAO

 

Nel luglio del 1988 ero ancora un “nipote”. Dopo il mese di CAR alla caserma Edolo, il mio trasferimento alla Leone Bosin e il campo estivo a Ponte di Legno, in attesa di una posizione ufficialmente certa in seno alle Forze Armate cui “prestavo” un anno della mia vita, appartenevo praticamente alla più bassa manovalanza. Era un po’ la situazione delle caste indiane: ero sul fondo, nella struttura piramidale dell’esercito di leva. Questo significa che venivo considerato disponibile per ogni turno di guardia, per le varie corvée della caserma - più volte avevo lavato piatti in cucina o ramazzato i viali della Bosin - o per qualsiasi ghiribizzo venisse in mente a un qualche ufficiale. Per dire, in quella prima settimana di luglio avevo montato di guardia, avevo servito di corvée cucina, ero stato incaricato della pulizia dei bagni della mia compagnia ed ero stato inviato come capomacchina sull’Alfa 33 blu del generale di brigata al Tonale, avevo dormito lassù ed ero tornato in mattinata.

Quel tardo pomeriggio stavo facendomi la doccia per andare finalmente in libera uscita dopo giorni. Mi pregustavo già le luci di Merano, il ristorante sotto i portici, la gelateria sul lungopassirio. Invece, mentre ero lì tutto insaponato, mi chiamarono: «Ti vuole il sottotenente». Finii di lavarmi, mi avvolsi nell’accappatoio, andai in camerata a indossare di nuovo la mimetica, presagendo che qualche nuovo servizio mi sarebbe stato appioppato tra capo e collo, e andai nell’ufficio del sottotenente.

Non mi ero sbagliato. «Si è rotto l’allarme dell’armeria. Devo aggiungerti al PAO». Senza giri di parole, franco, sincero, corretto. Apprezzai. Del resto ammiravo molto quel sottotenente, figlio di un generale, che però non faceva pesare minimamente questa sua imponente parentela. Approfittai di quella sua sincerità per una rimostranza - sarebbe stata fuori luogo altrimenti, gli ordini non si discutono. «Posso parlare chiaro?» gli chiesi. «Certo». «Guardi, io non ho problemi, ma mi piacerebbe sapere perché proprio io, tra i tanti soldati di questa caserma. Ieri al Tonale, prima di servizio ai bagni, prima in cucina, prima ancora di guardia, adesso di PAO». Il sottotenente non si scompose, fece soltanto una smorfia che significava “Mi dispiace”. Alzai le mani, quasi in segno di resa, tornai in camerata a prendere l’elmetto e mi recai all’armeria che dovevo difendere, dove mi misero in mano un vecchissimo fucile Garand che non sarebbe servito a niente in caso fosse successo davvero qualcosa.

Passai due ore seduto su una sedia davanti alla cancellata chiusa dell’armeria, con il fucile nella sinistra e pensieri che mi si accavallavano. Affrontavo un misto di rabbia e di impotenza, consideravo l’ineluttabilità di quella situazione, ero consapevole di rappresentare l’ultima ruota del carro, la parte più bassa della catena alimentare. Come Dio volle, finì. Venne il sottotenente a dirmi «Puoi andare» e mi allungò la mano perché la stringessi. Era il ringraziamento silenzioso di un uomo tutto d’un pezzo, e mi lusingò. Lo salutai e mi avviai all’uscita della palazzina delle Trasmissioni. Nel corridoio mi sentii chiamare. Era S., un varesino di lago con il quale avevo fatto il CAR. «Vieni, che beviamo del Bonarda. L’ho portato dalla licenza». Erano le dieci ormai, troppo tardi per uscire, troppo tardi per qualsiasi cosa. Entrai nella sua camerata, presi la tazza rossa smaltata che mi offriva e bevendo lentamente il vino rosso e vivace gli raccontai di quella sera, di quella settimana infernale. Parlando, come sentivo che il vino scioglieva i nodi dentro me, ugualmente capivo che andavo allentando la tensione, che lo sfogo cancellava la rabbia, che la compagnia degli amici è come una medicina salutare.

