sabato 28 marzo 2015

Aprile

 

“Era d’aprile. Quel movimento delle foglie, della terra, dell’aria, delle cose, luce che parla di domani, rimescolamento interno delle fibre di cui si era dimenticata l’esistenza”: così Dino Buzzati in un racconto pubblicato sul “Corriere della Sera” il 17 gennaio 1960 e incluso poi nelle “Cronache fantastiche”.

Aprile, il dolcissimo aprile, il “più crudele dei mesi” di Thomas Stearns Eliot, il periodo del pieno risveglio, del rigoglio più sfrenato in cui la natura si agita come una ballerina che esegue la danza del ventre. Il tempo dolcissimo delle giacche leggere, delle serate lunghe per restare nel tramonto a parlare con gli amici, seduti al tavolino di un bar o su una veranda dove l’aroma dei fiori si espande fragrante e inebriante. Lontano magari scintillerà il mare nell’ultima luce o il lago calerà nell’ombra delle montagne, o ancora il fiume scorrerà via lento e placido portandosi via i riflessi delle case sulle sponde.

Aprile, l’ora del sommovimento, del ritorno alla vita, del riemergere dalla crosta ghiacciata dell’inverno: e, fermi nel sole, su una panchina, su un muretto, su una seggiola si protende il viso per ricaricarsi di tutta l’energia che ci era mancata per lunghi mesi. Camminare per i giardini fioriti di narcisi, tulipani, giacinti e glicini, di ciliegi, peschi, pruni, magnolie e gelsomini è come andare in una pinacoteca: la vista ne è estasiata, l’olfatto è colpito dai profumi.

Aprile, lunghe camminate nei boschi, sui sentieri che discendono a serpentina verso il fiume, dove i bucaneve e le primule si sono ormai ritirate e l’erba cipollina già irradia il suo pungente aroma, dove fiori azzurri e violetti dei quali non si è mai saputo il nome spuntano da ogni forra, da ogni rupe, da ogni blocco calcareo in cui la terra è riuscita ad annidarsi. E sull’alzaia, nello splendore di sponde rese bianche dalla fioritura dei ciliegi selvatici, si passeggia senza fretta, rispecchiandosi nell’acqua verde, ubriachi della dolcezza di aprile.

 

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FOTOGRAFIA © JACKIE RUEDA

sabato 21 marzo 2015

L’iniziazione

 

Le parole hanno una forza che spesso sottovalutiamo: sanno blandire e accarezzare, come la voce flautata di una donna che sussurri momenti d'amore o di una madre che consoli il suo bambino con le ginocchia sbucciate; sanno trascinare, come negli infiammati discorsi di uomini carismatici; sanno anche ferire, talora inconsapevolmente. E sanno raggrupparsi come colori in un caleidoscopio per disegnare splendide poesie.

Ho spesso pensato che scrivere versi è compiere una specie di autoanalisi, valutare le proprie emozioni e fissarle perché non vadano perdute. Potrebbero essere, se l'immagine non mi facesse ribrezzo, farfalle fissate con uno spillo. Sì, scrivere significa conoscere se stessi, infilarsi nei meandri dell'inconscio e ricavarne impressioni che possiamo interpretare meglio dei sogni che vengono talora a popolare le nostre notti. Significa conoscere il proprio dolore o la propria malinconia, scavare terra per riportare alla luce le gioie dell'oro, per vedere rilucere le speranze, per risvegliare le illusioni.

C’è un momento fondamentale nella vita di un poeta, quello della folgorazione – come San Paolo sulla via di Damasco, ci si trova improvvisamente illuminati, sbalzati dal cavallo grigio della quotidianità, si comprende che il mondo ha un’essenza che ci viene rivelata in quel momento, la gioventù, è chiaro.

Il poeta è allora colto da un’ebbrezza, da una smania che lo porta a riconoscersi tale vergando i primi incerti versi, dei quali poi forse si vergognerà. Ma è il punto di partenza, l’iniziazione che ci porta nell’età adulta, come capita ancora in certe tribù che vivono ai margini della civiltà del XXI secolo.

