sabato 28 maggio 2016

La leggenda dell’ulivo

 

Una nuova città stava nascendo sulle mosse colline dell’Attica: il destino aveva preparato per essa molte glorie. Non aveva ancora nome quando due divinità lottarono per contendersi l’onore di darle il proprio. Ma come scegliere? Zeus quel giorno era di ottimo umore, non doveva tenere a bada gli amanti di Era né trasformarsi in pioggia per amare una donna: decise di intitolare la nuova città a chi tra Poseidone e Atena avesse portato il dono migliore.

Il dio del mare scosse il tridente e si mise a percuotere la sabbia bagnata della battigia: ne scaturì un meraviglioso cavallo bianco che incominciò a correre sul bagnasciuga. Poseidone pensò di avere ottenuto la palma della vittoria con quell’utile animale: poteva condurre lontano, tirare l’aratro, essere usato in combattimento.

Pàllada Atena invece si portò a ridosso delle mura in costruzione e sfiorò la terra con la sua lancia: d’incanto tutta la collina si ricoprì di piante dalle foglie d’argento con delle bacche verdi, centinaia e centinaia di ulivi. Era quello il dono migliore, come sentenziò Zeus: luce, alimento e simbolo di pace. In onore della dea la città venne chiamata Atene.

 

2009

Olivo

ELIDON, “ULIVO A FILIPAPPOU, ATENE”

sabato 21 maggio 2016

Adriano

 

Il treno percorreva la pianura, la solita tratta di ogni giorno, da Bergamo verso ovest, verso il sole. Fuori scintillava la luce del mezzogiorno ormai passato: la corsa partiva alle 13.05 precise dal binario 4. La nostra compagnia era eterogenea, variegata, si era andata formando a poco a poco, conoscenza dopo conoscenza, un amico di amico dopo l’altro.

Ci trovavamo sull’ultimo vagone, tassativamente nella carrozza per non fumatori. Di solito si rideva e si scherzava, si parlava di calcio o di donne, di moto, di auto, della musica del momento: era il periodo di transizione tra la discomusic degli Anni ’70 e la new wave degli Anni ’80. Tra gli italiani andavano per la maggiore Alberto Fortis, Rino Gaetano e Lucio Battisti. C’erano anche ragazze nella compagnia: si faceva un po’ la corte, con loro si parlava anche di film o di quello che avevamo visto alla televisione, dei posti che visitavamo la domenica. L’unica cosa che ci eravamo tacitamente vietati era di discorrere di scuola, di quello che avevamo fatto la mattina, dei compiti che avremmo dovuto fare nel pomeriggio. Quel momento era una specie di zona franca, un’oasi dove ricaricare le batterie e riposare la mente.

Ma quel giorno qualcuno lanciò il sasso: era un ragazzo di un paio d’anni più vecchio, ce n’erano due o tre che facevano la quarta geometri o la scuola di chimica dell’Esperia. La domenica successiva si votava per le politiche e loro, che avevano già compiuto i diciotto anni, si sarebbero recati alle urne per la prima volta. Chi aveva preso la parola si chiamava Adriano, era un piccoletto riccioluto con i bicipiti sviluppati dai pesi e una passione smodata per i Rolling Stones: «Ma voi domenica per chi votate?» chiese, poi gettò uno sguardo a noi e si corresse prontamente aggiungendo un «o per chi votereste?». Giuseppe si accarezzò i baffetti e disse di non fare mistero, che la sua famiglia era sempre stata comunista e che perciò anche lui avrebbe votato per il PCI. Davide disse di essere ancora indeciso, ma che probabilmente avrebbe scelto il Partito Liberale, sebbene i suoi avrebbero votato Democrazia Cristiana. «E voi che non votate?” chiese Adriano. Laura e Donatella si appellarono alla segretezza del voto ma poi si dissero orientate eventualmente verso i socialisti o i socialdemocratici. Emanuele e Nicola si dissero democristiani. Io mi dichiarai, cosa che poi più volte avrei ripetuto come una boutade nel corso degli anni, “agnostico” o “politicamente ateo”, schifato da quel sistema dei partiti. «Vedi, ti do ragione» mi disse Adriano, avvicinandomisi e battendomi una mano sulla spalla «questo sistema è superato e un giorno imploderà su se stesso. Per questo stavolta ho deciso di dare fiducia al Partito Radicale: voterò Pannella».

