sabato 29 settembre 2012

L’ultimo giorno di naja

 

    Per il congedo Andrea Lievi tornò nella caserma del reparto cui apparteneva. Avrebbe dovuto restarci tre giorni e un po' temeva la fama del colonnello Tripodi, che del resto aveva conosciuto durante le due settimane al campo estivo. Tripodi, come lo chiamavano i soldati saltando sbrigativamente il grado, assegnava punizioni in maniera bizzarra: nessuno poteva considerarsi al sicuro in nessun angolo della caserma.
    Andrea ricordò un episodio avvenuto al campo: il suo amico Randoni era di guardia nelle ore notturne al rimorchio che fungeva da armeria quando il colonnello Tripodi, rientrando alla sua tenda da qualche bar della zona, gli rivolse la parola. Ligio alla consegna, Randoni tacque ad ogni domanda posta dal colonnello, che infine sbottò: "Sono il tuo comandante, perdio, parla!". Randoni tacque e Tripodi probabilmente assunse la stessa espressione che doveva avere avuto Michelangelo quando tirò una martellata al suo Mosè di marmo che rimaneva muto.
    Fu lo stesso Tripodi a raccontare l'episodio a tutto il reparto schierato durante l'adunata del mattino. Randoni era visibilmente arrossito. Si vide appioppare otto giorni di punizione che non meritava. Ciò che più gli dispiaceva era che, non essendovi telefoni al campo, non avrebbe potuto parlare alla fidanzata per una settimana. Chiese proprio ad Andrea di avvertirla che per un po' non si sarebbero potuti sentire.
   
    La jeep che avrebbe dovuto riportarlo alla sua vecchia caserma arrivò. Andrea salutò il maresciallo Peruzzello e i Carabinieri del Nucleo, fissò un appuntamento per la sera con Dossi e Ferrola e partì. Dopo essersi registrato tornò nella stessa camerata dove aveva passato pochi giorni e il caporale di giornata gli trovò una branda. C'erano altri congedanti e li conosceva tutti: Randoni, Bassi, Caini, Pagliarini, con cui aveva diviso il campo; Luraghi, l'architetto con cui tante sere d'estate aveva bevuto cocktails al Café Liszt; Cesare Cantù, con quel nome importante e quell'aria così snob. E soprattutto Randazzo, l'avvocato.
    La sua ingenuità non aveva limiti. Randazzo era diventato una leggenda la notte che, di guardia sull'altana, lanciò l'allarme e fece accorrere il capoposto e l'ufficiale di picchetto. "Che c'è?" gridarono dopo l'avvenuto rito di riconoscimento. "C'è un cane che abbaia, credo che abbia fame" disse Randazzo "non si potrebbe portargli una scatoletta di cibo per cani? Compratela allo spaccio, la pago io". Tripodi lo punì, ma non era per quella punizione che Randazzo si sarebbe congedato il giorno dopo gli altri: il rigore lo aveva ottenuto per un atto di nonnismo - se poi tali atti erano da considerare tali, o non piuttosto scherzi goliardici, vista la loro bonarietà, almeno lì, tra dottori e diplomati - non denunciato all'ufficiale di picchetto.
    Randazzo girava per la città con una bicicletta che si era portato da Bergamo. La sera del suo compleanno, nel mese di agosto, quando già Andrea Lievi era nell'altra caserma, lo invitò a cena con altri due compagni della prima ora e si era procurato in un supermercato una bottiglietta di grappa Williams. Bastarono due sorsi per ubriacarlo; quella sera Andrea aveva portato la bicicletta in caserma mentre gli altri due, Luraghi e Bassi, conducevano Randazzo.
    Andrea sorrise dell'ingenuità dell'amico e se ne intenerì; ripensava a quella sera e ricordava le stelle nel blu mentre da solo, depositata la bicicletta al corpo di guardia della caserma di Randazzo, tornava a piedi alla sua caserma, distante un chilometro.