Il mattino dopo il sottotenente mi chiamò ancora. Nessun servizio, stavolta. Mi avevano trasferito alla Cesare Battisti per lavorare finalmente inquadrato in un ufficio, con una posizione ben definita. Stavolta mi strinse la mano per salutarmi e sulle sue labbra apparve anche l’ombra di un sorriso.

    PAO

sabato 4 aprile 2015

I parcheggi

 

Davanti a me alcuni scontrini di parcheggio. Erano nella vaschetta portaoggetti della mia auto e mi sono capitati tra le mani quando finalmente mi sono deciso a fare un po’ di pulizia.

Il parcheggio è il luogo fisico in cui la visita a una città comincia e finisce: racchiude in sé la speranza dell’attesa, le fantasie su ciò che si potrà osservare, sul bar dove si potrà sorbire un cappuccino o bere un calice di vino bianco accompagnato da gustosi stuzzichini, sul ristorante dove ci si fermerà a pranzare. È il luogo del desiderio, dunque. Ma è anche il punto dove la visita finisce: è già ricordo che si va costruendo; è rimpianto di ciò che non si è potuto vedere o fotografare, del souvenir non comprato, della cartolina non spedita. È anche il luogo dove la memoria ha inizio, allora.

Si arriva baldanzosi, con la macchina fotografica, con la borsa, con lo zainetto. Si prende il tagliando e si pagherà poi con comodo, quando si torna. Oppure si inseriscono subito le monete nella fessura e si stampa lo scontrino che ci darà un tempo limitato. Certo, il primo metodo di pagamento è il migliore. Poi si gira per la città, si fa quel che si deve fare, si vede quel c’è da vedere, si compra quel che c’è da comprare. E infine si torna, con passo più stanco. E stanco è anche il gesto di porre la borsa, lo zaino, la macchina fotografica sul sedile posteriore, di posare i pacchetti nel baule. Un bel respiro, un sospiro, un ultimo sguardo al luogo che abbandoniamo e si sale in auto: cintura di sicurezza, avviamento, marcia e si riparte…

 

ParkLU

sabato 28 marzo 2015

Aprile

 

“Era d’aprile. Quel movimento delle foglie, della terra, dell’aria, delle cose, luce che parla di domani, rimescolamento interno delle fibre di cui si era dimenticata l’esistenza”: così Dino Buzzati in un racconto pubblicato sul “Corriere della Sera” il 17 gennaio 1960 e incluso poi nelle “Cronache fantastiche”.

Aprile, il dolcissimo aprile, il “più crudele dei mesi” di Thomas Stearns Eliot, il periodo del pieno risveglio, del rigoglio più sfrenato in cui la natura si agita come una ballerina che esegue la danza del ventre. Il tempo dolcissimo delle giacche leggere, delle serate lunghe per restare nel tramonto a parlare con gli amici, seduti al tavolino di un bar o su una veranda dove l’aroma dei fiori si espande fragrante e inebriante. Lontano magari scintillerà il mare nell’ultima luce o il lago calerà nell’ombra delle montagne, o ancora il fiume scorrerà via lento e placido portandosi via i riflessi delle case sulle sponde.

Aprile, l’ora del sommovimento, del ritorno alla vita, del riemergere dalla crosta ghiacciata dell’inverno: e, fermi nel sole, su una panchina, su un muretto, su una seggiola si protende il viso per ricaricarsi di tutta l’energia che ci era mancata per lunghi mesi. Camminare per i giardini fioriti di narcisi, tulipani, giacinti e glicini, di ciliegi, peschi, pruni, magnolie e gelsomini è come andare in una pinacoteca: la vista ne è estasiata, l’olfatto è colpito dai profumi.

