sabato 21 novembre 2009

La felicità del sogno


La felicità degli spot pubblicitari è palesemente falsa. La famigliola che siede felice al tavolo di cucina per la colazione è fuori dal tempo e forzatamente allegra. E la felicità del sogno come può essere giudicata?

Ma cominciamo dall'inizio: sono in un albergo con la solita comitiva di amici, al momento di ammassare i bagagli al mattino e intraprendere il viaggio di ritorno. C'è ancora una mezz'ora per il caffè e le brioches. Un hotel anonimo di una non nominata città e da nessun elemento si può risalire alla località, dire se sia una città di mare o di lago o di montagna.

Vedo l'uomo alla reception - un bancone con computer e postazione telefonica - guardarmi e poi stupito riconoscermi e salutarmi. Anch'io riconosco in quel quarantenne il ragazzo che era: sebbene il suo volto sia quello di un attore del film che ho visto la sera prima, è indubbiamente Alberto. Ricordo anche il suo carattere quando, scherzando come un tempo, mi chiede se io desideri un sacchetto ed io, presagendo che si tratti della solita boutade, titubante rispondo di sì. “Eccolo” - mi dice porgendomi uno di quei grandi asciugamani che si usano nelle docce degli alberghi - “per incartarci l'elicottero!”. Arriva mio cugino, stranamente aggregato alla compagnia, della quale non ha mai fatto parte, e Alberto riconosce anche lui, molto stupito evidentemente di non trovarlo più bambino.

A questo punto c'è uno stacco quasi cinematografico, lascio l'asciugamani sul bancone ed entra una donna, vestita con un tailleur pantalone nero ed una camicetta bianca; anche i capelli sono scuri, sebbene non corvini: è Anna! Mi abbraccia con trasporto, felice di vedermi. Il tempo deve avere operato un cambiamento, quasi rovesciando i ruoli: è lei quella che attendeva innamorata.

Alberto, intuendo l'importanza del momento per la sorella Anna, dice a mio cugino: “Vieni, lasciamoli un po' soli” e lo conduce via.

Io e Anna rimaniamo lì stretti stretti, allacciati in un abbraccio caloroso, come se non volessimo lasciarci mai più, ora che ci siamo ritrovati. Ci rubiamo con gli occhi mentre la comitiva lentamente si raduna scendendo dalle stanze e passando accanto a noi per entrare nel salone della colazione. Tutti ci guardano e sono immensamente felici per me.

Anna allora mi conduce nel salone, ad un tavolo isolato dagli altri, probabilmente quello padronale o di servizio dove mangiano i cuochi e il personale. Sediamo e ci teniamo la mano sulla tovaglia bianca continuando a guardarci e a parlare di noi. Mi sento al colmo della felicità.

Mi sono svegliato. Fuori sta piovendo molto forte, l'acqua scroscia rumorosamente. Guardo la sveglia: sono le 5.35. E allora silenziosamente piango qualche secondo: credo sia il rimpianto, la consapevolezza che si sia trattato soltanto di un sogno, per quanto abbastanza verosimile. Ma, all'improvviso, mi assale la stessa felicità che ho provato nel sogno, e sorrido beato. Mi addormento per cercare ancora la Musa, se sia rimasta ad aspettarmi in qualche angolo del sogno...


sabato 17 ottobre 2009

Il nostro ultimo incontro


Il nostro ultimo incontro avvenne a Gioia, fuori dalla stazione della metropolitana: tra i grattacieli sembrava l’America. Indossavi uno spolverino bianco, eri bellissima nei tuoi vent’anni. Rapidi ci baciammo sulle guance e poi salimmo sulla tua Seat rossa.

Abitavi vicino, al primo piano, in un palazzo da Vecchia Milano: al piano terra c’era un ristorante. Mi accomodai in una poltrona, tu sedesti sul divano stile Impero, il tuo cane dormiva sul tappeto.

Era l’ultimo giorno di settembre, faceva ancora caldo e le finestre aperte davano su un cielo grigio, sui fumi delle industrie periferiche. Chiudesti fuori il traffico e il rumore, tornasti a me, alla mia camicia jeans.

Parlammo più di un’ora, di progetti, di noi, ma l’atmosfera era di due che non si sarebbero visti più, forse una cartolina nella prossima estate da uno di quei posti di cui andavi raccontando: Barcellona, Portofino, quel sogno della Grecia.

Non c’erano, non c’erano più i ragazzi di qualche estate prima: non sembravano passati due o tre anni, ma dei secoli.