    Bassi entrò giubilante: "Ragazzi, ho il permesso di uscita per tutti per i prossimi tre pomeriggi. Anche per te, Andrea. Purtroppo, Randazzo deve restare: Tripodi non vuole sentire ragioni, considera la punizione".
    Uscirono tutti nel sole di aprile, leggeri come fantasmi - del resto i congedanti nel gergo della caserma venivano detti “fantasmi” o “borghesi”. Avveniva dopo il prelievo obbligatorio di sangue. Prima di allora, in quell’ultimo mese venivano chiamati “Max” e quando uno di loro entrava nella stanza, soleva gridare “Ritti, perdio, entra la Max!”.

    Piantavano dei pali dentro il fiume, grandi draghe sostavano sul greto sassoso del Passirio presso il ponte a passerella che conduce in zone un poco periferiche. Com’era verde l’acqua: sembrava quasi opale!
    E camminando sulla passeggiata, alle spalle la Chiesa protestante, Andrea guardava gli operai che lavoravano all’aria tiepida di primavera chiedendosi lo scopo di quei pali, sapendo che sarebbe partito prima che finissero, senza conoscerlo.
    Il pomeriggio scorreva leggero, l’aria di primavera riscaldava i cuori. Nelle antiche vie andavano assaporando quella libertà che l’indomani avrebbe portato. Guardarono le vetrine e le commesse dei negozi del centro, sulle panchine Liberty del lungofiume sostarono oziando ed osservando i bianchi gorghi, dimentichi che quella compagnia il giorno seguente si sarebbe disgregata.
    Bevvero birra al banco della Forst, girovaghi perduti nel meriggio. Personaggi di un libro di Hermann Hesse, cenarono insieme come a celebrare il ritorno alla vita, presto liberi quando sarebbe ritornato il sole.

 

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MERANO, CASERMA BOSIN (ORA ABBATTUTA)

sabato 22 settembre 2012

Nove giorni all’alba

 

Andrea Lievi entrò nella camerata buia, rischiarata solo dalle luci di guerra che diffondevano un chiarore bluastro così da illuminare sufficientemente senza disturbare il sonno. Si spogliò in fretta, controllò che il letto fosse stato fatto normalmente e che nessuno avesse eseguito lo scherzo del "sacco" ripiegando le lenzuola a metà in modo tale che non ci si potesse infilare. Non c’era neppure dello zucchero, solo un palloncino legato alla testiera da qualche buontempone. Il letto era stato fatto a regola d'arte. Era una buona abitudine invalsa in quel plotone quella di far trovare pronta la branda a chi tornasse da una licenza.
Andrea depose la borsa nell’armadietto e appese il giubbino di jeans a una gruccia. “Mi mancherà…” pensò di quello stretto cubicolo di metallo grigio. “In fondo è stata la mia casa per tutto questo tempo. C’erano i suoi ricordi: biglietti del cinema, una cartolina spedita da un’amica incollata con del nastro adesivo appena sotto lo specchio, ombrellini decorativi di cocktail, la locandina di un night club dove non era mai stato, la pubblicità di un locale del centro, il Pub One. E un contenitore realizzato con la scatola di cartone del profumo Brut, dove svettavano il pettine e lo spazzolino.
Fuori il piantone cercava di passare il tempo leggendo un fumetto. Se fossero arrivati il capitano Del Grano o il tenente Pulvirenti sarebbero stati guai… Ma tutto era tranquillo, la luce entrava riflessa nel corridoio delle camerate mischiandosi con il riverbero blu delle fioche lampade di guerra. Andrea si mise il pigiama e andò in bagno con il suo necessaire color crema.
Era mezzanotte quando si coricò. "La mia ultima licenza" pensò, "domani in ufficio sposterò la bandierina a 51 giorni passati a casa e a nove soltanto quella dei giorni al congedo". Era una specie di gioco dell'oca che qualcuno aveva ricavato da una scatola di cartone che aveva contenuto carta per ciclostile: vi erano disegnate tante caselle quanti i giorni di leva da compiere e un prospetto con i giorni di licenza; le bandierine erano spilli con un triangolino di carta colorata. Il suo era verde; quello di Dossi, il suo collega, che ora stava dormendo nella branda sotto la sua, era gialla. Tra di loro c'erano sessantadue giorni di differenza, ma Andrea non faceva pesare quella sua anzianità, anche perché in ufficio comunque comandava lui, in virtù del grado di caporale e della maggiore esperienza, superiore anche a quella del maresciallo Peruzzello, subentrato nel corso dell'anno al maresciallo Illica.