Questo ricordo è rimasto per anni sepolto nei meandri nella mia memoria: si è presentato all’improvviso quando, aprendo Facebook il pomeriggio del 19 maggio 2016, ho appreso della morte di Giacinto Pannella, detto Marco, come era indicato sulle schede elettorali. Un partito e un personaggio che non ho mai votato, ma che sapeva farsi sentire e ritagliarsi i suoi spazi. Aveva attirato giovani come Adriano in quelle politiche del 3 giugno 1981 e in elezioni successive, aveva condotto le sue battaglie anche con atteggiamenti provocatori. La domanda successiva che mi sono posto è stata però più privata: se Davide, Emanuele e Nicola mi capita ancora di incontrarli, che fine hanno fatto Laura e Donatella e Giuseppe? E soprattutto, che ne sarà stato di Adriano, con la sua tracolla militare sulla quale aveva scritto con la biro nera “I was born in a crossfire hurricane”?

19-20 maggio 2016

 

Treno

sabato 14 maggio 2016

I tre giorni

 

Per molto tempo, al compimento del diciottesimo anno un obbligo ha pesato su tutti i maschi italiani: la visita di leva, più familiarmente nota come “i tre giorni”. In una data fissata i nati nel trimestre si dovevano presentare alla sede del Distretto per sottoporsi ad alcuni esami medici e psicologi di idoneità in vista del servizio militare obbligatorio da prestare alla patria. Era per molti una sorta di iniziazione: ci si svincolava da madri e padri e forse per la prima volta nella vita ce la si doveva cavare da soli – sì: anche agli esami e alle interrogazioni, al lavoro di apprendista o di artigiano ci si presentava da soli, ma qui si trattava di porsi come individuo davanti allo stato, così come sarebbe stato poi per il conseguimento della patente di guida, di lì a poco.

Arrivava una cartolina-precetto azzurra (se non ricordo male, ma poteva anche essere verdolina) in cui si invitava l’iscritto Tal dei Tali a presentarsi presso il Consiglio di Leva per essere sottoposto a visita. Aveva anche due tagliandi valevoli come biglietti del treno già pagati (il Distretto intendeva che tu ti dovevi presentare e rimanere a dormire per quei tre giorni, ma in realtà tutti quanti tornammo a casa pagandoci di tasca nostra i quattro biglietti mancanti).

Fu così che una mattina di autunno mi arrivò la famigerata ma comunque attesa cartolina. Dovevo presentarmi a Como, piuttosto lontana sede del mio Distretto, alle ore 8.30 di un mattino di novembre – venerdì, sabato e quindi lunedì . Ero studente di liceo classico: il giovedì comunicai alla professoressa di latino e greco che sarei stato assente fino al martedì successivo per la visita di leva. Non ero il primo, naturalmente, né sarei stato l’ultimo. Ne prese atto e mi disse “Auguri”.

Mi alzavo presto, per andare a scuola: il treno per Bergamo partiva alle 6.57. Il treno per Milano invece faceva coincidenza e partiva due minuti dopo: vi salii con molti ragazzi della mia età del mio paese e di quelli vicini. Eravamo un’allegra comitiva di coscritti, anche se un po’ preoccupati di quello a cui avremmo dovuto sottoporci. Ritrovai anche alcuni miei compagni delle medie che non vedevo da anni. A Monza scendemmo e salimmo sul treno per Como. Poco prima delle otto passavamo accanto alla Basilica di Sant’Abbondio, già si annunciava la stazione. Scendemmo e raggiungemmo in un’unica frotta il Distretto. Lì ci selezionarono con un minimo di disciplina. Per tre giorni saremmo stati pagati dall’esercito, gli appartenevamo.

Delle visite non ho un chiaro ricordo: di certo la schermografia, un’occhiatina ai “gioielli di famiglia”, una bella guardatina ai denti, un po’ come si fa con i cavalli , la lettura del tabellone oculistico e qualche scartoffia da compilare vuoi per i precedenti sanitari vuoi per accertare eventuali tare psicologiche se non peggio. Di certo è che nel primo pomeriggio ci lasciavano liberi di tornare a casa con il nostro treno senza biglietto pagato.

