sabato 30 aprile 2016

Guardie

 

Ammetto di essere stato fortunato nel mio anno di servizio militare: i turni di guardia che mi capitarono furono poco più di una dozzina - la mia condizione di caporale responsabile della Delegazione presidiaria mi mise per molti mesi al riparo dei servizi di caserma. Ma non per questo esente.

Ma cominciamo dal principio, cominciamo dal CAR alla caserma Rossi: lì mi toccò, come agli altri, un turno di piantone non armato all’ingresso della palazzina della mia compagnia, la 50°. Ero talmente annoiato che in quelle quattro ore imparai a memoria la Preghiera dell’Alpino stampigliata sul muro. Un’altra volta fui di piantone alle camerate del plotone, il secondo. Lì il tempo passò più veloce perché non ero solo: rimanevano confinati quanti avevano marcato visita e attendevano di essere trasferiti all’ospedale militare. Rimasi a conversare con un gruista di Vipiteno che aveva un’ernia e con il nipote di un famoso compositore trentino che non so nemmeno cosa avesse.

Passato quel mese di maggio, fui assegnato al Reparto Comando, presso la Caserma Bosin, e lì me ne toccarono parecchie di guardie, essendo un “nipote”:  almeno tre prima di partire per il campo estivo e un’altra dopo. Alla Bosin si montava di guardia in due: uno sull’altana, l’altro giù, a camminare lungo la mura di cinta. Dopo un’ora ci si scambiava di posto, dopo un’altra ora si andava a riposare quattro ore sulle brandine nel corpo di guardia per poi tornare fuori a dare il cambio. A tracolla avevamo il fucile, un Garand, e nelle tasche della mimetica un paio di caricatori. Nell’altana, una cabina rotonda di cemento armato sopraelevata, avevamo a disposizione una radio per chiamare il posto di guardia e un faro girevole, posto sul tetto.

Al campo estivo, in quel della val Sozzine, alla periferia di Ponte di Legno, la guardia era soprattutto all’armeria, sita in uno shelter, una specie di container trasportabile con i camion. Mi capitò in una notte di metà giugno, talmente fredda che dovetti indossare maglione pesante e cappello norvegese invece del consueto berretto da stupidi. Una domenica pomeriggio fui più fortunato: mi misero di guardia all’ingresso del campo, in un bunker costituito con i sacchetti riempiti della sabbia raccolta sul greto del torrente che scorreva lì vicino. Vedevo la strada: passavano motorini, automobili, ragazze, gente in bicicletta, e quello era il mio svago mentre maresciallo, sergente, colonnello e maggiore giocavano a carte a un tavolino non molto distante.

Dieci giorni dopo venivo finalmente assegnato alla Delegazione presidiaria e per mesi non fui interessato alle guardie. Fu verso dicembre che mi comunicarono che avrei dovuto sorbirmene anch’io qualcuna - poche vista la mia anzianità di scaglione e il fatto che comunque non avrei potuto abbandonare al suo destino il mio ufficio quando il mio collega era in licenza. Alla caserma Battisti, dove ero aggregato, si montava di guardia in modo diverso: un soldato presidiava il passo carraio mentre il resto della squadra ovvero un autista, un caporale e un soldato, perlustrava a bordo di una jeep il vasto territorio della caserma apponendo una firma ogni ora ad un blocco posto sugli obiettivi da controllare. I turni di guardia duravano due ore ed erano intervallati da quattro ore di sonno. Me ne capitarono tre o quattro prima del congedo. Una domanda facile facile per concludere: visto che il caporale doveva firmare il blocco due volte, quante erano le fermate necessarie per ogni turno? Una, naturalmente: si scendeva nella seconda ora abbandonando il calduccio della jeep e si apponevano due firme con orari diversi...

Quello che non immaginavo allora era che oggi avrei guardato non dico con rimpianto, ma con una dolce nostalgia a quei tempi ormai lontani.


 

Soldati

IMMAGINE DAL FILM “SOLDATI – 365 ALL’ALBA”

sabato 23 aprile 2016

La Casetta della Strega


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Hänsel
Foresta Nera, Germania


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La Casetta della Strega
Foresta Nera

°°
Non lasciatevi trarre in inganno dalla meravigliosa bellezza del posto. In realtà quella che sembra una casetta tutta da sgranocchiare, dalle pareti di focaccia al tetto di torta, alle finestre di zucchero trasparente con buona pace della glicemia e delle carie, è soltanto uno specchietto per le allodole. Questo locale è una trappola per acchiappare i turisti. Infatti arriva quasi subito l’anziana proprietaria che con fare mellifluo ma sempre più convincente vi invita ad entrare, un po’ come quei tizi che a Venezia all’ora di pranzo e cena vi esortano a mettere piede nei loro locali. Una volta dentro, passato lo stupore per la bellezza esterna e un po’ fiabesca della location, vi portano subito il benvenuto dello chef: latte e frittelle con zucchero, mele e noci. Infine vi assegnano una comodissima camera, con dei letti davvero confortevoli – bisogna ammetterlo, quello che è giusto è giusto. Il problema è che la proprietaria non vuole più lasciarti andare: e mangia questo e mangia quello, e assaggia un pezzettino di quest’altro. Sembra addirittura di stare all’ingrasso. Occhio, se ci capitate: la vecchia è proprio una strega ed è molto appiccicosa.

°°°     Qualità/prezzo
°        Servizio
°°°     Cibo

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sabato 16 aprile 2016

Un giorno tu mi dimenticherai

 

Adesso lei cammina per le vie luminose della sua città amata dai poeti, rasenta i moli, le rive, sale per le stradine antiche con il suo vestitino estivo a fiori e la borsa portata a tracolla. Bella come allora, bella come sempre. Ma non porta con sé il mio ricordo in quelle strade dove ai profumi che vengono dalle antiche osterie si mescola l’odore del mare.