Suonò la sveglia. Andrea guardò l'orologio: le sei e trenta. Balzò in piedi e andò a lavarsi; gli altri stentavano ad alzarsi. Quando tornò trovò un sergente che non conosceva: stava facendo la ramanzina a qualcuno che aveva trovato a letto. Andrea salutò Dossi e gli altri commilitoni che armeggiavano negli armadietti vicini.
Passò a far colazione nella mensa provvisoria, ricavata in un enorme garage. La mensa originaria, dove era riuscito a pranzare solo per pochi giorni dal suo arrivo in quel battaglione era in fase di restauro. Da lì raggiunse l'ufficio attraversando una parte piuttosto nascosta della caserma, passando davanti alla casetta del sarto, al magazzino delle trasmissioni e al deposito all'aperto di camion, cucine da campo, rimorchi e spazzaneve. 
Andrea lavorava alla delegazione staccata del Presidio militare. Era un'abitazione a un piano, dipinta di verde chiaro, che in passato era stata il Circolo dei sottufficiali. Di fronte ad essa un'analoga casetta, il Nucleo Carabinieri, dove lavorava Ferrola, altro compagno di camera, e dove prima di lui aveva lavorato Miglio, suo inseparabile amico per tutta l'estate e l’autunno. Erano quattro mesi già che Miglio si era congedato. "Tocca a me, ora" pensò Andrea e salutò Ferrola che arrivava dalla stradina che lui aveva percorso pochi istanti prima. Tra le due abitazioni c'era un piazzale asfaltato e una ramata con cancelletto separava i due uffici dal resto della caserma. Un cancello scorrevole dipinto di verde dava accesso alla strada di fronte all'ippodromo: da lì loro, che possedevano le chiavi, potevano entrare e uscire indisturbati tutte le volte che volevano. Andrea, con la sua prudenza, diventata ormai proverbiale tra i compagni, ne aveva approfittato solo una volta, una domenica mattina in cui erano venuti a trovarlo i suoi genitori con degli amici. Dossi e Ferrola facevano lunghe fughe notturne e nei week-end tornavano addirittura a casa.
Era una base da cui partire, un luogo sicuro che gli altri della caserma non avevano: qualche sera vi si trovavano anche, con qualche amico fidato.

In ufficio non c'era nessuno, il sole entrava caldo dalle finestre senza tendine della sala d'aspetto e disegnava le ombre sul pavimento di palladiana. Aspettando che arrivassero Dossi o il maresciallo, Andrea iniziò a risolvere i giochi della Settimana Enigmistica. Era il suo hobby: sapeva risolvere quasi tutti gli enigmi, anche quelli difficili, e suscitava ammirazione in tanta gente questa sua abilità, frutto di una buona intelligenza, certo, ma anche di anni di cultura classica e di un costante aggiornamento.
Intanto nella strada gli autobus si susseguivano sbuffanti e frotte di ragazzi raggiungevano il centro. Andrea notò una ragazza carina: aveva i capelli  biondi e ondulati e un grazioso nasino all'insù, indossava dei jeans molto aderenti che le mettevano in risalto le forme. Dopo qualche minuto un autobus se la portò via verso i negozi del centro.
Pensò che questo fatto sintetizzava bene la loro condizione di soldati: vivevano come dietro un vetro - una gabbia di cristallo - e al di là di questa la vita scorreva normalmente, con i suoi amori e i suoi dolori. Ma dentro la gabbia vigevano regole differenti, la vita stessa sembrava sospesa, condizionata da un’attesa continua del congedo: si contavano i giorni, o per meglio dire, secondo il gergo militare, le “albe”; si percorreva una gerarchia salendo di gradino ad ogni scaglione che se ne andava. Da “nipote di terza” si diventava nel corso di undici mesi “La Max”, quello che Andrea era adesso. Tra qualche giorno, effettuato il prelievo di sangue obbligatorio, sarebbe diventato “fantasma”, quello che c’è ma non si vede, detto anche “borghese”.
In quel momento arrivò Dossi: entrò nell'anticamera e lasciò stancamente giacca e cappello sull’attaccapanni. Non amava molto la vita militare, lui. Disprezzava quel cappello con la penna che Andrea invece amava, anche per tradizione familiare. Diceva sempre che al congedo l’avrebbe buttato in autostrada. Dossi aveva portato a Merano la sua Alfetta 2000 blu. Era sempre pulita e tenuta con cura, Andrea spesso elogiava questo comportamento dell'amico, lui che invece non dedicava molto tempo alla sua auto e che non si intendeva molto né dei motori né delle ultime novità. Dossi invece sapeva citare qualsiasi dato delle auto sul mercato: prezzo, cilindrata, consumi, se avessero la trazione anteriore o posteriore, numero dei cavalli-vapore e così via.