Volesti accompagnarmi alla Centrale: un treno che non urgeva divenne per me un’irrinunciabile esigenza. Seduto al tuo fianco sulla Seat rossa ti guardavo le gambe nei collant manovrare veloci sui pedali. A uno stop non desti la precedenza e una donna gridò “Scema!”. Furiosa in quegli ultimi minuti insieme, infine raggiungesti Piazza Duca d’Aosta. Ci salutammo in fretta nella strada.

Io non ricordo se guardai l’auto svanire lungo il traffico portandoti via dalla mia vita per consegnarti al fascino ammaliante dei ricordi…

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Brent Lynch, “New York state of mind

sabato 19 settembre 2009

Il letto


Il letto era così invitante, soffice e morbido: mi ci sdraiai e vi affondai il viso. Intanto tu armeggiavi con le calze, te le toglievi, le riponevi in bell’ordine sullo schienale della sedia accanto agli altri tuoi vestiti ma era come se tu non ci fossi perché la musica lentamente mi assopiva, calando le palpebre…

E rotolavo, rotolavo per le valli di un erboso declivio, sui tornanti di una ripida strada a spirale come un sasso, come un masso pesante o una valanga fino al momento dell’impatto e allo sgretolamento polverizzato.

E dalla polvere uscivo io ma mi accorgevo, avvicinandomi a te, che non eri pronta; avevo fallito il calcolo dei tempi come se cercassi di acchiappare qualcosa che si riflette nello specchio: ti butti da un lato e lui fugge dall’altro.

Poi qualcosa accadde e tu non eri fuori, non eri più fuori, ma nel mio stesso mondo: dietro di me giungesti improvvisa dentro il mio specchio e attendesti che ti raggiungessi. In breve fui lì e ti stringesti a me. Eri entrata nel mio stesso sogno, spogliata com’eri, senza le calze e senza i vestiti, rimasti sulla sedia in bell’ordine perché potesse accadere qualcosa e tutto ecco che succedeva.

Improvviso un rumore più forte mi svegliò: tu non eri nel letto né dentro il sogno, non c’erano neppure le tue calze, i vestiti, non eri neppure mai esistita.


Immagine © Jupiter

sabato 12 settembre 2009

Pioggia a Milano


Milano mi accoglie con un cielo grigio e pesante e una pioggia d'aprile fine e insistente, tanto più insistente quanto più fine. Sono appena sceso dal treno alla stazione di Porta Garibaldi: ho alcune questioni amministrative da sbrigare. Il mio sguardo vaga in mezzo ai pantografi alla ricerca di un lembo di cielo, ma piove e tutto è grigio e freddo. Grigio come la malinconia. Ma la malinconia è calda e ti racchiude con le sue braccia: può quasi essere un piacere. I sottopassaggi mi si presentano davanti all'improvviso: una fredda città sotterranea, i muri imbrattati da scritte, il pavimento di gomma nera bagnata e maleodorante, l'acqua che in certe parti filtra dal soffitto.

Davanti a me, dietro a me, in fianco a me molta gente, ragazze con la faccia pulita e una borsa a tracolla, una cartelletta o dei libri in mano; uomini con la valigetta e gli occhiali di tartaruga; signore eleganti che lasciano una scia di profumo; ragazzi con lo zainetto e l’i-Pod. Imbocco la galleria per la metropolitana, fredda e buia nonostante le luci al neon. Dalla scala mobile che porta alla stazione filtra una luce grigia assieme agli ombrelli chiusi che lasciano una scia di gocce. Inserisco il biglietto, spingo la sbarra ed entro: scendo le scale che portano alla zona di arrivo dei treni. Mi porto a sinistra per salire in coda ed evitare la folla dei vagoni di mezzo. Poi, ora che hanno aperto la Fiera c'è molta più gente. Arriva il treno dalla parte opposta e mentre lo vedo correre via come una talpa arriva anche il mio treno con due occhi bianchi e qualche posto vuoto. La ragazza accanto a me legge un trattato di psicologia, un tizio sfoglia la Gazzetta dello Sport e trovo i miei pensieri nella carta rosa. Il metrò si ferma. Forse non si merita altro questa città con questo cielo grigio e questa pioggia di smog, non può avere che queste squallide viscere inutilmente camuffate da manifesti di pubblicità.

Il treno fa un'altra fermata: sale poca gente, ne scende molta di più. Mi viene in mente una frase di un romanzo di Moravia: “La noia è l'incapacità di avere rapporti con la realtà”. Sto lì a riflettere nel breve spazio di una fermata: dunque la noia è l'impossibilità di riconoscere l'esistenza di oggetti e persone diverse da sé stessi, tanto che nel romanzo Dino trova che in Cecilia la fenditura verticale del sesso è più espressiva della fenditura orizzontale delle labbra.