Perché il mio ricordo in lei è sbiadito ormai come una stampa lasciata al sole per tanti anni: se mi penserà, sarà solo per caso, per pochi istanti, un’immagine passeggera che sale dalle nebbie del passato e in esse ancora sprofonda senza manifestarsi appieno. Il vento che soffia sovrano in quella città almeno se lo portasse via: sarebbe più facile sapere reciso anche l’ultimo filo. È vero che il tempo è un farmaco, nel senso greco del termine: è il mio veleno, è la mia medicina. Sì, risana la ferita, la rimargina, ma poi con un coltello la tortura. Il pozzo non ha fondo e vi precipito, ne perdo l’orizzonte, è un labirinto...

Il vento porta via ogni cosa, trascina foglie secche e vecchie carte, cancella dalla sabbia ogni impronta, figuriamoci che cosa fanno gli anni: i ricordi svaniscono, si perdono nel cupo silenzio della memoria: non resta neanche il frullo dei gabbiani che lasciano le bitte per il mare. Così adesso lei cammina per le vie luminose della sua città amata dai poeti, rasenta i moli, le rive, sale per le stradine antiche con il suo vestitino estivo a fiori e la borsa portata a tracolla. Recita a bocca chiusa i versi amati, li mormora come una preghiera. E non ricorda più quella sera in cui dal balcone di luce e di sale guardavamo passare le navi lontane respirandoci. Fu quella sera che le dissi : “Un giorno tu mi dimenticherai”.

 

Paul Kelley

DIPINTO DI PAUL KELLEY

sabato 2 aprile 2016

La gita a Venezia

 

Eravamo giovani: avevamo diciassette anni, ormoni in movimento e un bagaglio di musiche e poesie nel cuore. Eravamo due classi in gita: la prima e la seconda liceo classico, insieme non riuscivamo neppure a riempire il pullman. La nostra destinazione in quel giorno di novembre - non si trattava della classica gita scolastica di fine anno, ma l’occasione per visitare una mostra - era Venezia.
Il viaggio di andata risentì dell’ora antelucana, molti di noi ne approfittarono per dormire, per dare energie a quell’esuberanza che durante il giorno ci spingeva alle cose più assurde, a morire d’amore o a correre a perdifiato. Percorsa la fettuccia di asfalto e binari che collega la città alla terraferma, arrivammo infine a Piazzale Roma: scendemmo e fummo subito al Ponte degli Scalzi, Venezia ci accoglieva con le sue cupole e i suoi campanili, con i suoi palazzi e i vaporetti riflessi nel grigio uniforme del cielo e dei canali.

Andammo sbarazzini come una classe in gita sa essere, ridendo e scherzando, mentre il professore di Storia dell’Arte si orizzontava tra le calli. Non erano una novità per me lo splendore e la bellezza, l’unicità di Venezia: la conoscevo bene perché ogni anno ci fermavamo una mezza giornata tornando dalla vacanza al mare sull’Alto Adriatico. La novità era in quel suo grigiore, in quella malinconia che permeava ogni cosa e che era a me estranea, così lontana dal sole di luglio e dalle frotte di turisti. La sentivo più mia adesso, ora che avevo un amore lontano a pungermi dentro, ora che vi ero stato buttato a capofitto come un poeta crepuscolare. Andavo e ad ogni passo cresceva quella malinconia, mi impregnava come un acquerello che imbeve la carta. Per di più, il mio compagno di banco quell’anno si era trasferito in un’altra scuola; avevamo legato molto e la cosa mi dispiaceva moltissimo.  All’amore infelice avevo sommato anche l’amicizia perduta - sarebbero poi tornati entrambi, l’amata e l’amico, pochi mesi dopo, ma quel giorno non lo potevo sapere e mi crogiolavo in quel mercurio fuso che era l’atmosfera veneziana di novembre.

Visitammo infine la mostra, con i capolavori dei Manieristi, andammo anche a vedere in una chiesa opere del Tintoretto e di El Greco. La mia solitudine di esistenzialista sofferente si acuì al pranzo, quando finimmo in una triste pizzeria e, come un apostolo perduto, non trovai posto al tavolo con la mia classe, ma ad un tavolino di servizio con un taciturno ragazzo di seconda. Ritrovai i miei compagni quando uscimmo e finimmo al ponte di Rialto. Era uscito anche uno sprazzo di sole adesso, che tingeva d’oro le scie dei vaporetti. Roberta, che si era portata la chitarra, suonava seduta alla spalletta: “Io, vagabondo che son io, vagabondo che non sono altro, soldi in tasca non ne ho ma lassù mi è rimasto Dio...” e ancora “Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi le tue calzette rosse e l'innocenza sulle gote tue...”, cantavamo tutti in coro e turisti sparuti ci guardavano sorridendo.

Era tempo di tornare. Il professore ci radunò e fece rotta verso il pullman. Salutammo Venezia con un po’ di nostalgia e ci imbarcammo. La fettuccia di asfalto e binari adesso tagliava in due un tramonto arancione: sembrava di galleggiare tra mare e cielo. Restammo tutti in silenzio davanti a quello spettacolo, poi qualcuno cominciò a cantare: “Che idea! Ma quale idea! Non vedi che lei non ci sta? Che idea? Ma quale idea? Attento, lei lunga la sa! Lei ti farà girare in tondo senza avere mai le cose che pretendi e - scusa - in cambio tu che dai...”

 

Venice, Italy. Popular view with Venetian gondolas in foreground and San Giorgio Maggiore island in the background at an overcast rainy day.

FOTOGRAFIA © COLIN UTZ