Dossi sacramentò perché con la coda dell’occhio aveva scorto la Visa azzurra del maresciallo Peruzzello fermarsi davanti al cancello: uscì e fece scorrere la lunga inferriata verde. Non era necessario salutare militarmente - erano tutti comportamenti che si apprendevano osservando gli “anziani”, Andrea imparò dal suo collega Farina, Dossi da Andrea. Solo davanti agli ufficiali si portava la mano alla fronte: il tenente colonnello Franchi, per esempio, che era stato titolare del Presidio e che venne a reggere la Delegazione nel mese vacante tra i due marescialli; o il colonnello Bon, suo amico, che qualche volta venne a fargli visita; o quando si incrociava il maggiore dei Carabinieri che giungeva a ispezionare il vicino Nucleo.
Il maresciallo, un casertano piccolo e robusto - veniva da Marcianise - sembrava, come ogni giorno, aver dormito con la divisa addosso. Si sedette nel suo ufficio e chiamò i ragazzi per i compiti da svolgere quel giorno.
«Lievi, oggi dovrebbe arrivare il tuo sostituto: spiegagli un po’ quello che deve fare, mostragli gli archivi e… insomma istruiscimelo bene perché tu sai tutto qui…» la sua voce cavernosa rimase sospesa nell’aria mentre tossiva, «si chiama Mair, è un altoatesino». Poi guardò Dossi e spalancò un ampio sorriso: «Lo vogliamo congedare il tuo amico qui? E allora prepara l’ordine per il prelievo di sangue, ciclostila tutto ché poi io faccio firmare al generale”. Spianò il quotidiano “Alto Adige” sulla scrivania, segno che la conversazione era terminata e che i ragazzi potevano mettersi al lavoro.

Johann Mair arrivò verso le dieci. Era un ventenne allampanato con i capelli irti e un’aria da apprendista stregone. Disse che abitava davanti al passo carraio della caserma, e quindi cenava in famiglia tutte le sere, il sabato e i giorni festivi. Andrea lo trovò subito simpatico, lo mise a proprio agio mostrandogli i locali del Presidio: l’anticamera, che, con divano e poltrone, fungeva da sala d’attesa per eventuali ospiti; l’ufficio del maresciallo, con il telefono da usare per comunicare con l’esterno; l’ufficio degli scritturali, con due scrivanie, due macchine per scrivere e due telefoni per comunicare con i numeri interni; la sala degli archivi, con i classificatori di metallo, il ciclostile e la macchina tritadocumenti; quello che era stato il gabinetto medico, quando le visite di controllo erano di competenza presidiaria, e ora era una sorta di ripostiglio con un lettino da ambulatorio; il bagno. Quei locali un tempo lontano erano stati il circolo sottufficiali.
Dossi, che aveva battuto a macchina, ricopiando dalla vecchia circolare, l’ordine per il prelievo di sangue obbligatorio per il congedo del 3° scaglione ‘88, mostrò al nuovo arrivato l’uso del ciclostile: “Molto bene” pensò Andrea, “in fondo era Dossi che doveva lavorare con Mair, lui ormai era praticamente un ”borghese”.


