sabato 27 ottobre 2018

Lo scenario


La finestra di questa stanza dove amo scrivere mostra una casa bassa, a un solo piano, immersa nel verde di pini, magnolie e palme. Dietro si stagliano alti pioppi su uno sfondo di cielo. Oggi è azzurro e piccole nuvole bianche galleggiano all'orizzonte. Amo dipingere questo scenario, sempre lo stesso, ma sempre diverso nel corso dei giorni e delle stagioni. L'acquerello ne cattura l'essenza, i colori d'autunno, la neve, il rifiorire di primavera, il rigoglio dell'estate. Ne coglie albe e tramonti e pomeriggi assolati e mattini dorati.

Adesso, per la combinazione della luce, nel vetro della finestra vedo riflesso il mio viso. Sono invecchiato. Non sono più il ragazzo che ero, se mi volto indietro capisco che il tempo è passato: credo di scorgere lei, che come un magnete mi attirava a sé con la sua dolcezza, e invece non è che un punto sempre più lontano sullo scorrere degli anni.

Eppure è solo ieri che rimanemmo a scandire le ore della notte attendendo che i fuochi d'artificio riempissero il cielo di fiori colorati, che le nostre bocche si unissero in un primo bacio. La sua presenza al mio fianco era nuova, il suo vestito a fiori tra le luci delle vetrine e i tavolini dei bar all'aperto era un orgoglio che mi riempiva il cuore, camminare al suo fianco, tenerla per mano, abbracciarla su una panchina. È solo ieri che ci giurammo amore scavalcando le transenne della spiaggia e la nostra gioventù. Solo ieri che ci dicemmo "Il futuro non conta, staremo insieme".

Ma il futuro, ahimè, contava: il tempo scivolò leggero sotto i ponti e lei veniva nei miei sogni a tentarmi con il suo ricordo: ripeteva discorsi, ne faceva di nuovi, si spogliava e sorrideva, lasciava che mi commuovessi, che mi svegliassi attonito per quel vetro spesso che rimaneva tra noi due, per quel silenzio che regnava nella stanza, per quel letto vuoto dove dormivo solo.

Una bava di vento scuote appena i pioppi, accarezza le foglie della magnolia che risplendono lucide al sole d'estate. Le finestre della casa di fronte riflettono il piccolo cortile lastricato, una tenda si muove nella brezza. Adesso lei come si comporterà, mi chiedo. Di lei che sarà stato? Chissà se ride e scherza, se ha trovato un nuovo compagno di vita, se dei figli hanno rallegrato la sua vita. Avrà assaporato mai quella felicità intensa che provammo in quei giorni? E io? Io continuo a praticare il mio gioco: come Gozzano, rimpiango la vita che poteva essere e non è...

2010


Tramonto

FOTOGRAFIA © DR

sabato 20 ottobre 2018

Il vecchio e i cachi


Il vecchio avrà novant'anni. Ha una testolina avvolta da una corona di capelli candidi che lo fanno somigliare a un pulcino spiumato, una barba sfatta e un corpo esile e impacciato che riveste di abiti che hanno visto, come il proprietario, tempi migliori. I calzoni sono oramai sbiaditi, il loro verde s'è fatto colore da camice ospedaliero; il maglione a rombi è un residuato degli Anni '70 e le tarme, anno dopo anno, vi banchettano alacremente.

È qualche giorno che lo osservo: si avvicina furtivo, ma in realtà deve essere la sua andatura naturale, fatta di passettini malfermi, e si apposta sotto il grande albero di cachi vicino alla strada. Il giardino appartiene a una casa rimasta disabitata dopo la scomparsa dei suoi abitanti; di tanto in tanto viene un figlio o una nuora a dare aria alle stanze.

Ma conosce gli orari, il vecchio... È lì sotto la pianta e rimane fermo come se osservasse il traffico per passare il tempo. Quando all'improvviso si fa il vuoto nella strada, allora con fatica si alza sulle gambette doloranti e appesantite e con un enorme sforzo si aggrappa ai rami più bassi, li tira a sé come una pingue rete da pesca, e dopo qualche tentativo riesce ad appropriarsi di uno o due di quei frutti arancioni, ancora acerbi. Li soppesa, li posa un attimo soltanto sul muretto, li ripulisce dalle foglie che sono rimaste attaccate al picciolo e si incammina lento con il suo tesoro in una mano.

Giorno dopo giorno, dopo giorno, per tutto il tempo di maturazione dei cachi. Oggi ha dovuto faticare più del solito: i rami bassi li ha ormai spogliati e ne ha dovuto attaccare uno più in alto. Però è stato fortunato: i frutti erano tutti uniti e formavano un bel gruppetto, ne ha portati via quattro. Se n'è andato zampettando come al solito, ma la sua andatura aveva un non so che di gioioso grazie a quel bottino insperato. Me lo sono immaginato tornare a casa dalla moglie, una vecchierella altrettanto esile e malmessa, come un criceto con le sue provviste per l'inverno. Quei quattro cachi acerbi e duri, che dovrà aspettare maturino per poterli mangiare e che, se avesse chiesto ai figli dei proprietari della casa, avrebbe avuto in abbondanza e senza fatica: anche quest'anno li lasceranno marcire sull'albero ormai spoglio, preda dei merli e degli stornelli... Come in una favola di Esopo...


