sabato 29 agosto 2015

Peanuts

 

Sono stato Schroeder, quando picchiavo sui tasti del mio pianoforte giocattolo e accanto avevo Stefania che divideva con me i giochi - la mia Lucy.

Sono stato Linus quando credevo di poter mettere una stella caduta dentro un secchiello. E ancora più avanti, quando presi come coperta il ricordo di una ragazza e la sua nostalgia.

Sono stato Charlie Brown, tutte le volte che esitavo e maledicevo la mia timidezza. Non trovavo il coraggio di fare le cose, di entrare in un bar, di dire una frase a una ragazza. E mi crogiolavo nella mia solitudine.

Sono stato Snoopy, sono ancora Snoopy, quando mi affido al sogno, alla dolcissima follia dell'immaginazione, alla fiaccola della poesia…

 

2013

 

Peanuts

IMMAGINE © CHARLES M. SCHULZ

sabato 22 agosto 2015

Ode all’immaginazione

 

«Non sono montanaro di nascita, ma sono giunto alla montagna per passione. Il mio input avventuroso è dato senza dubbio dalla curiosità, una irriducibile curiosità, via via sempre più associata alla fantasia, al sogno, al bisogno insopprimibile di dare a tutto una concreta realtà. Fare dell'alpinismo estremo per me non è stata una fuga dal campare quotidiano e neppure è stata una ribellione alle miserie di una società ben poco stimolante, a quel tempo; è stato invece, e soprattutto, un bisogno ostinato e irriducibile di raggiungere e sempre più raggiungere. Le mie imprese hanno cominciato a esistere nel momento stesso in cui prendevano forma nella mia mente. Tradurle poi nella realtà non è stato che un seguito logico di quella prima scintilla, di quella prima invenzione. È quando immagini che vivi intensamente, come è soltanto quando credi che inventi per davvero. Lassù mi sono sentito sempre più vivo, libero, vero. Ho anche potuto soddisfare il bisogno innato che ogni uomo ha di misurarsi e di provarsi, di conoscere e di sapere. Fin dall'inizio l'alpinismo è stato per me avventura e l'avventura ho sempre voluto viverla a misura d'uomo e nel rispetto della tradizione».

Doveva essere per forza un uomo capace di solitudine, abituato agli spazi sconfinati dove nessuna voce umana si ode, e se per caso la si dovesse udire riecheggia per chilometri. Un uomo che non si accontenta di vivere giorni piatti e tutti uguali, ma che si lancia all’inseguimento della vita. E lo era, Walter Bonatti, che scrisse queste parole sulle sue esperienze di alpinista. Capace di vincere K2, Bianco, Cervino, Karakorum, il Gasherbrum, il Kilimangiaro, il Ruwenzori, i monti delle Ande e della Patagonia.

C’è una frase che mi ha particolarmente colpito: “È quando immagini che vivi intensamente, come è soltanto quando credi che inventi per davvero”. È quello che serve a tutti noi, senza avere bisogno di scalare montagne estreme o di scendere negli abissi, di lanciarci a capofitto da un ponte legati con l’elastico o di buttarci da un aereo con il paracadute. È la capacità di immaginare che ci fa progredire, che ci eleva, che ci conduce un passo più in là sulla strada della conoscenza: attraverso di essa, non solo ci redimiamo dalla realtà, come scrisse Nicolás Gómez-Dávila, ma evadiamo da essa abbracciando l’universo.