Alla fermata successiva scendono quasi tutti e la sosta è leggermente più lunga. Il metrò riparte con un brusco scossone. Alla mia sinistra una ragazza sta leggendo Prévert e con la coda dell'occhio riesco a rubare qualche verso prima che il metrò si fermi. “Sotto il vomere del tuo dolce sguardo d'acciaio / il mio cuore s'è scavato / e in questa terra arata/ il fiore dell'addio ha cominciato a urlare...” Scendo pensando al fiore dell'addio, a quante volte l'ho colto e l'ho annusato. Oltre la scala mobile un freddo pungente e un turbinio di vento tra le tenere foglie dei tigli. Nelle pozzanghere si riflettono le nuvole grigie. La ragazza del libro ancheggia davanti a me nel suo impermeabile giallo e mi chiedo se anche lei ha colto quel fiore amaro in una sera di mare o in una mattina grigia come questa.

Entro nell'ufficio: c'è una lunga fila di persone con documenti e cartellette, i vetri sono appannati e comincia a fare caldo. Non faccio altro che guardare l'orologio, questa ressa mi genera quasi una strana fobia, infilo due dita nel collo del maglione e lo tiro come a cercare aria. La ragazza del libro è davanti a me, “È tanto che aspetti?”, dico una cosa banale per rompere il ghiaccio, “No, solo venti minuti” risponde. “E' una cosa relativa” butto lì io senza nemmeno specificare il soggetto. “Come?” replica lei stupita da quel mio sintetico concetto. “L'attesa” torno a dire “è una cosa relativa: io sono qui da un quarto d'ora e sono già stanco.”

Sbrigo finalmente i miei affari ed esco nella pioggia battente; c'è odore di gas e il cielo sembra più cupo. La ragazza che leggeva Prévert è ancora nella mia mente: speravo di ritrovarla fuori di qui, di portarla a bere un caffè. Cerco il suo impermeabile giallo tra la folla, inutilmente. Mi rassegno alla mia solitudine che gelosa conserva vivo il fiore dell'addio.


sabato 5 settembre 2009

Lettera non spedita (II)


Carissima Alessandra,
rileggendo vecchie lettere uscite dal dimenticatoio di una scatola come insetti da una pietra spostata, ho scoperto di aver perso anche te. Oltre l’immagine del ventre bianco quando il bikini scivolò lontano sopra un pattino che spingemmo al largo, oltre quella tristezza che una notte ti avvicinò a me, oltre l’altalena rossa, oltre quel falò lungo la spiaggia io non ho mai saputo andare. Mai.
Quel che successe dopo, l’ho rimosso, dimenticato con facilità, come un ombrello quando è uscito il sole. Non so perché non ti telefonai, ignoro se in qualche modo ti offesi o se ti sfiduciai o ti stancai: so soltanto che la corrispondenza all’improvviso cessò e non tentai di riallacciare quel filo spezzato.
Ed ora eccolo lì il segno non colto, la chiave che portava alla tua porta e come un passe-partout riusciva ad aprirla. Scusa, Alessandra: so che ti ho delusa, mi accorgo solo oggi di essere fuggito, di averti abbandonata per viltà.
Ora è tardi per poter rimediare: probabilmente avrai annodato il filo a un altro capo più forte del mio.


Brenda K. Bretvik, "San Tropez II"

sabato 29 agosto 2009

Ricevimento di nozze

per Alessandro e Donata

Oltre i fiori colorati del giardino e le mattonelle del parcheggio si spalancano i tavoli dei buffet con le caraffe colorate degli aperitivi alla frutta e i flutes dorati pieni di prosecco. Un'orgia di tacchi dodici e di velate trasparenze, di bizzarre stravaganze e di pochettes si mischia ad un fiorire di cravatte regimental su abiti scuri, a fazzoletti che spuntano dai taschini.

Lo sposo oggi potrebbe andare ad Ascot con quel mezzo frac ed il panciotto a righe: certo preferirebbe essere là, abbandonarsi ad un bicchiere di whisky e guardare i cavalli veloci correre sulle piste fangose invece di posare per le fotografie di rito, di essere continuamente chiamato fuori per essere ritratto con la sposa e i parenti tra le fontane e le panchine.

Le donne fumano nervose e guardando lo zampillo che scroscia nel giardino verde di maggio hanno voglia di fare pipì, si affollano nel bagno a due a due con le loro mises e le loro complicità. La sposa riesce finalmente a togliersi per qualche minuto le scarpe che le stringono i piedi: seduta ha voglia di essere lontano da qui, a Mykonos, dove l'attende la luna di miele, sdraiarsi pigra al sole di maggio mentre il mare le canta la sua nenia.

Gli uomini parlano al tavolo, dietro i bicchieri di Pinot e Bonarda. Raccontano di gite in montagna e di politica, di beghe da risolvere, di liti da appianare, di lavoro. Le giacche pendono dagli schienali, le maniche delle camicie sono ormai rimboccate, i nodi delle cravatte allentati.

