sabato 31 gennaio 2015

La sera si fa notte

 

Ed ecco che torni a fare la svampita per gioco: metti un dito in bocca, l’indice dall’unghia laccata di cremisi tra le labbra carnose e poi come se dirigessi tu l'orchestra segui il ritmo di Beethoven dallo stereo con il braccio teso e disegni nell’aria arabeschi con un’invisibile bacchetta.

Sei come una bambina se il gioco subito ti stanca e dici «Chissà adesso a New York che ore sono e che tempo fa... Quanto vorrei vivere a New York tra i grattacieli, lavorare in un ufficio ai piani alti che guardi giù e vedi tutta la baia, l’Hudson, la città...»

Per accendere il televisore e sognare New York in qualche telefilm o in un telegiornale, ti pieghi in avanti e i capelli ti scendono come un sipario a celare il seno nudo nella luce blu dello schermo. Ti vedo finalmente rilassata, un poco assorta. Mi chiami e mi racconti quel che accade nel film, mi dici «Guarda che bei posti, che aria si deve respirare lì». Non è New York ma un’isola caraibica di palme e mare turchino.

Dietro i vetri la sera si fa notte, la luna sale sempre più e io continuo a lavorare alla fioca luce della lampada sulla scrivania, tu continui a guardare il film, seduta sul letto. Poi d’improvviso fai ancora il gioco: sei una gatta che fa le fusa, gonfi le guance, ti strusci, fingi di lottare con un molosso. E lanci un’occhiata verso me per vedere se hai fatto centro, se mi hai colpito.

1993

Perez

FABIAN PEREZ, “PAOLA IN BED”

sabato 24 gennaio 2015

Con esasperata lentezza

 

Ti muovi con esasperata lentezza - la memoria ha questo suo aspetto un poco cinematografico, gioca con gli effetti, adora il flou e i colori leggermente pastellati, eterei, si impossessa del ralenti e lo mette in scena. Il ricordo proviene da un tempo ormai remoto, perduto: erano i giorni in cui bastava il tuo pensiero a vivere, ogni tua immagine si poneva come un’icona nel tempio della tua divinità. Ero il tuo sacerdote e il tuo fedele, tu eri la mia dea. Dietro di te il mare scintillante, qualche vela bianca alla deriva, soffusa come una pennellata in un dipinto, il sole in cielo appeso da qualche parte a soffiare quella luce che il flusso degli anni ha sbiadito.

Fossi ancora il ragazzo che ero, mi sentirei misero e sperduto di fronte a quell’amore per te. Mi perderei nelle meraviglie del tuo corpo, nei sogni tante volte costruiti e demoliti al pari di castelli di carte. Cederei alle tue carezze, alla visione del piccolo seno compresso dalla parte superiore del bikini, alla curva flessuosa della anche che dà al tuo incedere il passo ondeggiante delle fiere. Tornerei a orbitare intorno a te come un asteroide intorno a un pianeta, a prendere vita dal tuo respiro, a sorgere da ogni tuo bacio, a considerarti tutto il mondo, tutto l’universo conosciuto, tutta la mia vita. Come facevo allora.

Ma il tempo è passato e sappiamo entrambi di cosa sia capace, sappiamo di quella avidità di avventarsi con il suo maglio e mutare all’improvviso le cose. Sappiamo soprattutto di quella sua paziente opera, del lavorio continuo e impercettibile che di secondo in secondo lima qualsiasi cosa, dalle montagne ai grandi palazzi di città, dai vulcani alla moquette dell’ingresso. Siamo passati anche noi attraverso quel suo immane tritacarne, siamo sopravvissuti a costo di un amore, il nostro amore. Così, ora, il tuo ricordo apparso improvviso, evocato forse da un’immagine, forse da una parola, da chissà quale associazione di idee non mi fa più paura, non mi sgomenta, non mi dà dolore. Ti muovi con esasperata lentezza, ti volti verso di me, apri la bocca, sussurri qualcosa. Ma il vento si porta via le tue parole.

 

Karabelas

FOTOGRAFIA © NASOS KARABELAS

sabato 17 gennaio 2015

Neve

 

Neve, tanta neve, circa mezzo metro. Una coltre bianca che ha ricoperto ogni cosa stravolgendo le forme, disegnando un nuovo paesaggio sulle consuete cose. La neve che riporta alla mente la nevicata del gennaio 1985, che seppellì il Nord Italia e causò notevoli disagi, tanto che quando a Torino si giocò la partita di Supercoppa Europea tra Juventus e Liverpool, la "Gazzetta dello Sport" titolò "La neve ferma i treni ma non la Juve". Neve, quella che i meteorologi catastrofisti dell'effetto serra dicevano sarebbe scomparsa dalle nostre regioni. La neve cadrà con abbondanza anche nei prossimi anni, visto che il Polo Nord vede di nuovo formarsi i suoi ghiacci e la "Niña" raffredda le correnti del Golfo, smentendo gli allarmisti.

