sabato 26 settembre 2015

Ma

 

Leggo su Tuttolibri – numero 1845 di sabato 5 gennaio 2013 – l’intervista a Mana Neyestani, disegnatore iraniano incarcerato dal regime e poi rifugiatosi in esilio a Parigi con la moglie:

“Tutto sommato, mi è andata bene. Sono stato in galera tre mesi, ma c’è chi è lì anche da dieci anni. Sono in esilio, ma qui ho libertà di parola. Ho la mia matita e posso usarla. Ho solo questo. Ma non può immaginare quanto sia prezioso”.

Cos’è che mi ha colpito tanto da segnare con un rigo di penna questa frase tra le tante altre che appaiono nel supplemento della Stampa? Sono quei tre MA. L’avversativa che dovremmo sempre usare quando consideriamo la nostra situazione: forse quello che abbiamo al momento non è il massimo, non è ciò che esattamente desideravamo, però sicuramente non ci troviamo nell’opposto, nella negazione totale dei nostri desideri e delle nostre opportunità e il cambiamento è comunque un’opzione ancora praticabile. Quei tre MA sono le scialuppe di salvataggio che permettono a Neyestani di non affondare, come tanti altri MA ci consentono di non vedere nero, ma di scorgere la luce della speranza illuminare la via diversa che – obtorto collo o per propria decisione – si è intrapresa.

2013

 

DISEGNO DI MANA NEYESTANI

sabato 19 settembre 2015

In coda sulla A4

 

In coda sulla A4 tra Rho e Pero, avanzo a passo d’uomo: la mia auto è inscatolata fra i transfughi che tornano in città la domenica sera. Ripenso a te che ho lasciato lassù, partendo mentre la notte calava: sorridevi alla luce del tramonto di maggio e mi salutavi tra i gerani, riesco a rivedere la scena, la mano destra che agitavi, il bacio che mi hai mandato. Sei una fragrante mela di settembre e odori anche di mare e di conchiglie, hai l’aroma di rose e di gardenie. Perché tu assommi tutti i miei ricordi, perché vivi di tutti i miei sensi e sei i miei viaggi e i miei pellegrinaggi. Così quando percorro strade e fiumi, quando risalgo monti verdeggianti, quando solco quegli infiniti mari è il tuo corpo che navigo e cammino, i suoi avvallamenti, le colline, le sue asperità. le sue depressioni.

Il cielo è un arco blu scuro di navata affrescato di grigie nuvole. Il nuovo clima giunto a primavera accende i colli come sale, li dipinge di collane luminose, fa luce delle chiese, delle torri gialle a mezza costa. Il resto sono solo forme blu disperse nel chiarore lunare. Tu, ignara dei lumini rossi degli stop e del rock duro che mi tiene sveglio, dormirai già? O guarderai il cielo sereno ricordando la giornata festiva, riandando ai nostri discorsi, agli eventi? Ti stringerai nella maglia di lana osservando le stelle tremolare nell’infinito sulle vette, con lo sguardo sognante e una dolcezza nel cuore? Vorrei chiamarti, sussurrarti parole che suonino come gocce di pioggia nella notte o la voce del vento in un giardino, riversarti nell’orecchio le mie emozioni che vengono dal cuore ma non sono altro che parole d’amore.

Invece è tardi, qui nella notte: bloccato in questa periferia urbana, attendo solo che la coda finisca per riprendere la strada verso casa.

 

Fhm

FOTOGRAFIA © FLICKR HIVE MIND

sabato 12 settembre 2015

Dieci anni dopo

 

Siamo ancora qui, seduti a questo tavolino di caffè mentre fuori febbraio nevica luce e una nuova primavera si annuncia dietro i vetri opachi. C’è odore di caffè e di caldo, il clangore delle tazzine ogni tanto si mescola alle voci dei pochi avventori e alla musica soffusa che esce da altoparlanti invisibili. Il tempo sembra sospeso, potrebbe essere quello di allora, potrebbe essere allora nonostante qualche nuova ruga di espressione intorno ai tuoi occhi, nonostante qualche brillio grigio tra i miei capelli.