Come una diva di Hollywood, finalmente entra la torta, acclamata da salve di flash e da battimani. Gli sposi esausti tagliano e sorridono, bevono incrociando i bicchieri di spumante come da tradizione. Una bambina legge la poesia augurale e immancabile parte il grido "Bacio! Bacio!". Gli sposi vorrebbero essere a mille miglia da qui, chiudere gli occhi e sciogliere la tensione della giornata.

Dietro le vetrate del ristorante scende ormai la sera, arrossa il cielo sopra le colline. Confetti e bomboniere si spampanano come rose sulle tovaglie chiare. Qualche invitato prende la giacca, il cartoncino con il menù, la scatoletta di cartone e se ne va. I tavoli si scombinano come tessere di domino, i commensali si riallineano, si fermano a parlare con altra gente. Gli sposi sono ormai sulla porta, salutano.

È giunta l'ora di andare: si augura agli sposi serenità e felicità, si bacia la sposa sulle guance, si stringe la mano allo sposo. Il ricevimento è finito, ma ancora ci si trattiene nel parcheggio a salutare persone che non si vedranno forse più. Si prova a dilatare il più possibile quella sensazione di festa. Ma è ora di andare, si sale in macchina e via...


Fotografia © BBC

sabato 1 agosto 2009

Lettera non spedita (I)


Carissima P.,
resterò qui da solo io che non so più neppure dire cos’ho; non ha parole il dolore che sento nel cuore. Tu sei andata via, tu forse non sei più mia. Io ora cosa farò? Cosa dirò? Passerà o non ti dimenticherò? Io, i miei problemi, il mio rimpianto perché forse è finito un amore. Guardo fuori: come piove sui fiori e sulle foglie nuove, ma che primavera può mai essere senza di te?

Il cielo mi somiglia: è grigio come me che non so se ti ho perduta o se mai ti ho avuta. So solo che sei stata un fragile amore, finito così, senza parole. Ricordo che una volta mi dicesti “stavolta spero che sia amore vero” e ti credevo sincera. Invece ora chissà dove vai, chissà se mai ritornerai. Io proseguirò tra la gente, per quanto la strada sia difficile e tortuosa. Io continuerò senza te, guardandomi attorno tra persone allegre o uguali a me, perché tutti hanno un dolore nel cuore.

E cercherò nell’aria il tuo riflesso, come facevo quand’eri con me e chiudevo gli occhi piano mentre tu ti addormentavi.


© Atelier

giovedì 7 maggio 2009

Allegato n. 1


Scusa se ti scrivo una lettera invece di venire a cercarti nei Giardini per dirti tutto quello che ho nel cuore : è che ho paura di non riuscire a parlare, di sentire la gola stringersi in un nodo. Sì, insomma ho paura di scoppiare a piangere. Non dire che sono una bambina... Invece è proprio questo il punto: sono una bambina se ho paura a darti il mio amore, se mi lascio prendere da questo remoto timore del legame, dal cruccio di cosa penserà la gente.

Ma io voglio cambiarti, voglio che tu smetta con l'alcool, con la droga, con i furti. Non riesci a renderti conto che ogni giorno che passa tu muori un po' di più? È così e io sono una vigliacca perché non me la sento di barattare il mio benessere di ragazza modello con la felicità, quel poco di felicità che riesco ad avere quando sono con te, quella felicità limata via minuto dopo minuto da quel veleno che ti inietti nel corpo e che ti ruba la mente.

Ma io ti voglio bene e sai quanta fatica e quanto dolore mi costi scrivere questa lettera: lo capirai anche tu dalla calligrafia stentata e dalle lacrime che macchiano il foglio di tanti laghi blu, i laghi blu dei tuoi occhi quando ti ho conosciuto che ora l'alga rossa della droga ha trasformato in due pozze d'acqua senza vita. Quel bacio all'Idroscalo lo ricorderò per tutta la vita: mi è sembrato di sognare quel pomeriggio di primavera mentre la radio trasmetteva le partite e i bambini giocavano tra l 'erba e l 'acqua.

Perciò ti prego : torna quel ragazzo dolce che eri allora, lascia tutto quel male che ti porti dietro e vieni da me. Ti aspetto a braccia aperte per darti tutto il mio amore. Aspetto il ragazzo di quella giornata di primavera all'Idroscalo.
Un grosso bacio.
Milena

"Marescia', abbiamo trovato un ragazzo morto per overdose ai Giardini. Non ci sono documenti. Solo una lettera di una ragazza di nome Milena".
"Fammela leggere, va'".


Ditz, "Writing home", 1984