Così capitò anche a me, ormai tanti anni fa, uno dei primi giorni di gennaio del 1980, attraversando in auto con mio padre uno sperduto paese di provincia. La poesia mi si manifestò, lampo improvviso nel grigio. Avevo poco più di 15 anni. Da allora ne scrivo ogni giorno, fedele al motto “Nulla dies sine linea”.

 

Criste

DIPINTO DI MIHAI CRISTE

sabato 14 marzo 2015

I fantasmi di ieri

 

Io credo di essere un collezionista di ricordi, un seduttore di spettri.
GESUALDO BUFALINO

Leggevo ieri alcuni aforismi di Gesualdo Bufalino. Vi sono molti spunti di riflessione nella dolceamara ironia dello scrittore siciliano, ma uno in particolare mi ha fatto pensare: "Oggetti di tenerezza: le comparse nei film americani degli anni Trenta, i dischi New Orleans, i calendari dell'anno passato".

È quello che cerco: non vivere nel passato, che sarebbe irrealistico, ma vivere tenendo conto del passato. È per questo che mi emoziono per certi vecchi film o per storie che raccontano di tempi anche relativamente lontani: il bianco e nero è già di per sé oggetto di fascino. È per questo che amo piccoli borghi dove il tempo sembra non essere passato: la Rocca di Gradara, Castell'Arquato, Montepulciano. E Piazza dei Mercanti a Milano, se la si guarda in modo da ignorare il Mac Donald's e le insegne delle banche. E naturalmente città come Parigi e Praga, Roma e Firenze, e soprattutto Venezia, con quel suo particolarissimo essere fuori dal tempo.

In quei posti si respira - anche solo per pochi istanti - l'atmosfera che vado ricercando, lo si potrebbe chiamare il profumo ancestrale del passato: come certi mistici abbandonano il corpo e si osservano dall'esterno, così allora mi sento. E gli oggetti, per ritornare a Bufalino, mi riempiono di tenerezza...

 

Bennion

MIKE BENNION, “THE OWL SANCTUARY”

sabato 7 marzo 2015

Ritter Sport

 

Prima sono passato al supermercato. C’era un espositore con il cioccolato Ritter, ne ho presa una confezione; è del tipo incartato di blu, quello al latte. Sono qui adesso che lo mangio a piccoli quadratini e – come Proust con la sua madeleine inzuppata nel tè – mi si spalanca un mondo di ricordi dolcissimi e lontani: “Sorvolavo rapidamente su tutto questo, imperiosamente sollecitato, com'ero, a cercare la causa di quella felicità, del carattere di certezza con cui si imponeva, ricerca un tempo rinviata”

Andavo a comperarlo nel supermercato Meinl di Via delle Corse, dalle parti di Piazza del Teatro, qualche sera, appena uscito dalla caserma per la libera uscita. Era quasi l’ora di chiusura e riesco ancora a sentirla, quell’atmosfera languida di qualcosa che sta per finire.

Prediligevo quello con lo yogurt ma talvolta prendevo anche quello con le uvette al rum, più raramente la tavoletta di cioccolato bianco con le nocciole intere. Gironzolavo per il supermercato, poi pagavo ed uscivo. Lo scartavo e cominciavo a sbocconcellarlo, girando per la città come un vagabondo, sentendo che quelle strade mi appartenevano, quei viali alberati, quelle chiese sul lungopassirio, quel fiume che si agitava sotto i ponti come un vibrare di specchi infranti.

Mi sembra quasi di sentirlo gorgogliare adesso il Passirio, passa sotto il ponte del Teatro, sotto il ponte della Posta, scorre via verso il ponte romano, verso Castel San Zeno, portandosi dietro il cielo ormai al tramonto. È primavera: sento nell’aria il suo languore, la dolcezza di quei giorni che avrebbero portato al congedo. È un sentore di fiori, un rilucere improvviso che avvolge la chiesa di Santo Spirito, il Duomo, che si infila nei Portici come una folata di vita.

Sono qui che mangio cioccolato Ritter e la dolcezza del ricordo mi avvince come miele.

 

Ritter

DISEGNO © CRYSTALHUNG