Prima di venire via l’ultimo giorno, però, ci diedero il foglio di congedo provvisorio – che significava che eravamo abili e arruolati e che presto, salvo rinvii per motivi di studio o cause di forza maggiore (l’alluvione della Valtellina lasciò a casa tutta la provincia di Sondrio l’anno in cui poi fui infine chiamato a Merano) saremmo stati precettati per il servizio militare. Invece, chi non era abile veniva considerato “Rivedibile” o inviato all’Ospedale Militare di Baggio per accertamenti. A tutti pagarono la diaria, che in gergo veniva detta la “deca”: per i tre giorni mi diedero seimila lire in biglietti nuovi di zecca da duemila lire, quelli con Galileo Galilei e i monumenti di Piazza dei Miracoli a Pisa da un lato e l’osservatorio astronomico di Arcetri dall’altro, fior di stampa e con i numeri di serie consecutivi. Li conservo ancora come una reliquia dei miei diciott’anni: chissà che non abbiano anche un valore numismatico…

 

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sabato 7 maggio 2016

La chitarra

 

Il pomeriggio alle due io e Anna ci ritrovavamo nella saletta dell’albergo che ospitava il televisore. A quell’ora c’eravamo noi due soli, altri amici preferivano riposare o erano già scesi in spiaggia. Ci sedevamo sulle poltroncine rivestite di un tessuto scozzese a base rossa e guardavamo “Saranno famosi”. Restavamo in silenzio, in quella sala abbastanza fresca mentre dalla strada giungevano rumori di gente che si dirigeva in spiaggia.

Lasciavamo che le avventure di Leroy, Doris, Danny Amatullo (il mio preferito) ci prendessero, respiravamo l’atmosfera di quella scuola di New York come se ne facessimo parte, come se toccasse anche a noi organizzare spettacoli, seguire i corsi del professor Shorofsky, dover danzare sotto l’amorevole attenzione della coreografa Lydia.

Poi cominciava la sigla di coda, “Fame”, e ci trovavamo d’improvviso nel nostro mondo, come ridestati da un sogno. Anna prendeva la chitarra e cominciava a pizzicarne le corde, fermava un giro maldestro di accordi: erano gli Eagles di Hotel California e Desperado oppure il Bob Dylan di Blowin’ in the wind, o ancora la semplicissima Canzone del sole di Battisti.

Un pomeriggio intero, finito l’episodio, girammo a lungo per la cittadina in cerca di un ragazzo che le aveva promesso di accordare per sera lo strumento. Stava dalle parti della marina, ma lì ci dissero che forse era al porto, da lì ci indirizzarono a un bar sulla spiaggia dove immancabilmente sarebbe passato. Come Godot lo aspettammo invano e ci trovammo davanti a un falò dopo aver cenato cin un panino e un’aranciata. Anna suonava la chitarra scordata improvvisando accordi e note. Le faville salivano nel buio e io attendevo solo il momento di baciarla.

*

Quel che successe dopo, l’ho rimosso, l’ho dimenticato con facilità, come un ombrello quando è uscito il sole. Del resto succede spesso così con le amicizie estive, nate sotto un ombrellone e proseguite nei locali. Non so perché non le telefonai più, ignoro se in qualche modo la offesi o se la sfiduciai o la stancai: so soltanto che quella nostra corrispondenza all’improvviso cessò e non tentai più di riallacciare quel filo spezzato con Anna.

Eppure quella sera, mentre suonava la chitarra e le ombre disegnate dal falò danzavano sul suo viso, sul suo corpo, la chiave che portava alla sua porta mi sembrava a portata di mano. Ma solo oggi che ho avuto per caso sue notizie, che ho saputo che Anna è un architetto di grido, ripensando a quelle giornate di mare, ho compreso di averla delusa e ferita. Mi accorgo solo oggi di essere fuggito, di averla abbandonata per viltà.

Ora è tardi per poter rimediare: probabilmente avrà annodato il filo a un altro capo, più forte del mio.

1995

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FOTOGRAFIA © MRWALLPAPER