sabato 25 agosto 2012

Pinot bianco di Ravenna


Oggi in tavola c’è un Pinot bianco: l’ho appena tolto dal frigorifero e cominciano già a formarsi goccioline di condensa. Prendo il cavatappi e lo stappo, mi verso un bicchiere in attesa che gli spaghetti siano cotti. Buono, però… Leggo l’etichetta: Pinot bianco di Ravenna…

La memoria ha uno strano modo di funzionare: mi sa che è una specie di enorme magazzino dove sono ammassate le migliaia e migliaia di ricordi ed emozioni che abbiamo raccolto durante la nostra vita. Ma non ha un suo metodo scientifico nel recuperarli, non c’è una lista di controllo su cui spuntarli, forse funziona come la fase random di un computer, in maniera del tutto aleatoria. O forse ancora ci sono delle particolari inconsce sensazioni o aromi o gusti o fisicità ignote che interagiscono e fanno sì che un determinato ricordo si presenti in un determinato momento. Perché non è la prima volta che leggo il nome di Ravenna da allora ma è soltanto adesso che la memoria ha pescato questo ricordo associandolo all’etichetta di questo Pinot bianco.

…e torno con la mente ad un mattino d’aprile di tanto tempo fa. Eravamo in gita scolastica, in prima liceo classico – non avevo dunque ancora diciassette anni – e con il mio inseparabile compagno di banco Luca conoscemmo due ragazze in centro, dalle parti del Duomo. Erano sedute fuori da un negozio che vendeva pizze e focacce e ridevano come matte. Ci sedemmo con loro sui gradini, bevendo Coca-Cola dalle lattine che avevamo comprato. Ci dissero di aver marinato la scuola con un termine diverso da quello che usavamo noi – “impiccare” – e che purtroppo non sono in grado di ricordare, comunque dovettero spiegarci cosa significava e probabilmente sembrammo anche due imbranati. Comunque, parlammo un po’ di noi, i soliti discorsi che si fanno tra ragazzi e ragazze: la scuola, la musica, gli amori. Finimmo a passeggiare per le strade del centro con la mano nella mano, ma non trovammo il coraggio di baciarle. Non so come – la memoria ha cancellato o spostato altrove nel suo immenso e disordinato magazzino questo dato – finì che ci salutammo.

Un sorso di Pinot bianco di Ravenna per me oggi è stato la madeleinette che Proust inzuppò nel tè di tiglio, la fonte del ricordo di un giorno ormai lontano in cui non feci che pensare a una ragazza bionda che non avevo baciato.


ravenna

FOTOGRAFIA © RAVENNA24ORE

sabato 18 agosto 2012

Venerdì notte

 

da “Nighthawks” di Edward Hopper

La rossa si chiama Samantha e adora i papaveri. Non è un caso che indossi un vestito scarlatto. Lavora come segretaria in un ufficio della Fifth Avenue. Una volta che ero da quelle parti l’ho vista scendere da un autobus e infilare il portone in stile Liberty inseguita dagli sguardi di una dozzina di uomini di ogni età. Due ragazzi stavano commentando qualcosa a proposito delle sue capacità amatorie. Mocciosi… però avevano certo ragione: Samantha ha quel modo di agitare il bacino che è una poesia d’amore, un invito, una proposta. Poi… poi le cose stanno come stanno e non c’è verso.

L’uomo alla sua destra è Timothy McIllroy, il suo capo. Ha 42 anni ed è sposato con Mary Beth, una grassa casalinga dell’Idaho. Chiaro che non si faccia vedere per locali con lei. Però è una pasta d’uomo, appena può passa alla Congregazione per dare una mano o almeno un sostegno economico a padre O’Leary. Guardatelo come liscia nervosamente il bancone di mogano: sa che a casa lo aspetta una scenata con Mary Beth, sa che annuserà il profumo intenso di Samantha, gli rimane sempre sull’abito. E riuscirà a convincerla solo dopo un diluvio di parole.

L’uomo solo seduto all’altro lato del bancone si chiama Peter Mahoney, è un commesso viaggiatore di spazzole e ogni venerdì è qui a New York, dice che è di Boston ma l’accento del sud che ogni tanto spunta fuori lo tradisce. Probabilmente quel suo parlare strascicato che corregge subito è retaggio di un’infanzia trascorsa in Alabama o in Georgia. Comunque sia, ogni settimana dell’anno lui è qui, di venerdì.

Tra poco Timothy McIllroy pagherà i bourbon e saluterà Samantha Camminerà lento per le strade buie e lentamente guiderà verso casa. Parcheggerà la Ford T sul vialetto e affronterà l’ennesima discussione con Mary Beth. Quando sarà uscito, Peter e Samantha aspetteranno ancora cinque minuti e poi se ne andranno via a braccetto, come fanno ogni venerdì, verso il motel dove lui alloggia.

“E tu, tu come le sai tutte queste cose?” sento già da un po’ le vostre voci pronte a pormi questa domanda – morite dalla voglia, vi strozzate quasi dalla curiosità. Ma, perbacco, signori! Ma, caspita, signore! Io, io so tutto, io sono il barista…

 

EDWARD HOPPER, “NIGHTHAWKS”

sabato 4 agosto 2012

Vent’anni


I calendari generano eventi: io di te divenni consapevole un pomeriggio afoso quanto questo. Non ho dimenticato, come vedi: vent’anni di illusioni e compromessi su di noi, ma io non ho dimenticato.

Vent’anni da quel pomeriggio caldo in cui presi coraggio e venni da te - complice un libro, come per gli amanti del famoso quinto canto dantesco. Vent’anni da quel dondolo sul quale la prima volta parlammo di noi - dicesti di un acquazzone improvviso che ti rovinò le scarpe, del tuo viaggio in America: il deserto e i grattacieli, New York e Los Angeles. Di me ti dissi il poco che sapevo, con una timidezza che forse tu amasti: provasti a togliermi dal guscio, bimba curiosa affascinata dal timore.

Mi conducesti per mano - bambino ero, ricordi? - e mi guidasti lungo sere nuove di giochi e di cinema, di mille stelle. Uscivamo e guardavo il cielo terso. “Io e lei” mi dicevo, “Io e lei” esultavo, “Insieme” e già temevo il tempo, studiavo il modo di fermarlo, di essere insieme per sempre, per l’eternità. Se fosse stato un immenso orologio, avrei trovato un lungo chiodo nero da conficcare in mezzo alle lancette come nel cuore di un cruento vampiro.

Camminavo al tuo fianco ed era come se stessi al passo lieve di una dea. Camminavo su petali di rosa, su morbidi cuscini, sulla sabbia. E il tuo sorriso, che mi innamorò! Davanti allo specchio lo ricreavo ed era come essere te, essere con te. Ho riprovato: non mi viene più… forse i muscoli induriti o chissà cos’altro, forse questa gioventù che finisce; non voglio - no: non posso - ammettere che l’ho dimenticato: se chiudo gli occhi, ancora lo rivedo.

Così non mi resta altro da fare che guardare l’orizzonte indefinito e perdermi nel cielo senza fine inseguendo il ricordo di una donna, l’unica amata - perduta per sempre. E ritornare alle consuete cose, lo svago di un romanzo, di uno schermo. Ma tu continui a chiamarmi, dolcissima. E corro a dedicarti una poesia. Così ogni giorno, vent’anni, ogni giorno o quasi della settimana. Scrivo da prima di te, ma è da te che ho preso forza e vigore, da te nutrimento.

 

 

JACK VETTRIANO, “THE INNOCENTS II”