Questa neve che ci crea problemi, che non ci consente di uscire in auto, che rallenta i treni e sconvolge i loro orari peraltro già ballerini, questa neve che blocca le tangenziali e rende arduo viaggiare in autostrada, che cancella piste ciclabili e marciapiedi e ci costringe a camminare sul ciglio della strada su un manto battuto, però al contempo ci riempie di gioia e di allegria: la guardiamo cadere larga, depositarsi strato dopo strato, cominciare a formare falde sugli alberi e sui tetti; camminiamo sotto i suoi fiocchi quasi leggeri, dimentichi delle contingenze avverse, del fatto che magari non abbiamo potuto raggiungere l'ufficio, che un appuntamento importante è saltato. Perché risveglia il bambino che è in noi, quello che scendeva con lo slittino da una piccola discesa, che con guanti, berretto e sciarpa usciva in giardino a costruire un pupazzo di neve e cercava rametti e bottoni per simularne le braccia e gli occhi, che chiedeva alla mamma una carota per il naso. Questa è la piccola gioia della neve, che scende copiosa e trasforma le cose, che ci fa armare di pala e ci costringe a liberare il vialetto di casa: nevica, e torniamo bambini.

8 gennaio 2009

 

Neve0916

FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 10 gennaio 2015

Il solstizio d’inverno

 

Quando passa il solstizio d’inverno, i giorni sembrano subito più lunghi. Ci si accorge di quel baluginare della luce nel cielo del crepuscolo come se si fosse accesa un’esile speranza. Ci sono molti proverbi a testimoniarlo: “A Natale lo sbadiglio di un gallo” e poi “A Pasquetta (l’Epifania) un’oretta” e ancora “A sant’Antonio un’ora e un gloria”, a evidenziare l’importanza della luce nelle nostre vite. Eppure, per dire, il tramonto del primo di gennaio è all’incirca quello di Santa Lucia, e allora ci si lamentava di quanto si fossero accorciate le giornate. È questione di percezione, è il nostro desiderio di luce a influire sul nostro stato d’animo.

Così, anche di questa storia si può dire lo stesso: il nostro solstizio d’inverno è stato un chiarimento, la dichiarazione di un sentimento. Se prima di quel giorno ci muovevamo nell’incertezza e il nostro amore sembrava spegnersi sempre prima, essere sul punto di essere assorbito dalla notte dell’aridità, dal buio che cancella il sentire, dopo quel giorno invece abbiamo preso slancio, ci siamo accorti di quanta luce ancora c’è per noi, dapprima impercettibilmente, come quel metaforico sbadiglio di gallo, poi sempre più evidentemente, quasi come l’iperbole di un altro proverbio, “A San Sebastiano due ore in mano”.

È ancora inverno, certo. Ci sono molte cose da chiarire, ci sono eventi che non possiamo calcolare, ma il buio è alle nostre spalle, l’angoscia di quelle sere cadute con il loro velluto di stelle su un gelido dicembre. E, finalmente, aspettiamo primavera...

 

FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 3 gennaio 2015

Enologia

Il treno correva nella pianura gelata, un bel tepore a bordo invogliava al sonno. Due uomini parlavano di vini, di damigiane, di imbottigliamenti. Luca si lasciava dondolare dolcemente dal movimento ondulatorio del vagone, cominciò a pensare alle donne che aveva amato, incontrato, conosciuto e provò a paragonarle a dei vini.

Maria era un dolcissimo Moscato d’Asti, quelli che hanno una gradazione alcolica alquanto moderata, intorno ai sette gradi, e che di solito costano un paio di migliaia di lire, non di più. Per esserne ebbri bisogna scolarne intere bottiglie: è più probabile invece che diano il voltastomaco.

Paola era piuttosto un vino novello, un Beaujolais fresco e frizzante, un poco amarognolo, ma questo sapore, questo retrogusto più che altro gli deriva dall’essere ancora acerbo, ne è comunque la caratteristica che lo rende piacevole. Dà una gran gioia pensare che è il primo vino ottenuto dalla nuova vendemmia ad essere bevuto, fa ricordare recenti giorni d’estate.

Anna era certamente un corposo Barbera delle Langhe, forte da far girare la testa, da stordire già solo col profumo, pesante da buttar giù: un bicchiere basta ad annebbiare la vista, a dominare la mente. E in effetti Anna dominava, era lei a tirare le redini di quell’amore, a dettare legge.

Elvia era invece un vino greco, quello degli antichi, aromatizzato con cannella e altre spezie mediterranee o con la resina, un vino da gustare mangiando formaggio di capra e declamando poesie. A Elvia piaceva ascoltare, chiedeva spesso di raccontarle qualcosa, di recitare una poesia ed ascoltava come una bambina assorta presta attenzione ad una fiaba, con occhi stupiti e bocca spalancata.

Lucia era un vino da tavola: normale, senza troppa fantasia, né troppo forte né troppo poco, insomma giusto. Lucia faceva un vanto di questa sua normalità senza eccessi e senza troppi vizi; sarebbe stata certo la donna giusta da sposare per una tranquilla vita di coppia e con due bambini: uno splendido quadro familiare forse un po’ noioso.

E lo Champagne? Lo Champagne chi era? Quale donna avrebbe potuto incarnare la classe, l’eleganza, il gusto secco e frizzante, il valore dello Champagne? Forse era Daniela ad essere paragonabile ad esso, esuberante e delicata. Ma Daniela era forse più un buon Prosecco di Valdobbiadene o un Ferrari Brut che un Moët & Chandon. Certo, charme ne aveva, ma un fascino più italiano che francese.

Il treno continuava a correre per la pianura gelata; i due uomini che parlavano di vino si preparavano a scendere. Luca si addormentò.

(1991)

 

Perez

FABIAN PEREZ, “TESS IV”