Proprio di quello stiamo parlando adesso, di come il tempo ci abbia cambiati, non solo esteriormente - ora porti i capelli più corti, io li ho rasati cortissimi, “Un marine” mi hai detto appena arrivata, ancor prima che mi alzassi per baciarti sulle guance, per aiutarti a toglierti il cappotto, per spostare la sedia e farti accomodare. Siamo cambiati dentro. Siamo altre persone rispetto a quelle che eravamo dieci anni fa. I caratteri si smussano quando perdono l’esuberanza della prima gioventù, a furia di cozzare contro i muri alla fine si accettano anche questi arrotondamenti. E l’esperienza, vuoi mettere, l’esperienza non può essere soltanto un fardello, un inutile peso: a qualcosa dovrà pure servire.

Era una sera di pioggia allora. L’ultima volta. Era un altro caffè, in un’altra città. Aveva tavolini color vermiglio e sedie bianche. Sotto il bancone navigava un acquario bulinato in vetro, fuori scrosciava una notte buia di fine estate, la malinconia aleggiava nell’aria ancor prima del nostro addio. Ero timido allora, lo sono ancora ma l’età ha saputo in qualche modo sconfiggere quel difetto, ho dovuto giocoforza aprirmi, espandermi, incattivirmi per poter resistere in questo mondo, per non essere sopraffatto e andare avanti. Ci ho messo coraggio, ci ho messo volontà. Ne avessi avuta allora, probabilmente le cose tra noi sarebbero andate in modo diverso. È giusto che tu lo sappia, è doveroso che faccia ammenda.

Nel parlare ho posato la mano sul tavolo. La sfiori, poi la prendi nella tua. Io sono di un’altra. Tu sei di un altro. Lo sai bene. Lo sappiamo bene. Eppure quel gesto, le nostre mani che si allacciano dopo tanti anni, non vogliono ricucire: sono una condivisione, la consapevolezza che non rimane nulla di non detto, che ci siamo finalmente capiti.

È tardi ormai, è l’ora dorata del crepuscolo: dalla vetrina la luce arriva a disegnare riflessi gialli sulla teiera, sulla tovaglia, sulle tazzine. Guardi l’orologino al tuo polso. Devi andare. Mi alzo, ti aiuto a infilare il cappotto. Mi ringrazi con un bacio sulla guancia, prolungato un poco più del dovuto, direi. Il tuo profumo sa ancora inebriarmi. Te ne vai nella via inondata di luce, infili la stazione della metropolitana verso casa. Torno a sedermi, ordino un altro caffè. Sento ancora il contatto della tua mano...

 

Iain Faulkner

IAIN FAULKNER, “IN FROM THE STORM”

sabato 5 settembre 2015

La luna (86 volte piena)

 

La luna (86 volte piena senza lei, 2557 notti senza lei, notti di luna appesa in cielo o a stento indovinata o addirittura del tutto assente nel suo ciclo sinodico).

La luna (le piaceva quando era piena, grande e rotonda come una moneta d’argento sotto un fascio di luce - quante volte disputammo riguardo a cosa somigliasse: “Un’unghia” diceva - “No, una falce, un amuleto, un boomerang” replicavo. O ancora “Un piattino, una particola” e “Un disco di platino, una perla”).

La luna (come due ubriachi la vedevamo doppia ma era solo il mare che la rifletteva una sera fresca ai primi di settembre con la malinconia di un’altra estate finita e nel naso l’odore di salsedine e di resina).

La luna (“Lo sai che influisce sulle maree, sul vino, sulla semina, non so se hai letto Pavese”, “L’ho letto sì. E anche su noi donne, cosa credi?” ...E le stelle intorno alla bella luna tornano a nascondere l’immagine splendente quando piena e d’argento illumina come non mai tutta la terra).

La luna (“Fisicamente parlando è solo sassi e la bandiera senza vento a stelle e strisce e le orme dei piedi di Neil Armstrong”, “Ma tu pensa a Collins che rimase nel Lem, che rimpianti...”, “Mi sa che tu sei un po’ lunatica!”, “Sarà che sono nata di lunedì”).

La luna (il punto sopra l’I gigante, la promessa degli innamorati. “Baciami!”, “Ma ci vede la luna!” e il suo bacio era ancora più dolce per quel non so che di proibito. Ora che seduto qui da solo la guardo splendere nel cielo di un altro settembre, il mio sguardo è come magneticamente attratto dal disco bianco e dal ricordo di lei).

 

1992

 

Lee

FOTOGRAFIA © HENGKI LEE