sabato 26 dicembre 2015

Un giorno alla volta

 

“La miglior cosa del futuro è che arriva un giorno alla volta”: dicono che sia stato il presidente americano Abraham Lincoln, ad affermare questo concetto pregno di speranza. Un nemico preponderante non può essere sconfitto lanciandoglisi contro: ne verremmo immediatamente travolti. Nel 480 avanti Cristo, quando Serse con i suoi trecentomila persiani invase la Grecia, la strategia ellenica fu di bloccare quell’enorme armata al passo delle Termopili: bastarono trecento valorosi spartani e settecento tespiesi per trattenere per tre giorni le truppe di Serse. Solo il tradimento consentì ai persiani di superare il passo e inondare la Beozia e l’Attica. È un concetto che vale anche per le nostre difficoltà, per i nostri problemi: dovremmo tutti travestirci da spartani e bloccare loro il passo, affrontarli a viso aperto uno per volta. L’atteggiamento più sbagliato sarebbe invece la scappatoia, la fuga dal combattimento: ci trasformeremmo in Efialte, l’abitante del posto che mostrò ai persiani la strada per oltrepassare il blocco.

La saggezza di Lincoln è la stessa di Lao Tzu, filosofo cinese di 2500 anni fa: “Anche un viaggio di mille miglia inizia con un passo” scrisse nel Tao Te Ching. Un giorno alla volta. Un passo alla volta. Dovremmo imparare che nulla è impossibile da affrontare, che nessuna impresa ci deve essere preclusa. Dovremmo considerare le difficoltà con questo spirito e fronteggiarle con ferma volontà e con una certa dose di calma – non sono forse di moda i manifesti con scritto “Keep calm and…”? - Un giorno alla volta. Un passo alla volta. Basta fare il primo…

2013

 

Lincoln

sabato 5 dicembre 2015

Una notte di pioggia

 

Piove. Sento le gocce picchiare sulla grondaia, tamburellare leggera su qualche tettoia. Sento anche il vento soffiare non troppo forte, un frusciare di fronde, un volo di foglie gialle che posso immaginare, così come immagino le luci del parcheggio che a quest’ora è deserta, l’insegna del bar ormai chiuso che si riflette sull’asfalto dove quasi nessuna auto transita.

Perché è il cuore della notte e non riesco a dormire: mi manchi con una forza che non avevo mai provato prima. Mi manchi come se mancasse una parte di me. Il tuo cuscino, la tua parte di letto sono freddi – e quella è la più alta simbologia della tua assenza: un vuoto che mi priva di calore, che mi lascia come una pietra abbandonata su un ruscello. Le pietre non hanno sentimenti, io sì.

È passato un camion, probabilmente quello della raccolta dei rifiuti che tra poco inizierà il suo giro. E mi sorprende un taglio di luce che prima non avevo notato, attraversa la persiana e si posa proprio dove tu avresti avuto adesso probabilmente una mano, morbida nel sonno mentre ti avrei stretta come se non volessi lasciarti più andare. Invece sono disteso a guardare sul soffitto buio timidissimi segni di luce. La sveglia a retroproiezione segna in rosso le 2.59. Mi manchi in maniera insopportabile, fino quasi a soffocarmi. Mi alzo a bere un bicchiere d’acqua. Mi sembra di sentirti respirare dolcemente. Mi sembra di scorgere la tua sagoma sotto le lenzuola. Illusioni degli occhi e del cuore, queste ultime anche più pericolose.

Fa freddo. Mi metto una coperta sulle spalle e controllo il cellulare. Ho la tentazione di chiamarti, ma sono appena passate le tre di notte e non è il caso. Torno a letto e resto a pensare che ormai ho bisogno di te, che formiamo una cosa sola, che siamo una macchina che non può funzionare se un pezzo è separato dall’altro. Ripercorro gli ultimi eventi, le parole che ti ho detto e che ti hanno ferito. Le parole che mi hai detto e che mi hanno ferito. Sembrano senza senso a quest’ora di notte. Sembrano futili i nostri motivi. Anzi, lo sono. Il prezzo da pagare è altissimo, è una ferita che si allarga sempre più, che diventa più profonda ogni minuto che passa. E questa notte è infinita, il tempo non passa: è come dilatato, un minuto ne conta due o più. La pioggia sembra aiuti a rallentarlo con questo quieto cadere, con questo ritmo lento.

Probabilmente la mia anima, il mio cuore – chiamalo come vuoi – non riesce a capire: ti cerca e non ti trova e, come un computer programmato per fare le stesse cose in sequenza, non si capacita e non è in grado di reagire diversamente. Potrebbe impazzire. Si rigira in questa solitudine che è come una siepe di rovi, un cavallo di Frisia di filo spinato, e si ferisce sempre di più. Sempre di più.

Adesso pavento anche il giorno, la luce che verrà con un’alba piovosa a rivelare il vuoto nel letto e nella casa con tutta la sua evidenza: non ti sentirò camminare a piedi scalzi, infilarti sotto la doccia, armeggiare in cucina con la macchinetta del caffè. Perché se adesso la notte mi tormenta, perlomeno attutisce in qualche modo l’intensità dei miei sensi. Il giorno no, il giorno li farebbe deflagrare.

Un messaggio. Ti mando un messaggio su Whatsapp, ecco la soluzione. “Scusami, amore. Perdonami, se puoi. Ti amo immensamente ♥”. Adesso aspetterò il suono di campanella, aspetterò che tu risponda...

 

Monk

ALYSSA MONK, “STAY IN BED, IT’S THE FREAKIN’ WEEKEND”