Aprile, lunghe camminate nei boschi, sui sentieri che discendono a serpentina verso il fiume, dove i bucaneve e le primule si sono ormai ritirate e l’erba cipollina già irradia il suo pungente aroma, dove fiori azzurri e violetti dei quali non si è mai saputo il nome spuntano da ogni forra, da ogni rupe, da ogni blocco calcareo in cui la terra è riuscita ad annidarsi. E sull’alzaia, nello splendore di sponde rese bianche dalla fioritura dei ciliegi selvatici, si passeggia senza fretta, rispecchiandosi nell’acqua verde, ubriachi della dolcezza di aprile.

 

3576024304_8e30eedd20_z

FOTOGRAFIA © JACKIE RUEDA

sabato 21 marzo 2015

L’iniziazione

 

Le parole hanno una forza che spesso sottovalutiamo: sanno blandire e accarezzare, come la voce flautata di una donna che sussurri momenti d'amore o di una madre che consoli il suo bambino con le ginocchia sbucciate; sanno trascinare, come negli infiammati discorsi di uomini carismatici; sanno anche ferire, talora inconsapevolmente. E sanno raggrupparsi come colori in un caleidoscopio per disegnare splendide poesie.

Ho spesso pensato che scrivere versi è compiere una specie di autoanalisi, valutare le proprie emozioni e fissarle perché non vadano perdute. Potrebbero essere, se l'immagine non mi facesse ribrezzo, farfalle fissate con uno spillo. Sì, scrivere significa conoscere se stessi, infilarsi nei meandri dell'inconscio e ricavarne impressioni che possiamo interpretare meglio dei sogni che vengono talora a popolare le nostre notti. Significa conoscere il proprio dolore o la propria malinconia, scavare terra per riportare alla luce le gioie dell'oro, per vedere rilucere le speranze, per risvegliare le illusioni.

C’è un momento fondamentale nella vita di un poeta, quello della folgorazione – come San Paolo sulla via di Damasco, ci si trova improvvisamente illuminati, sbalzati dal cavallo grigio della quotidianità, si comprende che il mondo ha un’essenza che ci viene rivelata in quel momento, la gioventù, è chiaro.

Il poeta è allora colto da un’ebbrezza, da una smania che lo porta a riconoscersi tale vergando i primi incerti versi, dei quali poi forse si vergognerà. Ma è il punto di partenza, l’iniziazione che ci porta nell’età adulta, come capita ancora in certe tribù che vivono ai margini della civiltà del XXI secolo.

Così capitò anche a me, ormai tanti anni fa, uno dei primi giorni di gennaio del 1980, attraversando in auto con mio padre uno sperduto paese di provincia. La poesia mi si manifestò, lampo improvviso nel grigio. Avevo poco più di 15 anni. Da allora ne scrivo ogni giorno, fedele al motto “Nulla dies sine linea”.

 

Criste

DIPINTO DI MIHAI CRISTE

sabato 14 marzo 2015

I fantasmi di ieri

 

Io credo di essere un collezionista di ricordi, un seduttore di spettri.
GESUALDO BUFALINO

Leggevo ieri alcuni aforismi di Gesualdo Bufalino. Vi sono molti spunti di riflessione nella dolceamara ironia dello scrittore siciliano, ma uno in particolare mi ha fatto pensare: "Oggetti di tenerezza: le comparse nei film americani degli anni Trenta, i dischi New Orleans, i calendari dell'anno passato".

È quello che cerco: non vivere nel passato, che sarebbe irrealistico, ma vivere tenendo conto del passato. È per questo che mi emoziono per certi vecchi film o per storie che raccontano di tempi anche relativamente lontani: il bianco e nero è già di per sé oggetto di fascino. È per questo che amo piccoli borghi dove il tempo sembra non essere passato: la Rocca di Gradara, Castell'Arquato, Montepulciano. E Piazza dei Mercanti a Milano, se la si guarda in modo da ignorare il Mac Donald's e le insegne delle banche. E naturalmente città come Parigi e Praga, Roma e Firenze, e soprattutto Venezia, con quel suo particolarissimo essere fuori dal tempo.