 

Alla mia scrivania

sabato 15 settembre 2012

Lettera non spedita (VII)

 

Carissima P.,
            una collana di luci stasera adorna i portici, vestendoli in modo naturale come se ancora ci fossero i lampionai che passano al tramonto. Questa sera non ho voglia di rincasare: voglio solo restare fuori, vagabondare per le strade senza altra meta che i miei pensieri. Ho deciso di dare un taglio al passato e le forbici passano impietose sulla mia timidezza e sulle mie paure: ho deciso di lasciarti andare…

Ma sulla sponda del fiume ho trovato il tuo ricordo, le tue mani affusolate, i tuoi occhi bruni, i tuoi capelli lunghi sciolti sulle spalle, i tuoi seni piccoli da tenere nelle mani, il tuo sorriso, le tue gambe, belle, che gli uomini per strada si voltano a guardare, tu che non porti mai i calzoni e ti veli con i collant. E adesso non sono tanto più sicuro di voler cambiare perché sei tu la cosa più bella che ho avuto dalla vita, quel nostro amore fatto di sole e di mare, quel nostro amore d'estate. Mi siedo al tavolino di un caffè all'aperto e nella birra ritrovo ancora te: non so se amavi più me o quella mia goffa timidezza che aveva bisogno della tua esuberante impudenza.

Sì, d'accordo, lo so: amavi me, non ti adombrare, è stato stupido da parte mia pensare che tu volessi stare con me per essere una madre più che un'amante. D'accordo. E anche adesso non sai quanta fatica mi costi scrivere questa lettera per te, non sai quanta nostalgia arrechi il ricordare i giorni felici con te. E se il foglio è un po' bagnato, non è birra: sono le lacrime che ho versato pensando alle nostre sere, pensando a quel nostro addio di settembre. Ora ho deciso: non ti cercherò più, ma non ti dimenticherò. Sappi che ti amo.

Nessuna donna potrà dire «Sono stata amata»
più di quanto io ti ho amata.
CATULLO, Carme 87 


Merano, 19 marzo 1989

 

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ELABORAZIONE GRAFICA © DANIELE RIVA

sabato 1 settembre 2012

Ex alunni

 

“Il mio sogno è nutrito d’abbandono, di rimpianto”  diciamo con Gozzano io e Patrizio camminando sotto il pergolato di un’antica glicine che c’era anche allora. Non amiamo che il passato, ciò che è irrimediabilmente passato, non come Daniele B. che entra nella vita con le sue chiacchiere e la fa sua come le tante sue avventure. Ha appena finito di raccontarci dell’estate trascorsa in Thailandia, di come a Phuket fuori dai locali anziché i buttafuori ci siano i “buttadentro” – gli occhi gli luccicavano a questa battuta, forse risentiva in bocca il sapore strano della birra di là, rivedeva il bancone, le donne facili. Poi è corso via, a prendere la moglie dai suoceri, promettendo di tornare.

“Qui c’era il muro” dice Patrizio toccando con la mano aperta un punto invisibile nell’aria. E lentamente percorriamo il viale erboso, dove crescono i funghi, dirigendoci verso la cappella della Vergine, restaurata. Sostiamo lì davanti e notiamo quante case siano spuntate da allora nella pianura che si estende oltre i campetti da calcio - come quei funghi sotto il pergolato - persino una palestra. E tutti conosciamo il grande centro commerciale che a un chilometro da qui allarga i suoi tentacoli con svincoli e parcheggi.

“Tutto è irrimediabilmente perduto” dico, forse con l’amarezza dei miei anni. E ricordiamo le file ordinate, le punizioni, i compagni più turbolenti, il refettorio con le tovaglie a quadretti e i bicchieri Duralex e i bottiglioni pieni di acqua del rubinetto, le battaglie di calcio sul campo in sabbia circondato dai pioppi, che sembrano più piccoli adesso, paragonati alla nostra corporatura di uomini.

È lì, sul campo, che ci raggiunge Daniele B. con la moglie e la figlia. Ricordiamo i posti in classe, l’insegnante d’inglese, altri professori, i loro soprannomi: “Lucertola”, “Balena”, la “Sbrocca”. Daniele B. è perplesso, non sa se fermarsi a cena con noi, poi si decide. Forse anche lui, in fondo, ama il passato, come una donna che non ha mai saputo conquistare.

 

Exa