Cachi

FOTOGRAFIA © YUKLE


sabato 13 ottobre 2018

La villa


Ora che lentamente gli alberi si spogliano disegnando tappeti dorati sul terreno, dalle finestre di casa esposte a meridione posso scorgere l'altana di una villa signorile costruita agli inizi del Novecento o forse sul finire del secolo prima: i decori in stile liberty ne sono testimonianza.

È un'apparizione che ogni autunno mi sorprende, per poi svanire nel rigoglio di aprile, quando le foglie ornano tigli, carpini e noccioli formando una coltre verde che fa piombare nel dimenticatoio la villa. Se mi ricordo della sua esistenza, è quando vi passo davanti sulla stradina ombrosa e fresca e ne intravedo i vecchi muri oltre la cancellata arrugginita e il lungo viale immerso nel folto giardino quasi come una cicatrice tra le piante.

Guardo quella grande casa in queste giornate d'autunno e ricordo un'altra villa signorile dove andavo a ripetizione di greco dalla giovane figlia di un medico che era stato un elemento locale di spicco del regime fascista. Mi ero sempre meravigliato di quanto giovane fosse la figlia e quanto anziano il padre: allora lei non era neppure trentenne, il genitore era sull'ottantina.

Arrivavo con la mia bicicletta, suonavo con timore al campanello e aspettavo che mi aprissero il largo cancello, poi entravo nel piccolo giardino all'italiana, sempre ben curato: in attesa che la ragazza scendesse mi sedevo su una panchina di granito consunta dal tempo e annerita dai muschi e dai licheni, osservavo le siepi di martellina e gli altissimi pini, le magnolie che profumavano con i loro fiori bianchi e carnosi quell'ombra che sapeva di muffa.

Mi sentivo catapultato in una poesia di Gozzano: quel posto poteva essere Villa Amarena, dove la Signorina Felicita conduceva la sua esistenza nel sogno di un'attesa vana o la romantica scena dove Carlotta e Speranza a metà Ottocento parlavano rapite dei loro amori. Poteva essere la casa dove Totò Merumeni si chiudeva a lasciarsi vivere, a meditare sull'arte e a scrivere poesie...

Poi la ragazza che mi doveva dare lezioni di greco arrivava con la sua gonna svolazzante o con un vestito estivo a fiori e mi conduceva nel regno segreto, in quelle stanze che odoravano sorprendentemente di cera e di lavanda, ci accomodavamo al grande tavolo dello studio e iniziavamo a tradurre in quella lingua ostica e affascinante, soffermandoci a valutare un aoristo o un ottativo.

Adesso guardo quell'altra villa dalla finestra, una tazza di caffè nella mano e tutti i miei ricordi aggrovigliati nel cuore. Cerco di rammentare il nome di quella ragazza, ma ne rivedo solo le fattezze, il viso bello e rotondo; ne risento la voce correggermi con dolcezza, salutarmi quando inforcavo la bicicletta per ritornare a casa. Mi sento come un altro personaggio di Gozzano, il sopravvissuto che "fissa a lungo la fotografia / di quel sé stesso già così lontano: / «Sì, mi ricordo... Frivolo... mondano... / vent'anni appena... Che malinconia!...»


Sargent

JOHN SINGER SARGENT, “VILLA DI MARLIA, LUCCA”



sabato 6 ottobre 2018

L’appuntamento


Dovrei già essere a Como adesso, incontrarti... Dovrei scambiare parole con te e raccontare di tutti questi anni trascorsi, dirti dove sono stato e cosa ho fatto e con chi. E tu dovresti fare altrettanto, condensare i giorni e i mesi in una sorta di curriculum. È così che fanno due che si ritrovano dopo tanto. È così che dovremmo fare noi, che abbiamo riallacciato il filo reciso grazie a un brevissimo scambio di e-mail.

Dovrei essere lì con te a seguire il riflesso ipnotico delle luci dell'imbarcadero, a lasciarmi spettinare dal vento che soffia sulla diga foranea guardando il cielo grigio rispecchiarsi nell'acqua del lago e agitarsi come mercurio dentro una bottiglia chiara. Dovrei essere lì, seduto su una panchina del lungolario o ai tavolini di un bar tra il viavai dei turisti e i pendolari che vanno verso la stazione.

Invece sto guidando sulla vecchia statale, senza fretta, senza preoccuparmi dei camion che mi avanzano lentamente davanti. Cerco pretesti alla mia fuga, cerco appigli che mi facciano desistere, che mi convincano a trovare uno spiazzo per invertire il senso di marcia e tornare a casa. Cerco una via d'uscita che mi consenta di non scoprirti diversa dal ricordo: mi dico che non potrei sopportare di vedere una ruga sul tuo viso. Temo il momento in cui mi si parerà davanti la città, distesa come un dépliant pubblicitario mentre il sole faticosamente disperde le nuvole e disegna riflessi tra i battelli alla fonda.

Guido e penso alle parole da dirti, mi preparo discorsi che immancabilmente so già si scioglieranno come neve al sole nella memoria non appena dovessi provare a pronunciarne uno. Mi guardo attorno, come se quelle parole le potessi trovare nel cruscotto e senza accorgermi ecco che la città si rovescia sul suo letto di colline, eccomi che parcheggio e cammino a piedi verso Piazza Cavour. Ora il filo dei pensieri si è spezzato: sorridi bellissima e mi saluti dal tavolino di un bar della piazza. È troppo tardi per fuggire: corro a baciarti sulle guance senza neanche scusarmi del ritardo.


FOTOGRAFIA © DREWAN1972