2013

 

sabato 15 agosto 2015

Dondolato dal vagone

 

Hopper era affascinato anche dai treni. Ad attirarlo era l'atmosfera delle carrozze semivuote che si fanno strada nel paesaggio: il silenzio che regna al loro interno mentre fuori le ruote sferragliano ritmicamente sui binari e lo stato di trasognamento indotto dal rumore e dal panorama esterno, un trasognamento che pare quasi strapparci a noi stessi e indicarci la via d'accesso a pensieri e ricordi che non riuscirebbero a emergere in circostanze più ordinarie. La donna di Scompartimento C, Vettura 293 (1938), che legge e fa vagare lo sguardo tra carrozza e paesaggio, sembra trovarsi proprio in questo stato mentale.
ALAIN DE BOTTON, L’arte di viaggiare, Guanda, 2002, pagina 58

Sì, sogno, anzi “trasogno” anch’io quando viaggio in treno, lasciandomi cullare dal paesaggio che cambia velocemente dietro il finestrino: è bellissimo riuscire a vedere, specie nelle giornate di pioggia, il proprio volto riflesso e contemporaneamente il panorama, come in certe fotografie dalla doppia esposizione.

Ed è capitato spesso, visto che ho usufruito per anni dei servizi molte volte inadeguati delle patrie ferrovie, sin dai tempi del ginnasio e delle panche di legno – era il 1980, non l’Ottocento! – quando quei vagoni, talora con gli scompartimenti, furono il teatro dei primi amori e dei primi rossori, di amicizie che si sono poi anche perdute ma che restano vive nel ricordo, di scherzi memorabili, di idiozie come salutare “Ciao, Nanni!” rivolti verso il quadretto turistico (erano i tempi in cui andava in onda Viaggio in seconda classe, un programma di Nanni Loy con candid camera proprio in scompartimenti simili a quelli).

Poi, più compunto, in direzione Milano, viaggiai verso l’Università – e allora si parlava di diritto penale, del possesso come elemento fondamentale dell’usucapione, ma anche di calcio e di donne, come in quella famosa canzone di Battisti. Per un anno viaggiai anche qualche volta sulla tratta Milano Centrale-Verona-Bolzano-Merano Maia Bassa: il militare, certo, con i capelli corti e il borsone, la nostalgia a tracolla e il tempo che scorreva lento dietro i finestrini. Ma troppi erano i cambi, troppe le attese nelle stazioni: preferii da subito il comodo pullman di linea Bergamo-Merano. E ancora mi capitò più avanti di sedermi con la mia elegante borsa da avvocato su sedili più moderni, simili a quelli della metropolitana.

Anch’io, come la misteriosa signora del celebre e celebrato dipinto di Edward Hopper citato da De Botton, in treno amo leggere – aborro la conversazione, quindi mi isolo con le cuffiette dell’iPod – e di tanto in tanto mi perdo con lo sguardo a inseguire i miei pensieri, quasi che si manifestassero nel vetro spesso sporco di una carrozza come se fosse uno schermo magico. Piacevolmente “dondolato dal vagone” come il Guccini di Incontro, metto ordine nelle cose che mi sono capitate nella giornata, organizzo le idee, le associo a ricordi, le annodo in speranze. Se mi vedete “trasognato”, vi prego di non chiedermi se il treno ferma a Milano Greco Pirelli o se mancano tante fermate a Terno d’Isola: spezzereste il mio sogno come una bolla di sapone e magari per vendetta vi farei scendere a Ponte San Pietro…

 

2013

 

EDWARD HOPPER, “COMPARTMENT C, CAR 293” (1938)

sabato 8 agosto 2015

Marcovaldo

 

Ho rimesso mano a "Marcovaldo", che ho letto alle medie - sì, è lo stesso volume, conservato da allora, quello tutto bianco con tre righe rosse della collana Einaudi "Letture per la scuola media": c'è anche un bel disegno astratto in bianco e nero di Paul Klee. Tutto qui? - mi direte - fai solo estetica, parli di copertine e di vecchi ricordi, ti lasci andare come fai talora alla nostalgia per un tempo che non tornerà...