In quei posti si respira - anche solo per pochi istanti - l'atmosfera che vado ricercando, lo si potrebbe chiamare il profumo ancestrale del passato: come certi mistici abbandonano il corpo e si osservano dall'esterno, così allora mi sento. E gli oggetti, per ritornare a Bufalino, mi riempiono di tenerezza...

 

Bennion

MIKE BENNION, “THE OWL SANCTUARY”

sabato 7 marzo 2015

Ritter Sport

 

Prima sono passato al supermercato. C’era un espositore con il cioccolato Ritter, ne ho presa una confezione; è del tipo incartato di blu, quello al latte. Sono qui adesso che lo mangio a piccoli quadratini e – come Proust con la sua madeleine inzuppata nel tè – mi si spalanca un mondo di ricordi dolcissimi e lontani: “Sorvolavo rapidamente su tutto questo, imperiosamente sollecitato, com'ero, a cercare la causa di quella felicità, del carattere di certezza con cui si imponeva, ricerca un tempo rinviata”

Andavo a comperarlo nel supermercato Meinl di Via delle Corse, dalle parti di Piazza del Teatro, qualche sera, appena uscito dalla caserma per la libera uscita. Era quasi l’ora di chiusura e riesco ancora a sentirla, quell’atmosfera languida di qualcosa che sta per finire.

Prediligevo quello con lo yogurt ma talvolta prendevo anche quello con le uvette al rum, più raramente la tavoletta di cioccolato bianco con le nocciole intere. Gironzolavo per il supermercato, poi pagavo ed uscivo. Lo scartavo e cominciavo a sbocconcellarlo, girando per la città come un vagabondo, sentendo che quelle strade mi appartenevano, quei viali alberati, quelle chiese sul lungopassirio, quel fiume che si agitava sotto i ponti come un vibrare di specchi infranti.

Mi sembra quasi di sentirlo gorgogliare adesso il Passirio, passa sotto il ponte del Teatro, sotto il ponte della Posta, scorre via verso il ponte romano, verso Castel San Zeno, portandosi dietro il cielo ormai al tramonto. È primavera: sento nell’aria il suo languore, la dolcezza di quei giorni che avrebbero portato al congedo. È un sentore di fiori, un rilucere improvviso che avvolge la chiesa di Santo Spirito, il Duomo, che si infila nei Portici come una folata di vita.

Sono qui che mangio cioccolato Ritter e la dolcezza del ricordo mi avvince come miele.

 

Ritter

DISEGNO © CRYSTALHUNG

sabato 28 febbraio 2015

Notte di stelle

 

L'amore spalanca l'universo. Forse è vero che è l'unico modo per liberarci da noi stessi, come pensava Hebbel. Quella notte di luglio con Paola è dipinta a tinte forti nella mia memoria perché avvertii quella fusione di anime, quell'essere piccoli di fronte all'immensità ma consapevoli di non essere soli.

Lei mi guardava dolce e sorridente e io, stupito, la guardavo fantasticando come facevo delle navi e dei pirati da bambino. Sfioravo i suoi lunghi capelli castani e la luce della luna sembrava frangersi su di essi, sulle mie mani, nei nostri occhi. Eravamo immersi anche noi in quel mare liquido che disegnava onde sulle tende, che bagnava i fiori nei vasi del terrazzo.

Com’era bella lei, com’era mia! Nel bacio il suo seno premeva contro me, contro il mio petto che la magia del momento, di quel magico incontro, riempiva di gioia e felicità. Le sue labbra sapevano di vita: erano l’universo, tutto il mondo e le stelle. Ed era là, in quel preciso momento, che io nascevo, su quella panchina di legno consunto.

L’altro giorno leggevo i taccuini di Anton Cechov e mi sono segnato una frase: "Quello che noi proviamo quando siamo innamorati, forse è il nostro stato normale. L'innamoramento mostra all'uomo come egli dovrebbe essere sempre". Ho riconosciuto lo stato di quella notte di stelle...

 

Tumblr

FOTOGRAFIA © TUMBLR