D'accordo, allora. È un Calvino per ragazzi, tanto che i racconti furono pensati proprio per quella fascia d'età, ma ciò non toglie che siano bellissimi, che Marcovaldo anticipi con la sua ingenuità strampalata Palomar, altro personaggio che ho amato, negli anni Ottanta. In Marcovaldo c'è tutto: anticipa anche Fantozzi con la Sbav, che altro non è che la madre della Megaditta di Paolo Villaggio. C'è l'ambientalismo, perché la città non nominata è un grigio alveare di cemento e scritte pubblicitarie. Memorabile è il racconto in cui la luna si mescola al lampeggiante GNAC della Spaak-COGNAC. E spettacolare risulta il contrasto tra una società industriale e moderna e i nomi medievali dei personaggi: Marcovaldo, la moglie Domitilla, la figlia Isolina, il caporeparto Viligelmo, Fiordiligi, la signora Diomira, il signor Rizieri, il dottor Godifredo.

È stato uno spasso ripercorrere tanti anni dopo, con occhi ormai maturi le strade di Marcovaldo: le sue preoccupazioni per la crisi economica ma anche il sogno, la libertà di camminare per le strade deserte di agosto proprio sulla linea di mezzeria, salvo poi ripiombare a terra per lo spavento di un'auto passata a grande velocità. È stato uno spasso mettersi al fianco di quell'uomo buffo  - e qualche volta anche dentro di lui, dentro il suo cuore, perché "Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l'attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c'era tafano sul dorso d'un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse"...

2012

 

Marcovaldo

sabato 1 agosto 2015

La poesia

 

Il primo libro di poesie che acquistai fu "Vita d’un uomo", la raccolta di Ungaretti. Le mie prime poesie dunque nacquero in quello stile e con quella metrica. A dire il vero, specialmente in età più avanzata, Ungaretti abbandonò i versicoli e scrisse ad esempio "Ultimi cori per la Terra Promessa". Fu "Nostalgia" a folgorarmi: la copiai in un quaderno e cominciai a pensarvi, forse perché così estranea al mondo della guerra che costituiva gran parte delle poesie raccolte. Era quella signorina in un canto di ponte a intrigarmi, quell'uomo dall'altra parte, la solitudine che invece di dividere unisce.

L'occasione che mi spinse a scrivere fu invece un'agenda che mi venne regalata all'inizio dell'anno: cominciai a vergarvi i miei versi, avevo poco più di 15 anni. Era un'altra epoca, anche della mia vita: le mie poesie di allora fanno sorridere per l'ingenuità, però non me ne vergogno, sono come le fotografie di allora...

Qualche anno dopo mi appassionai ai sonetti e ai madrigali, mi intrigava il gioco obbligato della rima, l'incasellare le sillabe nei versi rispettando gli accenti. Il mio scopo era in effetti quello di nascondere la rima, fare in modo che non risultasse banale, che passasse quasi inosservata. Quando trovai in Gozzano la rima "Nietzsche" - "camicie" vidi la luce. 

Montale fu in seguito il modello cui tendevo, sia per il ritmo metrico, sia per l'uso di parole ricercate: “Debole sistro al vento di perduta cicala” è inarrivabile: come pensare a quell'antico strumento musicale? Eppure quando ne vidi un’immagine sull‘enciclopedia, capii che non poteva essere che quello il suono delle cicale: lo sfregamento di una lamina di metallo.

Ungaretti diceva che non leggeva Montale per "non sporcare la sua poesia". Invece leggere opere di altri poeti è  fondamentale: si impara sempre qualcosa, sia sulla metrica, sia sul modo di esprimere le proprie sensazioni. Alla fine credo di avere sviluppato uno stile mio, basato sulla musicalità dell’endecasillabo, anche se non sono un fondamentalista e, se gioca a mio favore, piego gli accenti del verso e persino la misura alla linearità del discorso.

La poesia non è altro che scrivere con il cuore, estrinsecare un'emozione o un sentimento che altrimenti andrebbero sprecati. Per questo scrivo poesie: per sfogare quello che ho dentro, per riuscire a comprenderlo. Vederlo sulla carta mi conforta, mi fa meno paura.

Agosto 2001

 

Man in the moon

CATRIN WELZ-STEIN, “THE MAN IN THE MOON”